La gente tende a essere felice quando arriva la primavera, soprattutto dopo un freddo inverno.
Ma l’inizio vero e proprio della primavera non è indicato da un momento in particolare. Non c’è un giorno che segna con precisione la fine dell’inverno e l’inizio della primavera. La primavera si nasconde tra le pieghe dell’inverno. La vediamo emergere con i nostri occhi, la nostra pelle e tutti gli altri sensi. La troviamo nei fiori che sbocciano, nella brezza dolce e nel calore del sole. Esiste accanto all’inverno.
«Stai ancora pensando a Kaname?» chiese Nagare Tokita, quasi parlando tra sé e sé, mentre era seduto su uno sgabello a piegare tovagliolini di carta a forma di gru.
Nagare si rivolgeva a Kazu, che era alle sue spalle. Ma Kazu continuò a pulire il tavolino in silenzio e aggiustò la posizione del sottobicchiere su cui era posata la zuccheriera.
Nagare allineò la settima gru in fila sul tavolino.
«Secondo me dovresti tenere la bambina», disse guardandola con i suoi sottili occhi a mandorla mentre lei continuava con le sue faccende. «Sono sicuro che Kaname...»
Din-don
Il suono del campanello lo interruppe a metà frase, ma nessuno dei due disse Buongiorno, benvenuto.
In questa caffetteria, una volta oltrepassata la porta con il campanello bisognava percorrere un corridoietto prima di entrare nel locale vero e proprio. Nagare guardò l’ingresso senza aprire bocca.
Un attimo dopo comparve Kiyoshi Manda, l’aria un po’ imbarazzata. Aveva raggiunto l’età della pensione proprio quella primavera; indossava un trench e un vecchio cappello da caccia, e sembrava il detective di un poliziesco anni Settanta. Nonostante la professione che esercitava, nel suo aspetto non c’era nulla di minaccioso. Era alto più o meno come Kazu e aveva quasi sempre il sorriso sulle labbra. Somigliava a un qualsiasi signore affabile di una certa età, di quelli che si incontrano un po’ dappertutto.
Le lancette dell’orologio al centro della parete indicavano le otto meno dieci. Il caffè chiudeva alle otto.
«Si può?» chiese esitante.
«Certo, entri pure», rispose Kazu, mentre Nagare si limitò a fare un cenno con il capo.
Kiyoshi si sedeva sempre al tavolino più vicino all’ingresso e ordinava un caffè. Ma quella sera, anziché occupare il solito posto, rimase in piedi, incerto sul da farsi.
«Si accomodi, prego», lo invitò Kazu da dietro il bancone mentre gli porgeva un bicchiere d’acqua.
Kiyoshi sollevò il cappello malandato e ringraziò, poi si sedette su uno sgabello, lasciando un posto libero tra sé e Nagare.
Nagare radunò tutte le piccole gru di carta e, mentre si dirigeva verso la cucina, gli chiese: «Desidera un caffè come al solito?».
«Ehm, no, in realtà oggi...» Quando Nagare si girò per ascoltarlo, Kiyoshi rivolse un’occhiata alla donna in abito bianco. Nagare seguì il suo sguardo e strinse gli occhi.
«Eh?»
«In realtà sono venuto per dare questo...» disse tirando fuori una scatolina impacchettata, delle dimensioni di una penna. «A mia moglie.»
«Ma per caso è...?» esclamò Kazu, riconoscendo il pacchetto.
«Sì, è la collana che mi ha aiutato a scegliere», rispose timidamente Kiyoshi, grattandosi la testa da sopra il cappello.
L’autunno precedente aveva chiesto consiglio per fare un regalo di compleanno alla moglie, e Kazu aveva proposto una collana. Alla fine, non riuscendo a scegliere da solo, Kiyoshi l’aveva pregata di accompagnarlo in gioielleria.
«Avevo promesso di darglielo qui, ma quando è venuto il giorno del suo compleanno mi hanno chiamato per un’urgenza e non l’ho più fatto...»
Sentendo le parole di Kiyoshi, Nagare e Kazu si scambiarono uno sguardo d’intesa. «Perciò sta dicendo che vuole tornare al compleanno di sua moglie?» gli chiese.
«Esatto.»
Nagare si morse un labbro e non disse altro. Trascorsero due o tre secondi di assoluto silenzio. Seduto in quel caffè, a Kiyoshi parve un’eternità.
«Non vi preoccupate, va tutto bene. Conosco le regole a memoria», si affrettò ad aggiungere.
Ma Nagare rimase silenzioso e i solchi sulla sua fronte si approfondirono.
«Posso sapere che c’è?» chiese Kiyoshi, sempre più a disagio.
«Non vorrei essere villano, ma non capisco che bisogno c’è di tornare nel passato solo per dare un regalo a sua moglie», gli fece notare con un certo rammarico.
Kiyoshi annuì, come se finalmente capisse la ragione per cui Nagare aveva perso la parola. «Ah, ma certo... Adesso capisco», disse grattandosi la testa.
«Mi dispiace», disse Nagare, chinando il capo.
«No, no, va tutto bene... Ho sbagliato io a non darvi una spiegazione esauriente», si scusò Kiyoshi, prendendo il bicchiere che gli aveva servito Kazu. Ne bevve un piccolo sorso.
«Spiegazione?»
«Sì», ribatté Kiyoshi. «È passato esattamente un anno da quando ho scoperto che in questa caffetteria si può tornare nel passato.»
La spiegazione di Kiyoshi risaliva al giorno in cui era entrato in quel caffè per la prima volta.
*
DIN-DON
Quando Kiyoshi era entrato, un uomo rosso in viso stava piangendo nel tavolo più lontano, e una donnina fragile di una certa età gli stava seduta di fronte. Al bancone c’era un bambino che sembrava avere otto o nove anni e dietro il bancone c’era un omone alto due metri, probabilmente il barista.
L’omone non salutò Kiyoshi, impegnato com’era a osservare la coppia al tavolino in fondo alla sala. Solo il ragazzino si girò a guardare Kiyoshi, senza smettere di succhiare con la cannuccia il suo succo d’arancia.
“Non essere notati quando si entra in un caffè non è un gran problema. Di sicuro adesso si accorgerà di me...” Kiyoshi annuì al bambino e si accomodò al tavolino più vicino all’ingresso.
Appena si fu seduto, l’uomo in lacrime fu avvolto all’improvviso da una nuvola di vapore. E poi svanì, come risucchiato dal soffitto.
“Cosa?!”
Mentre Kiyoshi osservava la scena con gli occhi sgranati, una donna in abito bianco si materializzò sulla sedia da cui era appena scomparso l’uomo in lacrime. Sembrava di assistere a uno spettacolo di magia.
“Ma cos’è successo?”
Nel frattempo, la signora anziana si era messa a parlare con la donna in abito bianco. Da quello che gli era parso di sentire, stava dicendo: «Adesso, se c’è qualsiasi cosa che posso fare per rendere felice Kazu...».
La signora anziana era Kinuyo Mita e l’uomo appena scomparso era suo figlio, Yukio. Fu proprio assistendo a questa scena che Kiyoshi si convinse che i viaggi nel tempo non erano una semplice leggenda legata alla caffetteria.
Quando in seguito era venuto a conoscenza della sfilza di regole irritanti che bisognava seguire per tornare indietro nel tempo, si era stupito che qualcuno fosse disposto ad affrontare un simile viaggio. “Se non si può cambiare il presente, qualsiasi cosa si faccia nel passato, allora perché perderci tempo?” E così si era messo in testa di scoprire chi fossero le persone che decidevano di tornare indietro nel tempo.
«È stato villano da parte mia, lo so, ma ho deciso di fare qualche indagine sulle persone che sono tornate indietro nel tempo.»
Kiyoshi chinò la testa a Nagare, ancora fermo sulla soglia della cucina, e a Kazu, in piedi dietro il bancone.
«E così ho scoperto», proseguì tirando fuori un taccuino nero, «che negli ultimi trent’anni quarantuno persone si sono sedute su quella sedia e hanno viaggiato nel tempo. Ognuno aveva una ragione importante per farlo: ritrovare un innamorato, un marito, una figlia e così via, ma di queste quarantuno persone, quattro sono tornate nel passato per ritrovare qualcuno che era morto. Due l’anno scorso, una sette anni fa, e poi c’è stata tua madre ventidue anni fa... quattro persone in tutto.»
Sentendo la spiegazione di Kiyoshi, Nagare divenne paonazzo.
«Come diavolo ha fatto a saperlo?» gli chiese. A differenza di Nagare, Kazu sembrava del tutto impassibile.
Kiyoshi inspirò profondamente.
«Me l’ha detto Kinuyo prima di morire», disse in tono malinconico, poi guardò Kazu.
A queste parole, lei abbassò lo sguardo.
«L’ultima cosa che mi ha detto è che ti considerava come una figlia», aggiunse.
Kazu chiuse gli occhi lentamente.
«Ero molto curioso. Mi chiedevo perché fossero stati addirittura in quattro a voler tornare indietro per incontrare una persona cara defunta, pur sapendo di non poter fare niente per cambiare il presente.» Kiyoshi girò la pagina sul suo taccuino.
«C’è stata una donna che è tornata nel passato per incontrare sua sorella minore, morta in un incidente d’auto. Si chiama Yaeko Hirai... immagino che la conosciate, giusto?»
«Certo», rispose Nagare.
La famiglia di Hirai gestiva una locanda a Sendai, ed essendo la figlia maggiore avrebbe dovuto essere lei a occuparsene. Ma lei non ne aveva nessuna voglia, e quando aveva compiuto diciott’anni se n’era andata per conto suo. E i suoi l’avevano diseredata. Solo la sorellina minore era rimasta in contatto con lei. Anno dopo anno, veniva sempre a trovarla per convincerla a tornare a casa. Poi, dopo una di queste visite, era morta in un incidente sulla strada di ritorno.
Hirai aveva fatto un viaggio nel tempo per incontrare la sorella.
«Dopo aver incontrato la sorella nel passato, è tornata subito alla locanda dei genitori e l’ha presa in gestione. Siccome volevo sentire la sua versione della storia, sono andato a Sendai.»
Ormai erano passati sette anni e adesso Hirai era diventata la direttrice della locanda.
«E così le ho chiesto: “Come mai sei tornata indietro nel tempo per incontrare tua sorella, anche se sapevi che il presente non sarebbe cambiato?”. La mia domanda inopportuna l’ha fatta ridere e mi ha risposto così: “Se avessi condotto una vita triste dopo la morte di mia sorella, sarebbe stato un po’ come dire che era stata colpa sua. Perciò non potevo permetterlo. Ho giurato a me stessa che avrei fatto il possibile per essere felice. Mia sorella mi avrebbe lasciato in eredità la gioia”. A questo punto, ho capito anch’io una cosa fondamentale che mi era sempre sfuggita. Ero convinto che siccome mia moglie era morta, non avrei mai dovuto essere felice.»
Finito di parlare, guardò il pacchetto che teneva in mano.
«Sua moglie non è più tra noi, giusto?» gli chiese con un filo di voce Nagare.
Kiyoshi non aveva nessuna intenzione di rattristare l’atmosfera.
«No, ma è successo trent’anni fa», spiegò, cercando di smorzare il tono.
«Ah, allora era il compleanno della sua defunta moglie, giusto?» chiese Kasu.
«Esatto», rispose lui, guardando verso il tavolino centrale. «Quel giorno dovevamo incontrarci qui, ma io ho avuto un contrattempo sul lavoro. All’epoca non c’erano i cellulari, perciò lei ha aspettato fino all’orario di chiusura. Poi, sulla strada verso casa, è rimasta coinvolta in una rapina qui nei dintorni.»
Quando ebbe finito di parlare, si aggiustò il cappello sulla testa.
«Mi dispiace, non ne avevo idea. Devo esserle sembrato molto scortese poco fa...» si scusò Nagare, chinando il capo. Adesso si rimproverava per aver chiesto a Kiyoshi che bisogno avesse di tornare nel passato solo per consegnare un regalo di compleanno.
Benché non potesse sapere che la moglie di Kiyoshi era morta, non poteva fare a meno di darsi dello stupido per aver parlato senza pensare.
«Sono saltato subito alle conclusioni, quando invece avrei dovuto ascoltare l’intera spiegazione.»
«Oh, no, anzi, sono io che avrei dovuto spiegarmi meglio sin dall’inizio. Mi dispiace per la confusione», si affrettò a giustificarsi Kiyoshi, chinando il capo. «Per trent’anni ho vissuto con il rimorso. Se fossi venuto all’appuntamento, mia moglie non sarebbe morta e sarebbe stato tutto diverso. Invece...» Fece una pausa e rivolse lo sguardo a Kazu. «Posso pentirmi quanto voglio, tanto le cose non cambiano.»
Commosso dalle parole di Kiyoshi, Nagare si sentì inumidire gli occhi e guardò Kazu.
Quest’ultima sembrava voler dire qualcosa, ma non riusciva a trovare la voce e guardava nel vuoto, verso la donna in abito bianco. Kiyoshi osservò con affetto la scatolina che conteneva la collana.
«Ecco perché vorrei regalargliela finché è ancora viva», concluse a bassa voce.
Don... don... don...
L’orologio da parete rintoccò otto volte, e il suono riverberò nel locale.
Kiyoshi si alzò in piedi.
«Vi prego, fatemi tornare a quel giorno di trent’anni fa, quando mia moglie era ancora viva, il suo ultimo compleanno», disse, chinando ancora la testa.
Ma l’espressione cupa di Nagare non cambiò.
«Ehm, Kiyoshi, c’è una cosa che dovrebbe sapere...» attaccò. Si vedeva che faceva fatica a trovare le parole. «Uhm... è che...»
Kiyoshi rimase a fissarlo. Ma a parlare stavolta fu Kazu, con il suo solito tono imperturbabile.
«Vede, per via di certe circostanze, non mi è più possibile versare il caffè che fa tornare indietro nel tempo», comunicò.
Mentre Nagare trovava la situazione imbarazzante, Kazu parlava come se niente fosse, quasi stesse avvisando un cliente del fatto che il menu del pranzo era finito.
«Oh...» Kiyoshi parve molto turbato dalla notizia. «Be’, allora, in questo caso...» borbottò chiudendo gli occhi lentamente.
«Kiyoshi...»
Si girò verso Nagare, che stava provando a dire qualcosa.
«No, no, va tutto bene... Me lo sentivo poco fa che c’era qualcosa che non andava», disse con un sorrisetto. «Certo, mi dispiace, ma del resto non c’è niente da fare, giusto?»
Faceva del suo meglio per non lasciar trapelare la delusione, guardandosi attorno distrattamente senza incrociare gli occhi degli altri due. La cosa più ragionevole sarebbe stata chiedere il motivo per cui non si poteva più tornare nel passato, ma lui non lo fece. Se anche l’avesse fatto, il suo istinto da detective, che aveva affinato nel corso della sua lunga carriera, gli diceva che non avrebbe ottenuto risposta, perciò non aveva senso girarci attorno. E in più non aveva nessuna voglia di far perdere altro tempo a quei due. Annuì educatamente.
«Be’, se non sbaglio stavate per chiudere, no?» aggiunse, mettendo via il pacchetto.
E in quel momento...
Flap!
La donna in abito bianco chiuse le pagine del suo libro e il suono riecheggiò nel caffè.
«Oh!» esclamò senza volere Kiyoshi.
La donna si alzò lentamente e si avviò verso il bagno senza fare rumore. La sedia era rimasta vuota. Bastava sedersi lì per tornare indietro nel tempo, in una data a scelta. Kiyoshi non riusciva a pensare ad altro. Ma poi gli tornò in mente che non c’era nessuno disposto a versare il caffè.
Pensò che fosse un vero peccato, ma del resto non serviva perderci tempo.
«Bene, adesso me ne vado.» Kiyoshi salutò entrambi e si girò per andarsene.
«Kiyoshi, aspetti!» lo richiamò Nagare. «Deve ancora dare il regalo a sua moglie, no?»
«Ma se Kazu non può versare il caffè, come si fa?»
«Forse è ancora possibile...»
«In che senso, scusi?»
Nel corso dell’ultimo anno, Kiyoshi aveva imparato bene le regole dei viaggi nel tempo. E una delle cose che aveva appreso era che solo le donne della famiglia Tokita erano abilitate a versare il caffè per tornare nel passato.
«Aspetti solo un attimo», disse Nagare sparendo nella stanza sul retro.
Quando Kiyoshi guardò Kazu incuriosito, lei si limitò a spiegare, sempre in tono calmo: «Non sono l’unica donna della famiglia Tokita...».
“Come fa a esserci un’altra donna nella caffetteria, se non l’ho mai vista?”
Mentre Kiyoshi cercava di raccapezzarsi, sentì la voce di Nagare nella stanza sul retro. «Su, sbrigati!»
Poi sentì una seconda voce.
«Finalmente è arrivato il turno di moi!»
Era una voce di bambina, dal tono molto particolare.
«Ooh!» esclamò Kiyoshi quando la riconobbe.
«Grazie per aver aspettato, monsieur!» disse Miki a voce alta quando si affacciò nel locale. Kiyoshi era convinto che solo le donne adulte potessero versare il caffè.
«È lei, monsieur, che vuole tornare nel passato?»
«Miki, ti prego, parla giapponese come facciamo tutti», le ordinò esasperato Nagare.
Ma Miki fece spallucce: «Non è possibile, moi non è giapponese!».
Nagare emise un sospiro esagerato, quasi si aspettasse quella reazione. «Oh, che peccato! Una delle regole dei viaggi nel tempo è che la persona che versa il caffè debba essere giapponese...»
«Ehi, stavo scherzando! Certo che sono giapponese!» ribatté Miki cambiando atteggiamento all’istante.
«Sì, sì, lo sappiamo tutti», sospirò ancora Nagare. «Adesso sbrigati a prepararti», le ripeté indicando la cucina.
«Okay», ribatté entusiasta Miki, e corse via.
Nel frattempo, Kazu assisteva allo scambio di battute con aria distaccata, quasi non fosse presente.
«Kazu, ti prego, aiutala», le chiese Nagare.
«Sì, certo», rispose Kazu, come scuotendosi. Poi chinò il capo in direzione di Kiyoshi e seguì in silenzio la bimba in cucina.
Quando si fu chiusa la porta alle spalle, Nagare si rivolse a Kiyoshi.
«Ehm, mi dispiace...» disse, quasi a scusarsi che Miki perdesse tempo mentre lui non vedeva l’ora di tornare nel passato per incontrare la sua defunta moglie. Ma Kiyoshi non era affatto irritato, anzi aveva trovato lo scambio tra padre e figlia divertente e perfino tenero. Tra l’altro, gli bastava sapere di poter tornare nel passato per sentirsi soddisfatto. Il cuore gli batteva forte per l’eccitazione.
Kiyoshi guardò la sedia vuota.
«Non mi era mai venuto in mente che Miki potesse versare il caffè», disse.
«La settimana scorsa ha compiuto sette anni», rispose Nagare, guardando verso la cucina.
«Oh, è vero, adesso ricordo...» ribatté Kiyoshi.
Per versare il caffè che faceva viaggiare nel tempo non solo bisognava essere una donna della famiglia Tokita, ma bisognava anche avere almeno sette anni, gli aveva detto una volta Kazu. All’epoca non gli era sembrata un’informazione rilevante e se n’era completamente scordato.
Kiyoshi guardò ancora verso la sedia che l’avrebbe portato nel passato e si avvicinò, quasi attratto da una forza misteriosa.
“Sto per tornare nel passato.”
A quel pensiero, si sentiva il petto in fiamme.
«Prego, si sieda pure», lo incoraggiò Nagare.
Kiyoshi fece un respiro profondo e si strinse tra la sedia e il tavolino. Il suo cuore batteva sempre più forte.
Si accomodò sulla sedia e tirò fuori il regalo per la moglie.
«Kiyoshi», lo chiamò Nagare andandogli accanto, un occhio sempre rivolto alla cucina.
«Sì, che c’è?» chiese Kiyoshi, sollevando la testa.
Nagare si chinò su di lui e gli sussurrò all’orecchio coprendosi la bocca con una mano, quasi fosse un’informazione riservata.
«Deve sapere che è la prima volta che Miki versa il caffè, quindi probabilmente sarà un po’ sovreccitata e ci terrà a ripeterle tutte le regole da capo. Mi dispiace molto per la situazione, ma crede di poterlo sopportare?»
Kiyoshi capì alla perfezione cosa intendeva Nagare, come padre, e gli sorrise. «Ma certo, si figuri.»
Un attimo dopo, Miki uscì dalla cucina e gli si avvicinò a piccoli passi. Non indossava il grembiule con il papillon che di solito sceglieva Kazu per la cerimonia, ma il suo vestitino rosa preferito con un grembiulino color vinaccia sopra. Il grembiule era della madre, Kei, e Nagare l’aveva aggiustato in modo da poterglielo far indossare.
Miki reggeva con mano malferma il vassoio con la caffettiera d’argento e la tazza da caffè bianca, e il suo passo incerto faceva tintinnare la tazza sul piattino.
Kazu era ferma sulla soglia della cucina e la seguiva con lo sguardo.
Quando Miki arrivò di fianco a Kiyoshi, Nagare disse, in tono cerimonioso: «Miki, da adesso in poi sostituirai Kazu nella cerimonia del caffè, sei pronta?».
“Finalmente questo giorno è arrivato.”
La sua bimba stava per assumere un ruolo molto speciale. A giudicare dalla sua espressione seria, Nagare sembrava un padre sul punto di dare in sposa la propria figlia. Invece Miki non sembrava badare ai sentimenti del padre e stava solo attenta a non far cadere la caffettiera e la tazza da caffè.
«Eh? Cosa?» rispose impaziente. O non aveva capito lo spirito con cui le aveva parlato, o non aveva colto l’importanza del ruolo che stava per assumere.
Accorgendosi che tutta la sua attenzione era rivolta a non combinare disastri, Nagare si rese conto che era solo una bambina, e in cuor suo se ne rallegrò.
«Non fa niente...» sospirò. «Continua così, te la cavi benissimo», borbottò, con gli occhi ridenti.
Ma Miki non aveva tempo da perdere con i suoi commenti.
«Conosce le regole?» Si era girata verso Kiyoshi per cominciare tutta la spiegazione. Kiyoshi guardò perplesso Nagare, che fece un cenno di assenso. Allora Kiyoshi le chiese: «Me le puoi spiegare tu? Se vuoi, ti prendo il vassoio».
Lei chinò la testa e gli porse il vassoio. Tenendo in mano solo la caffettiera d’argento, si mise a spiegare tutte le regole.
*
Visto che Kiyoshi conosceva già tutte le regole a memoria, la spiegazione si risolse nel giro di pochi minuti.
Miki si dimenticò di ricordargli che non poteva alzarsi dalla sedia e qui e là trascurò altri dettagli, ma Nagare lasciò correre. “Lui conosce bene le regole, perciò non c’è problema”, si disse.
Miki sembrava molto orgogliosa della sua prestazione e si girò verso il padre con un sorriso fiero stampato in faccia.
«Splendido», commentò Nagare, «ma non far aspettare Kiyoshi!»
«Okay!» esclamò tutta contenta Miki, e si girò di nuovo verso Kiyoshi. «Procediamo?»
Fino ad allora, quando Kazu versava il caffè assumeva un’aria così seria che la temperatura della caffetteria sembrava abbassarsi di qualche grado.
Invece con Miki era tutto diverso. La sua espressione era affettuosa e sorridente, come una madre che guarda con amore il suo bambino. Il suo sorriso irradiava calore e sembrava fuori posto su una bambina di sette anni. Se era vero che le persone possedevano un’aura colorata, di sicuro Kazu sarebbe stata circondata di azzurro pallido, mentre Miki di arancione. Ecco quanto era calda e accogliente l’atmosfera attorno a lei.
Quando sorrideva, la temperatura sembrava alzarsi.
“Il suo sorriso è radioso come i raggi del sole in primavera”, pensò Kiyoshi. «Sì, procediamo», le disse con un cenno del capo.
«Okay», ribatté Miki. «RICORDI: L’IMPORTANTE È BERE IL CAFFÈ FINCHÉ È CALDO!»
Urlò tanto che la sua voce rimbombò tra le pareti del caffè.
“Un po’ troppo forte”, pensò Nagare facendo un sorrisetto ironico.
Miki sollevò la caffettiera sopra la testa e cominciò a versare. Il caffè formò un filo sottile mentre scendeva nella tazza bianchissima.
Per la piccola Miki la caffettiera doveva essere davvero pesante e lei faceva il possibile per tenerla con una sola mano, ma il beccuccio oscillò a destra e a sinistra, rovesciando un po’ di caffè sul piattino.
Miki prendeva la cosa molto sul serio, ma era una serietà diversa da quella di Kazu. Il suo tentativo di fare le cose per bene riscaldava il cuore. Mentre Kiyoshi era tutto concentrato sui gesti di Miki, la tazza si riempì di caffè e si sollevò uno sbuffo di vapore.
In quel momento, ogni cosa attorno a lui cominciò a deformarsi in una sorta di tremolio luccicante. Essendo già sulla sessantina, ebbe paura che quei sintomi fossero segno di un improvviso malore.
“Ma guarda tu, proprio adesso dovevo sentirmi male”, si disse. A ogni modo, le sue preoccupazioni si dissiparono in fretta.
Si rese conto ben presto che il suo corpo si stava trasformando in vapore. Era sconcertato, ma anche felice che quel senso di vertigine non dipendesse dal suo stato di salute. Fu come se cominciasse a fluttuare, mentre tutto attorno a lui gli scorreva accanto.
«Oh!» esclamò, non perché fosse colto di sorpresa, ma perché non aveva ancora deciso cos’avrebbe detto alla moglie, che non vedeva più da trent’anni.
“Sono sicuro che Kimiko non aveva idea che in questa caffetteria si potesse tornare nel passato...”
Mentre perdeva piano piano conoscenza, si chiese come avrebbe fatto a darle la collana.
*
Kimiko, la moglie di Kiyoshi, era una donna con un forte senso del bene e del male. Lei e Kiyoshi si conoscevano sin dai tempi del liceo e condividevano il sogno di entrare in polizia.
Tuttavia, pur avendo superato entrambi il concorso, il numero di reclute donne era molto basso a quei tempi e Kimiko non era mai riuscita a realizzare il suo sogno. Kiyoshi invece ce l’aveva fatta, e la sua passione per il lavoro non era passata inosservata, tanto da fargli guadagnare a soli trent’anni un posto nella Prima divisione crimini investigativi. A quei tempi erano già sposati da due anni. Kimiko fu sinceramente felice che il marito fosse diventato detective, mentre Kiyoshi non era certo di essere tagliato per quel ruolo.
Lui era affettuoso e amichevole e voleva entrare in polizia per mettersi al servizio degli altri. In più, ci teneva ad accontentare Kimiko, che aveva sempre nutrito il sogno di diventare poliziotta. Ma quando fu lui a rivestire quel ruolo, si ritrovò a fare una gran fatica. La Prima divisione crimini investigativi si occupava di omicidi, e così Kiyoshi doveva quotidianamente confrontarsi con il lato oscuro dell’umanità, in cui la gente toglieva la vita agli altri, spinta da egoismi personali o da istinti di sopravvivenza. Non si era mai sentito abbastanza forte da sopportare quella realtà sulla base delle sue semplici convinzioni e motivazioni, e spesso gli capitava di pensare che a lungo andare gli sarebbe venuto l’esaurimento nervoso.
Temendo il crollo, aveva deciso di confessare a Kimiko la sua decisione di lasciare il lavoro di detective. Siccome a casa esitava ad affrontare l’argomento, aveva approfittato del compleanno della moglie per invitarla in quella caffetteria con l’intenzione di dirle la verità una volta per tutte. Ma proprio quel giorno aveva avuto un contrattempo ed era stato costretto a rimandare l’appuntamento. In poche parole, aveva dato la precedenza al lavoro che sosteneva di odiare tanto. Come conseguenza, Kimiko era rimasta coinvolta nell’incidente che le era costato la vita.
Si era trattato in effetti di un tragico incidente. Non vedendo arrivare il marito, Kimiko era rimasta ad aspettarlo fino all’ora di chiusura. Uscita dalla caffetteria, aveva preso la strada più corta per la stazione, una viuzza laterale immersa nel buio. E fu lì che sorprese un borsaiolo che rapinava un’anziana signora. Messa faccia a faccia con un crimine, il suo forte senso etico le impedì di girare la testa dall’altra parte. Invece, si mise in mente di convincere il ladro a desistere, ma per farlo fu costretta ad avvicinarsi molto cautamente. Se l’avesse fatto spaventare, il ladro avrebbe potuto fare qualsiasi cosa all’anziana signora. Il malvivente brandiva un coltello, ma Kimiko chissà perché era convinta di potergli far cambiare idea. Poco dopo, tuttavia, dall’altro lato della strada qualcuno gridò: «Ehi, tu, cosa credi di fare?».
A quel punto, il ladro spinse via l’anziana signora e corse dritto in direzione di Kimiko. Non si sa se per il panico o per una semplice caduta, alla fine andò a sbattere contro di lei con il coltello ancora in mano. Era un semplice taglierino che non le avrebbe fatto alcun danno se fosse finito contro il suo cappotto, ma siccome il ladro le cadde addosso, la lama finì sul suo collo e le recise la carotide, facendola morire dissanguata di lì a poco.
“Se solo avessi mantenuto la promessa e le fossi stato accanto per proteggerla...”
L’impatto di quella disgrazia su Kiyoshi fu devastante. Gli bastava avvicinarsi alla caffetteria per sentire le palpitazioni: il trauma gli aveva segnato profondamente il cuore. Il trauma psicologico non è visibile dall’esterno, e questo genere di ferite non guarisce facilmente, soprattutto per uno come Kiyoshi, che si era convinto di aver causato la morte della persona che amava. Dopotutto, niente o nessuno gliel’avrebbe riportata indietro.
Non essendosi presentato all’appuntamento, Kiyoshi era sicuro di aver provocato la morte di Kimiko. Anche se il lato razionale del suo cervello accettava un’altra versione dei fatti, il suo cuore non ce la faceva. E alla fine si era convinto che con la morte della moglie sulla coscienza non aveva più alcun diritto alla felicità.
Ma, dopo aver parlato con le persone che erano tornate nel passato, aveva deciso che era tempo di cambiare.
*
«Wow, allora è vero! Un uomo è appena comparso dal nulla!» esclamò una voce maschile. Fu la prima cosa che Kiyoshi sentì dopo aver ripreso i sensi. Aveva perso conoscenza mentre viaggiava a ritroso nel tempo. Da dietro il bancone lo fissava un uomo che indossava un grembiule troppo stretto e sembrava un ricercatore universitario alle prese con chissà quale esperimento. Quando Kiyoshi guardò l’uomo e gli fece un cenno, l’uomo urlò: «Kaname!» e si ritirò nella stanza sul retro.
“Non sembra un membro del personale. Sarà uno nuovo?”
Seguendo il filo dei suoi pensieri, Kiyoshi si guardò attorno: era tornato a trent’anni prima, ma il locale non era per nulla cambiato. Anzi, era tutto identico, fin nel minimo dettaglio. Eppure non c’erano molti dubbi sul fatto che avesse viaggiato nel tempo: quell’uomo al bancone aveva chiamato Kaname, e Kinuyo gli aveva detto che la madre di Kazu si chiamava così.
Nella caffetteria non c’erano altri clienti. Kiyoshi stava per immergersi nuovamente nei suoi pensieri, quando una donna si affacciò dalla stanza sul retro. Indossava un grembiule rosso scuro su un vestitino a fiori con il colletto bianco, e si vedeva da lontano che aveva il pancione.
“Dev’essere...”
Era Kaname, incinta di Kazu.
Kaname gli sorrise.
«Buongiorno, benvenuto», lo salutò con un cenno educato. Con quell’espressione serena, non somigliava affatto al fantasma di nome Kaname che stava sempre seduto su quella sedia.
“Il genere di persona che potrebbe facilmente rompere il ghiaccio e andare d’accordo con chiunque.”
Ecco l’impressione che aveva fatto a Kiyoshi.
Alle sue spalle c’era un uomo seminascosto dietro la sua ombra, con l’aria di chi ha appena visto un fantasma. Kiyoshi li guardò come a scusarsi.
«Oh, vi ho per caso spaventato con la mia comparsa improvvisa?» chiese a Kaname.
«La prego, ci perdoni. È la prima volta che mio marito vede qualcuno materializzarsi su quella sedia.»
Per quanto parlasse in tono di scuse, non riusciva a nascondere un pizzico di divertimento. Dal canto suo, a giudicare dal rossore che gli si era diffuso in viso, anche il marito si vergognava di aver reagito in quel modo.
«Mi dispiace...» disse con un filo di voce.
«Oh, non c’è bisogno di scusarsi», ribatté Kiyoshi.
“Sembrano felici”, si disse.
«È venuto per incontrare qualcuno?» chiese Kaname.
«Sì, esatto.»
Kaname si diede un’occhiata attorno nel locale deserto e lo guardò con aria apprensiva.
«Va tutto bene. So con precisione a che ora arriverà...» spiegò Kiyoshi guardando l’orologio centrale, tanto per rassicurarla che sapeva come stavano le cose.
«Benissimo allora...» sorrise Kaname.
L’uomo in piedi alle sue spalle stava ancora fissando Kiyoshi come fosse un oggetto misterioso.
«Ma suo marito non l’ha mai vista versare il caffè?» le chiese Kiyoshi. Kimiko sarebbe arrivata a breve, ma lui non riusciva a resistere alla curiosità.
«Mio marito mi dà una mano qui al bar solo quando il lavoro gli lascia del tempo libero. In più, adesso non mi è più possibile versare il caffè che fa tornare indietro nel tempo.»
“La stessa espressione che ha usato Kazu.”
«Come mai non è più possibile tornare nel passato quando lei versa il caffè?» si ritrovò a chiedere Kiyoshi. Era come se il detective che c’era in lui si fosse improvvisamente riacceso. Nella sua testa, rideva della sua incapacità di trattenersi dal fare domande quando c’era qualcosa che non comprendeva fino in fondo.
Per tutta risposta, Kaname si posò una mano sul pancione.
«Per via della mia bambina...» sorrise tutta felice.
«Davvero? E come mai?»
«Quando una della famiglia incaricata di versare il caffè rimane incinta di una femmina, il suo potere viene automaticamente trasferito alla figlia...»
Kiyoshi sgranò gli occhi per la sorpresa.
«Ma io sapevo che si può officiare la cerimonia solo dopo i sette anni...»
«Sì, esatto! Lei è piuttosto ben informato, a quanto vedo.»
Kiyoshi non l’ascoltava più.
“Kazu è incinta. Eppure non mi sembrava molto felice.”
Se Kazu fosse stata felice della gravidanza, avrebbe visto sul suo viso almeno un sorriso come quello che si era dipinto adesso sulle labbra di Kaname.
“Magari è perché...”
Una certa idea lo colpì dritto al cuore.
E in quel momento...
Din-don
Quando suonò il campanello della porta, anche l’orologio sulla parete rintoccò.
Don, don, don, don, don...
Era l’ora in cui doveva arrivare Kimiko.
Nel frattempo, Kiyoshi era sprofondato nei suoi pensieri.
«La persona che stava aspettando è arrivata, a quanto pare.»
Sentendo il tono sollevato di Kaname, Kiyoshi trasse un respiro profondo e decise di procedere.
«Posso farcela...»
Notando la sua reazione, Kaname indicò al marito con un cenno di andare nella stanza sul retro. Non voleva che Kiyoshi si distraesse per nessuna ragione.
Nel caffè non era ancora entrato nessuno, ma era ovvio che nel corridoietto c’era qualcuno.
“Kimiko mi riconoscerà?”
Kiyoshi aveva il cuore a mille.
Kimiko non sapeva che in quella caffetteria fosse possibile viaggiare nel tempo, perciò era difficile che si potesse immaginare di incontrare il suo Kiyoshi invecchiato di trent’anni. Perciò no, era piuttosto improbabile che lo potesse riconoscere.
Tanto per tranquillizzarsi, Kiyoshi si aggiustò il cappello da caccia sulla testa.
«Buongiorno, benvenuta», salutò Kaname.
E un attimo dopo Kimiko entrò nel locale.
Kiyoshi sollevò lo sguardo e la vide di lato. Si stava guardando attorno. Poi si tolse il soprabito leggero e si sedette al tavolino centrale. Dalle sue spalle caddero a terra petali di ciliegio. Quando Kiyoshi tornò a sollevare lo sguardo, la vide di fronte.
Kaname le servì un bicchiere d’acqua.
«Posso avere un caffè, per favore?» chiese.
«Caffè caldo?»
«Sì, grazie.»
«Arriva subito.»
Mentre prendeva l’ordinazione, Kaname guardò fisso Kiyoshi. Quando i loro sguardi si incrociarono, lei sorrise e tornò a girarsi verso Kimiko.
«Se non le dispiace attendere, noi maciniamo i chicchi ogni volta», le comunicò con un pizzico di eccitazione nella voce.
«Sì, per me va bene, sto aspettando una persona.»
«Perfetto, si rilassi pure.»
Mentre lo diceva, Kaname guardò di nuovo Kiyoshi. Poi tornò in cucina, tutta soddisfatta. Nella sala erano rimasti solo Kiyoshi e Kimiko, seduti in modo da potersi guardare in faccia. Kiyoshi fece finta di prendere la tazza che aveva di fronte per squadrare il viso di Kimiko.
Trent’anni prima il Giappone era in pieno boom economico e i negozi di vestiti offrivano alle donne una vastissima scelta. Ma anziché indossare abiti colorati e sofisticati, Kimiko non era per niente interessata alla moda. Quel giorno, sotto il soprabito leggero, indossava un completo grigio con un golf marrone, eppure la sua compostezza e i capelli raccolti le davano un’aria molto elegante.
Kiyoshi la guardò ancora da sotto il cappello da caccia, stavolta proprio negli occhi, e addirittura le sorrise.
«Buonasera», lo salutò lei.
Kimiko non era timida. Se l’altra persona era più anziana, lei era sempre la prima a salutare. Kiyoshi le fece un cenno con il capo. Evidentemente, Kimiko non si era accorta che davanti a sé c’era suo marito Kiyoshi invecchiato di trent’anni.
“Forse le cose andranno lisce...”
Kiyoshi decise di procedere con il suo piano.
«Lei è Kimiko Manda?» le chiese.
«Eh?» ribatté sorpresa Kimiko. Come mai un uomo anziano che non conosceva la chiamava per nome?
«Sì, esatto. E lei è...?» rispose lei. Essendo nata per fare la poliziotta, era ovvio che reagisse a una situazione inaspettata con la massima calma.
«Be’, in realtà un uomo di nome Kiyoshi Manda mi ha chiesto di darle questo...»
«Mio marito?»
«Esatto.»
In quel momento, ci mancò poco che Kiyoshi si alzasse dalla sedia per darle il pacchetto.
«Ahhh! Ahhh! Signore!» si sentì urlare. «Stia fermo lì! Lo sa che non deve farlo!» gridò Kaname avvicinandosi con una mano sul pancione. Kiyoshi e Kimiko si voltarono all’unisono verso di lei, guardandola con aria stupita.
«Signore, non ha appena finito di dire che ha l’ernia del disco e non riesce a camminare?» lo avvertì Kaname con una strizzatina d’occhio.
«Oh, è vero!»
Kiyoshi si era completamente scordato della regola per cui non poteva abbandonare quella sedia mentre era nel passato. Se avesse sollevato il sedere dal suo posto, sarebbe stato catapultato all’istante di nuovo nel futuro.
«Ah, ohhh, già, fa un gran male!» esclamò simulando una smorfia di dolore mentre si reggeva la schiena con la mano.
Quella sceneggiata non ingannava nessuno, ma Kimiko non parve sospettare niente.
«Cosa? Ha l’ernia del disco? Si sente bene?»
«Sì, va tutto bene», rispose lui, ammirando la capacità di Kimiko di essere gentile con tutti, senza pregiudizi. Si ritrovò a dover trattenere le lacrime.
Kimiko si interessava sinceramente a tutti e si mostrava gentile con chiunque incontrasse. Non esitava mai e si comportava con totale fiducia. C’era chi la giudicava una ficcanaso, è vero, ma questo non la impensieriva. Era sempre la prima a cedere il posto sul treno a una donna incinta e a un anziano, e se vedeva qualcuno con l’aria smarrita a un angolo della strada, gli chiedeva sempre se voleva aiuto.
Ma Kimiko non lo faceva perché il suo sogno sarebbe stato entrare in polizia. Era semplicemente insito nella sua natura. Era stato proprio questo lato della sua personalità ad attrarre Kiyoshi quando andavano al liceo.
«Sicuro di star bene?» gli chiese preoccupata Kimiko.
«Sì, grazie», rispose lui in tono innaturale, distogliendo subito lo sguardo.
Stava sulla difensiva non tanto perché temesse di essere riconosciuto, ma per paura che l’irresistibile gentilezza di Kimiko lo facesse commuovere.
«Be’, allora adesso stia più attento, mi raccomando», gli disse Kaname. «E si ricordi che il caffè è più buono finché è caldo...» aggiunse prima di rientrare in cucina.
Kiyoshi guardò Kimiko con aria di scuse.
«Mi dispiace», le disse con un cenno del capo.
Ma anziché tornare a sedersi, lei gli guardò le mani e chiese: «Allora, era quello il pacchetto che doveva darmi...?».
«Ehm... Sì, esatto.»
Kiyoshi si affrettò a porgerle la scatolina.
Kimiko la prese e la squadrò perplessa. «Cosa sarà?»
«È il suo compleanno, giusto?»
«Eh?»
«Oggi.»
«Ah-ha.»
Kimiko sgranò gli occhi e fissò il pacchetto che teneva in mano.
«Suo marito teneva molto al fatto che lei ricevesse il suo regalo oggi. Mi ha detto che c’è stata un’emergenza, ma prima di correre via mi ha pregato di darglielo. Era qui una mezz’oretta fa.»
All’epoca la gente non andava ancora in giro con il cellulare o il cercapersone. Per disdire un appuntamento, bisognava chiamare direttamente il locale o chiedere a qualcuno di riferire il messaggio. Altrimenti, la persona aspettava inutilmente per ore.
A Kiyoshi capitava spesso di cambiare programma per colpa di un’urgenza sul lavoro, e in questi casi, se aveva appuntamento con Kimiko, chiedeva al primo che passava di avvertirla. Perciò, anche se un perfetto estraneo le stava dando il regalo di compleanno da parte del marito, Kimiko non parve troppo stupita.
«Davvero?» borbottò scartando rumorosamente il regalo. Dentro c’era una collana con un brillantino. Era la prima volta che Kiyoshi le faceva un regalo di compleanno. In parte perché era sempre troppo indaffarato per mettersi a cercare un regalo, in parte perché in passato Kimiko era rimasta traumatizzata dalla propria festa di compleanno.
Kimiko compiva gli anni il 1° aprile, il giorno del pesce d’aprile. Da piccola gli amichetti le davano spesso un regalino, poi le urlavano: «Pesce d’aprile!» e glielo strappavano di mano. Probabilmente non lo facevano per cattiveria, ma Kimiko ci restava sempre male, e Kiyoshi aveva assistito a una scena del genere anche quando frequentavano insieme il liceo.
Era il primo di aprile, i ciliegi erano in fiore e a scuola c’erano le vacanze di primavera. I compagni di classe si erano incontrati per augurarle buon compleanno. E come al solito, dopo averle dato il regalo, glielo tolsero urlando: «Pesce d’aprile!». Ovviamente era solo uno scherzo e un attimo dopo si misero tutti a ridere e glielo ridiedero.
Kimiko ringraziò con un sorriso, ma Kiyoshi intravide un lampo di tristezza nei suoi occhi. Se non le avesse voluto così bene, forse non se ne sarebbe neppure accorto. Anche dopo che si furono fidanzati, Kimiko cercava sempre di organizzare le cose in modo da non doversi aspettare regali il giorno del suo compleanno. Nonostante questo, Kiyoshi aveva deciso che voleva augurarle buon compleanno per bene, almeno l’ultima volta, e aveva affrontato il viaggio nel tempo per farlo.
Kimiko stava ancora fissando la collana.
«Buon compleanno...» disse con un filo di voce Kiyoshi.
Kimiko lo guardò sorpresa.
«Gliel’ha detto mio marito?»
«Eh? Sì.»
Come sentì la sua risposta, le si rigarono le guance di lacrime e Kiyoshi cominciò ad agitarsi. Era la prima volta che la vedeva piangere da quando si erano conosciuti. L’aveva sempre considerata una donna forte che sapeva far fronte a qualsiasi avversità. Anche quando si era vista respingere più e più volte dalla polizia per via del numero esiguo di posti riservati alle donne, non aveva mai pianto. Aveva sempre detto, con aria determinata: «Sarà per la prossima volta!». Ecco la Kimiko che conosceva Kiyoshi. Perciò, vedendola piangere in quel modo, rimase interdetto.
«Qua-qualcosa non va?» le chiese un po’ agitato.
Non sapeva se si sarebbe confidata con uno sconosciuto, ma voleva sapere disperatamente la ragione di quelle lacrime.
«Mi scusi, mi deve perdonare», borbottò lei. Tornando al suo tavolino, prese un fazzoletto dalla borsa e si asciugò gli occhi. Kiyoshi la guardava sempre più nervoso. Lei tirò su con il naso, assunse un’espressione coraggiosa e gli sorrise.
«Be’, in realtà ero convinta che mio marito oggi mi volesse lasciare.»
«Cosa?!» Kiyoshi non riusciva a credere alle sue orecchie. Le sue parole erano del tutto inaspettate.
Era tutto così assurdo che si pose il dubbio di essere tornato in una realtà alternativa a quella che conosceva lui.
«Oh, ecco...»
Sentiva il bisogno di dire qualcosa, ma dalla sua bocca non usciva nulla. Tanto per guadagnare tempo, prese la tazza e bevve un sorso di caffè, che però nel frattempo era diventato appena tiepido.
«Se non sono indiscreto, potrebbe spiegarmi più nel dettaglio?» Gli uscì un’espressione che usava spesso, e Kimiko scoppiò a ridere.
«Lo sa che sembra un detective?» osservò con gli occhi umidi.
«Solo se le fa piacere parlarmene, ovviamente...»
Per un istante si era davvero messo a parlare come un poliziotto, ma non poteva pensare di tornare nel presente senza una spiegazione delle lacrime di Kimiko. Certe volte la gente si confida solo con le persone care, ma altre volte ha bisogno di perfetti estranei per sentirsi a suo agio.
Kiyoshi non disse altro, ma si limitò ad aspettare una risposta da parte di Kimiko. Non poteva insistere troppo, del resto. Il tempo passava, ma lui sentiva che lei avrebbe parlato. Kimiko gli si piantò di fronte.
Kaname ruppe il silenzio arrivando con un caffè dall’aroma delizioso.
«Lo appoggio qui?» chiese indicando il tavolo di Kiyoshi.
«Perfetto», rispose senza esitare Kimiko.
Kaname posò il caffè e lo scontrino e tornò in cucina.
Kimiko, dal canto suo, prese la borsa e si spostò al tavolo di Kiyoshi.
«Le dispiace se mi siedo qui?» gli chiese poggiando una mano sulla sedia di fronte a lui.
«Ma no, si figuri», le rispose Kiyoshi con un sorriso. «Allora?» insistette.
Lei sospirò.
«Sono sei mesi che mio marito è di cattivo umore e mi riesce impossibile parlarci», attaccò.
«È spesso fuori casa per via del lavoro, e negli ultimi tempi, anche se è a casa, non dice altro che: “Ah-ha, okay, ma certo, scusa, stasera sono stanco...”»
Si asciugò di nuovo gli occhi con il fazzoletto.
«Oggi mi ha detto che doveva parlarmi di una cosa importante, perciò ho pensato che volesse mettere fine al nostro matrimonio», spiegò.
Kimiko guardò la collana che aveva ricevuto da Kiyoshi.
«Ero sicura che si fosse scordato del mio compleanno...»
Si coprì il viso con le mani e le sue spalle cominciarono a tremare violentemente.
Kiyoshi cercò di assimilare le parole della moglie. Non si era mai sognato di lasciarla in vita sua, ma a questo punto si rese conto che il suo comportamento era stato frainteso. All’epoca era oberato da un gran numero di casi importanti e non dormiva mai abbastanza. Allo stesso tempo, era perennemente tormentato dal suo dubbio di non essere tagliato come detective. In realtà, aveva sempre evitato di parlargliene per paura di rivelarle l’intenzione di lasciare il lavoro, ma adesso si rendeva conto che lei aveva interpretato il suo mutismo come sintomo di infelicità matrimoniale.
“Mi dispiace da morire aver dato questa impressione...”
Non possiamo mai leggere con certezza nel cuore degli altri. Quando la gente si perde nelle proprie preoccupazioni, rischia di non vedere i sentimenti delle persone più care. Kiyoshi non sapeva cosa dire alla moglie in lacrime di fronte a lui, visto che stava fingendo di essere un perfetto estraneo di passaggio in quella caffetteria. In più, mancavano solo poche ore e lei avrebbe perso la vita. Anche se sapeva che sarebbe successo, non poteva fare niente per evitarlo.
Allungò una mano e prese la tazza. A giudicare dalla temperatura, il caffè era quasi freddo. Poco dopo, si ritrovò a pronunciare parole che stupirono anche lui.
«Dopo che ci siamo sposati, non mi è mai venuto in mente di lasciarti.»
Sapeva benissimo di non poter cambiare la realtà, ma il pensiero che Kimiko morisse con questa preoccupazione gli risultava del tutto insopportabile. Poco importava che gli credesse oppure no: voleva rivelare la sua identità per alleggerirla almeno di quel dolore. Non poteva fare di più per lei.
«Vengo dal futuro, trent’anni per la precisione...» le comunicò, mentre lei lo fissava con gli occhi sgranati. «Ma la cosa importante di cui volevo parlarti era un’altra.»
Tossì, si raddrizzò sulla sedia e si aggiustò il cappello sulla testa, sentendosi osservato.
«In realtà volevo semplicemente dirti che avevo deciso di lasciare la polizia», le spiegò. Si copriva gli occhi con la tazza, perciò non vide la reazione di Kimiko. A ogni modo, proseguì.
«Dovevo andare ogni giorno su una scena del delitto diversa e stare a contatto con esseri umani disgustosi... Non ne potevo più. Vedevo sempre tutti quegli assassini depravati che non si fanno scrupoli a far male ai bambini e agli anziani. Mi faceva sentire più che triste: disperato è un termine più calzante... Era troppo dura. Non importa quanto ci dedichiamo al lavoro, i crimini non smettono comunque di esistere. E così avevo cominciato a chiedermi: perché mi voglio fare del male? Che senso ha? Ma ero convinto che se te l’avessi detto, tu... Ecco, sì, tu ti saresti arrabbiata a morte. Perciò rimandavo sempre il momento del confronto...»
Mancava poco e il caffè si sarebbe raffreddato del tutto. Non gli importava che Kimiko gli credesse o no: voleva solo dirle quello che sentiva fosse suo dovere.
«Ma non ti preoccupare. Non ho mai smesso di fare il detective...» le spiegò con un gran sospiro. «E non ci siamo mai separati», aggiunse con un filo di voce.
Kiyoshi mentiva con trasporto disperato e ben presto si sentì i palmi delle mani umidi. Kimiko non aveva ancora risposto. Lui si limitava a fissare la tazza che aveva di fronte, incapace di fare altro. Ma aveva detto tutto. Aveva troppa paura per guardarla in faccia, ma ormai non aveva più rimpianti.
«Il mio tempo è finito, adesso devo andare», disse. Ma appena lui toccò la tazza, lei finalmente parlò.
«Lo sapevo... Kiyoshi, sei davvero tu?»
Sentendola pronunciare il suo nome, gli occhi di Kiyoshi si riempirono di una luce calda.
Dal tono della voce, si capiva che Kimiko era ancora incredula. Eppure lei gli aveva detto che lo sapeva, e questo lo mandava in confusione. Era convinto che lei non sapesse che in quel caffè si poteva viaggiare nel tempo.
«Come facevi a saperlo?»
«Il tuo cappello da caccia...»
«Oh...»
Il malandato cappello da caccia che aveva in testa era un regalo di Kimiko. L’aveva fatto fare su misura quando era diventato detective.
Lei lo guardò.
«Vedo che l’hai usato un bel po’», notò con un sorriso.
«Esatto.»
Erano passati più di trent’anni da quando l’aveva ricevuto in dono, e ancora non poteva fare a meno di indossarlo.
«Il tuo lavoro dev’essere stato molto duro.»
«Direi di sì.»
«Perché alla fine non ti sei licenziato?» chiese lei, con la voce rotta.
La vera ragione era che non riusciva a liberarsi dal senso di colpa per aver provocato la morte della moglie, e restare detective era il suo modo di punirsi per tutta la vita. Ma guardandola negli occhi le rispose: «Tu sei sempre stata al mio fianco...».
«Davvero?»
«Ah-ha.»
«Sul serio?»
«Ah-ha», rispose ancora senza esitazione. Poi con la coda dell’occhio vide che Kaname lo guardava fisso. Gli fece un cenno, uno solo.
“Deve andare via subito.”
Kiyoshi capì al volo il significato di quel cenno. Guardò Kaname con la mano sul pancione e gli venne in mente Kazu.
Chinò la testa verso Kaname e guardò la tazza.
«Be’, adesso devo proprio andare.»
«Kiyoshi...»
Kimiko lo chiamò per nome mentre lui si portava la tazza alle labbra. Aveva capito dallo scambio con Kaname che era tempo di salutarsi.
«Sei stato felice?»
«Ma certo», rispose lui bevendo d’un sorso tutto il caffè. Quando lo sentì in bocca, si prese una gran paura. Il caffè era già più freddo della temperatura corporea.
“Se Kaname non mi avesse avvertito, il caffè si sarebbe raffreddato del tutto.”
Kiyoshi guardò di nuovo Kaname, e lei lo ricambiò con un sorriso meraviglioso.
Lui era in preda alle vertigini. Ogni cosa prese a scorrere veloce e dopo un attimo il suo corpo si trasformò in vapore bianco.
«Grazie...»
Vide Kimiko stringersi la collana al petto.
«...per il regalo.»
Lo guardava e sorrideva felice.
«Ti sta bene!» le disse con timidezza, ma non seppe mai se le sue parole l’avessero raggiunta.
*
«È tornato!» gridò forte Miki mentre Kiyoshi riprendeva conoscenza.
Miki si guardò attorno e fece un gran sorriso a Nagare. Il primo cliente che aveva mandato indietro nel passato aveva appena fatto ritorno. La bimba sembrava enormemente soddisfatta, e anche Nagare fece un sospiro di sollievo. «Ottimo lavoro», le disse, scompigliandole i capelli.
Solo Kazu era rimasta imperturbabile e sparecchiava la tazza di Kiyoshi al posto di Miki, che era ancora tutta eccitata.
«Com’è andata?» gli chiese Kazu.
«Quindi lei aspetta un bambino?» ribatté Kiyoshi.
Crash!
Nagare si fece sfuggire di mano un vassoio facendo un gran fracasso.
«Papà, non fare tutto questo chiasso!» lo rimproverò Miki.
«Scusate...» disse Nagare, raccogliendo in fretta il vassoio.
Kazu non aveva cambiato espressione. «Sì, esatto», rispose.
«Come ha fatto a saperlo?» gli chiese Nagare.
«Ho incontrato sua madre incinta di lei», spiegò Kiyoshi, guardando Kazu. «Sua madre mi ha detto che non poteva versare il caffè mentre era incinta.»
«Davvero?» commentò Kazu portando la tazza sporca in cucina.
In quel momento, la donna in abito bianco, Kaname, uscì dal bagno. Kiyoshi si alzò e le rivolse un inchino, cedendole il posto; poi Kazu tornò dalla cucina con una tazza di caffè per Kaname. Mentre lei le sistemava la tazza di fronte, Kiyoshi le sussurrò: «Sua madre sembrava molto felice».
Kazu si fermò un istante.
Non fu più di un secondo, e intanto Nagare e Kiyoshi attendevano ansiosi una sua reazione. Ma per fortuna Miki salvò la situazione e infranse un silenzio imbarazzante.
«Ehi, guardate!» urlò Miki.
Si inchinò a raccogliere qualcosa da terra. Tra il pollice e l’indice stringeva un petalo di ciliegio. Doveva essere caduto dalla testa o dalle spalle di qualcuno. Cogliere un petalo di ciliegio è un modo come un altro per notare l’arrivo della primavera.
Miki sollevò il petalo tra le dita.
«La primavera è arrivata!» esclamò, e Kazu le fece un sorriso dolce.
«Da quando la mamma non è più tornata dal passato», attaccò Kazu, in tono calmo, «ho sempre avuto paura di essere felice.»
Sembrava quasi che non parlasse direttamente ai presenti, anzi sembrava che parlasse alle pareti della caffetteria.
«Questo perché quel giorno, quando mia madre è scomparsa all’improvviso... il flusso costante di giorni felici e la felicità della persona a me più cara erano finiti per sempre.»
Le sue guance si rigarono di lacrime.
Dal giorno in cui Kaname non era più tornata dal passato, Kazu non aveva più fatto amicizie, neppure a scuola. La paura di perdere le persone care era troppo grande. Non si era mai iscritta a un club e non era mai entrata in un’associazione studentesca, né alle medie né al liceo. Anche se la invitavano, lei rifiutava sempre. Dopo il diploma, era tornata subito al caffè a dare una mano. Non aveva rapporti con nessuno e non mostrava interesse per gli altri. Dietro a quell’atteggiamento c’era sempre la stessa convinzione: Io non posso essere felice. Per tutta la vita. Ecco cosa si diceva.
Dedicava tutta sé stessa alla caffetteria. Non chiedeva altro e non sperava altro. Viveva solo per versare il caffè. Era il suo modo di punirsi per quello che era capitato alla madre.
A Nagare si inumidirono gli occhi. Erano le lacrime di un uomo che sin da quel giorno era rimasto sempre accanto a Kazu e si era preso cura di lei.
«È capitato anche a me», disse Kiyoshi. «Se fossi venuto al nostro appuntamento, forse lei non sarebbe morta. Ho pensato che la sua morte fosse colpa mia perché non ero venuto alla caffetteria. E così ho deciso che non mi meritavo di essere felice.»
Come Kazu, anche Kiyoshi era diventato schiavo del suo lavoro di detective. Aveva scelto deliberatamente una strada durissima, pensando di non meritare la felicità.
«Ma mi sbagliavo. E l’ho imparato dalla gente che ho conosciuto in questo caffè.»
Non aveva parlato solo con Kaname e Hirai, che era tornata nel passato per ritrovare la sorella morta. Aveva parlato anche con una donna che era tornata indietro per rivedere il fidanzato con cui aveva rotto e una donna che aveva viaggiato nel passato per vedere il marito che stava perdendo la memoria. Poi c’era un uomo che era tornato indietro la primavera precedente per rivedere la madre, morta in ospedale. E poi quell’inverno un uomo condannato a morire era venuto dal passato per riportare la felicità alla fidanzata rimasta sola.
«Ho trovato le sue parole particolarmente toccanti.»
Kiyoshi prese il suo taccuino nero e cominciò a leggere ad alta voce.
«“Se adesso provi a essere felice, il tuo bambino avrà messo a frutto i suoi settanta giorni. E in quel caso, la sua vita avrà avuto senso. Solo tu puoi dare senso alla vita che ha ricevuto in dono. Perciò devi fare il possibile per essere felice. E la persona che lo vorrebbe di più è proprio il tuo bambino.” In altre parole, il modo in cui vivo la mia vita rende felice mia moglie.»
Kiyoshi aveva letto e riletto quelle parole così tante volte che la pagina del suo taccuino era tutta sgualcita e macchiata.
Ma queste parole punsero sul vivo anche Kazu, che cominciò a piangere forte.
Kiyoshi si rimise in tasca il taccuino e si calcò in testa il cappello da caccia.
«Non credo proprio che sua madre non sia tornata dal passato per renderla infelice. Quindi metta al mondo la sua bambina e...» Trasse un respiro profondo e si girò verso Kazu, che guardava Kaname. «Si conceda di essere felice», aggiunse.
Senza dire una parola, Kazu chiuse lentamente gli occhi.
«Bene, grazie per il caffè.» Kiyoshi lasciò i soldi sul bancone e si diresse all’uscita. Nagare fece un cenno con il capo in risposta.
«Oh!» esclamò Kiyoshi girandosi di scatto.
«Ha dimenticato qualcosa?» chiese Nagare.
«No», ribatté lui rivolgendosi verso Kazu.
«La collana che mi ha aiutato a scegliere, a mia moglie è piaciuta moltissimo», disse. Quindi chinò la testa e uscì.
Din-don
Di nuovo, il silenzio calò sulla caffetteria.
Miki, felice di aver portato a termine il suo compito, cominciò a sonnecchiare tenendo stretta la mano del padre.
«Oh, ecco perché.»
Nagare si spiegò al volo come mai Miki fosse diventata all’improvviso così taciturna e la prese subito in braccio.
Il petalo di ciliegio, sfuggito alle sue dita, svolazzò fino a terra.
«La primavera, eh?» sussurrò.
«Bro...» iniziò a dire Kazu.
«Sì?»
«Allora... mi posso concedere di essere felice, giusto?»
«Ma certo. Miki può benissimo prendere il tuo posto da adesso in poi...»
Nagare si sistemò Miki in braccio.
«Nessun problema», ribadì, andando nella stanza sul retro.
Un lungo inverno stava per finire.
Il locale era sempre rimasto identico.
«Mamma...»
Appesa al soffitto, la pala di legno ruotava lenta.
«Voglio essere...»
I tre grandi orologi da parete mostravano ognuno un orario diverso. Le lampade con il paralume avvolgevano il locale di una luce color seppia.
Kazu trasse un respiro profondo in quella caffetteria dove il tempo sembrava rimanere sempre immobile e si portò una mano al pancione.
«Voglio essere felice!» esclamò.
Appena glielo sentì dire, Kaname, gli occhi fissi sul suo romanzo, sorrise con calore. Era lo stesso sorriso che Kaname aveva rivolto a Kazu quando era viva.
«Mamma?» disse Kazu, e in quel momento il corpo di Kaname volò verso l’alto, come il vapore che si solleva dal caffè appena versato.
Il vapore rimase ad aleggiare nell’aria per un momento e poi svanì nel soffitto.
Kazu chiuse lentamente gli occhi.
Kaname era scomparsa e al suo posto si era materializzato un signore di una certa età. L’uomo prese il romanzo lasciato sul tavolo e girò la prima pagina.
«Posso avere un caffè?» chiese a Kazu.
Per un istante lei rimase immobile, lo sguardo rivolto al soffitto. Poi finalmente si girò verso il nuovo arrivato.
«Ma certo, adesso glielo preparo», disse correndo in cucina.
Le stagioni scorrono in un ciclo continuo.
Anche la vita attraversa inverni difficili.
Ma, dopo ogni inverno, torna sempre la primavera.
Qui era appena arrivata.
La primavera di Kazu aveva avuto inizio.