Libro primo

Principi fondamentali. Le tre forme d’educazione

Tutte le cose sono create buone da Dio, tutte degenerano tra le mani dell’uomo.7 Egli costringe un terreno a nutrire i prodotti di un altro, un albero a portare frutti non suoi; mescola e confonde i climi, gli elementi, le stagioni; mutila il cane, il cavallo, lo schiavo; tutto sconvolge, tutto sfigura, ama la deformità, le anomalie; nulla accetta come natura lo ha fatto, neppure il suo simile: pretende ammaestrarlo per sé come cavallo da giostra, dargli una sagoma di suo gusto, come ad albero di giardino.

Pure, se così non fosse, tutto sarebbe ancora peggiore: la nostra specie non ammette di essere formata a metà. La situazione è ormai tale che un uomo, abbandonato a se stesso fin dalla nascita in mezzo ai suoi simili, sarebbe il più deforme di tutti. I pregiudizi, l’autorità, la necessità, l’esempio, tutte le istituzioni sociali in cui ci troviamo sommersi, soffocherebbero in lui la natura senza nulla sostituirle. In un uomo siffatto essa avrebbe vita stentata, quasi arboscello cresciuto per caso in mezzo a una strada e che i passanti fanno ben presto perire urtandolo da ogni parte, piegandolo in ogni senso.

A te mi rivolgo, madre amorosa e previdente,a a te che hai saputo discostarti dalla strada battuta da tuttib e proteggere l’arboscello nascente dall’urto delle opinioni umane! Coltiva ed abbevera la giovane pianta prima che muoia: i suoi frutti saranno un giorno la tua gioia. Erigi al più presto un recinto intorno all’animo del tuo fanciullo; altri potrà indicarne il tracciato, ma tu sola devi costruirvi la barriera.c

Le piante si coltivano, gli uomini si educano. Se l’uomo venisse al mondo grande e robusto, statura e forza gli sarebbero inutili, finché non avesse imparato a servirsene; gli riuscirebbero anzi dannose, impedendo agli altri di prendersi cura di lui;d abbandonato a se stesso, morirebbe prima ancora di aver conosciuto i propri bisogni. È consuetudine commiserare la condizione dell’infanzia: non si comprende che la specie umana sarebbe perita, se l’uomo non avesse cominciato a vivere come fanciullo.

Nasciamo deboli e abbiamo bisogno di forza; nasciamo sprovvisti di tutto e abbiamo bisogno di assistenza; nasciamo stupidi e abbiamo bisogno di giudizio. Tutto ciò che alla nascita non possediamo e che ci sarà necessario da adulti ce lo fornisce l’educazione.

L’educazione ci viene impartita o dalla natura o dagli uomini o dalle cose. Quella della natura consiste nello sviluppo interno delle nostre facoltà e dei nostri organi; quella degli uomini c’insegna a fare un certo uso di facoltà e organi così sviluppati; l’acquisto di una nostra personale esperienza mediante gli oggetti da cui riceviamo impressioni è l’educazione delle cose.

Ognuno di noi è dunque formato da tre specie di maestri. Il discepolo in cui i loro diversi insegnamenti si contraddicono riceve una cattiva educazione e non sarà mai in armonia con se stesso; ma se tali insegnamenti vertono tutti sugli stessi punti e tendono agli stessi fini, allora il discepolo raggiunge la sua meta e vive in modo coerente. Egli solamente è educato bene.

Ma delle tre diverse forme di educazione quella della natura è del tutto indipendente da noi e quella delle cose non dipende da noi che in parte. Solo l’educazione degli uomini è davvero in nostro potere; e anche questo potere è piuttosto teorico, poiché chi mai può sperare di controllare interamente discorsi ed azioni di tutti coloro che vivono intorno a un fanciullo?

Nella misura dunque in cui l’educazione è un’arte, appare quasi impossibile che abbia successo, poiché l’armonico concorrere dei fattori a ciò necessari non dipende da nessuno. Tutto quel che si può fare, usando ogni possibile premura, è avvicinarsi più o meno alla meta, ma per raggiungerla ci vuole fortuna.

E qual è questa meta? È la stessa della natura, come abbiamo dimostrato poc’anzi. Poiché il concorso delle tre forme di educazione è necessario al loro perfetto compimento, occorre armonizzare con quella che non dipende da noi anche le altre due. Ma forse la parola natura ha un senso troppo vago: cerchiamo di determinarlo.

La natura, sentiamo ripetere, non è che l’abitudine.e Che significa ciò? Non vi sono forse abitudini che si contraggono per costrizione e che, tuttavia, non giungono mai a soffocare la natura? Si pensi, ad esempio, all’abitudine contratta da certe piante di cui si ostacola la crescita in senso verticale. Lasciata libera, la pianta conserva l’inclinazione che fu costretta ad assumere; ma non per questo la linfa ha mutato la sua direzione iniziale e, se la pianta vegeta ancora, il suo prolungamento torna verticale. Lo stesso accade per le inclinazioni degli uomini. Finché restiamo nello stesso stato, possiamo conservare quelle provocate dall’abitudine e che sono per noi le meno naturali; ma non appena la situazione cambia, l’abitudine viene meno e la natura riprende il sopravvento. L’educazione certamente non è altro che un’abitudine. Ma non vi sono forse persone che dimenticano e perdono la propria educazione, mentre altre la conservano? Donde ha origine questa differenza? Se si deve limitare la definizione di natura alle abitudini conformi alla natura stessa, tanto vale fare a meno di questa vuota perifrasi.

Nasciamo dotati di sensibilità e, fin dalla nascita, riceviamo impressioni diverse dagli oggetti che ci circondano. Non appena acquistiamo, per così dire, coscienza delle nostre sensazioni, abbiamo tendenza a ricercare o a fuggire gli oggetti che le producono: dapprima, per il solo effetto gradevole o sgradevole delle sensazioni stesse; poi, a seconda della conformità o della estraneità che rileviamo tra noi e quegli oggetti; e infine guidati dal giudizio che ne diamo in base all’idea di felicità o di perfezione fornitaci dalla ragione. Queste disposizioni si estendono e si consolidano via via che si sviluppano in noi sensibilità ed intelletto; ma, tenute a freno dalle abitudini, vengono inoltre variamente alterate dalle nostre opinioni. Prima che l’alterazione si produca, tali disposizioni costituiscono in noi quella che io chiamo natura.

Su queste disposizioni primitive dovrebbe dunque fondarsi ogni azione educativa; e ciò sarebbe possibile, se le nostre tre forme di educazione fossero soltanto diverse: ma che fare quando sono addirittura opposte, quando, anziché educare un uomo per se stesso, si vuole educarlo per gli altri? In tal caso l’armonia diventa impossibile. Di fronte alla necessità di contrastare o la natura o le istituzioni sociali, bisogna decidere se formare un uomo o un cittadino: formare l’uno e l’altro insieme non si può.

Ogni società particolare, non troppo estesa e intimamente unita, si distacca dalla grande società umana. Il patriota è sempre duro verso gli stranieri: sono soltanto uomini e non hanno alcun valore ai suoi occhi.f Questo inconveniente è inevitabile, ma non grave. L’essenziale è comportarsi bene verso coloro con i quali viviamo. Fuori della sua città lo Spartano era ambizioso, avaro, iniquo, ma dentro le mura di Sparta regnavano il disinteresse, l’equità, la concordia. Diffidate di quei cosmopoliti che vanno a cercarsi remoti doveri sulle pagine dei libri e non si degnano di compierne intorno a loro. Vi sono filosofi che amano i Tartari, per essere dispensati dall’amare i propri vicini.

L’uomo naturale è un’entità del tutto a sé stante, è l’unità numerica, è l’intero assoluto che ha rapporto solo con se stesso o col suo simile. L’uomo civile non è che un’unità frazionaria condizionata dal denominatore e il cui valore risiede nel rapporto con l’intero, che è il corpo sociale. Le buone istituzioni sociali sono quelle che meglio riescono a snaturare l’uomo, a privarlo della sua esistenza assoluta per conferirgliene una relativa, a inserire l’io nell’unità comune, di guisa che ogni singolo individuo non senta più se stesso come unità, ma come parte dell’unità, e non abbia rilevanza alcuna se non nel tutto in cui è assorbito. Un cittadino romano non era né Caio né Lucio: era un Romano, e giungeva ad amare la patria fino al totale oblio di se stesso.g Regolo pretendeva di essere Cartaginese, in quanto divenuto proprietà dei suoi nemici, e coerentemente, ritenendosi straniero, rifiutava di sedersi nel Senato di Roma: fu necessario che un Cartaginese glielo ordinasse. Ma poi si indignava perché i concittadini volevano salvargli la vita. Ed ebbe partita vinta e se ne tornò trionfante a morire tra le torture. Esempi siffatti, se non m’inganno, hanno poca affinità con gli uomini che oggi conosciamo.

Lo spartano Pedarete si presenta per essere ammesso nel Consiglio dei trecento, ma è respinto: se ne torna a casa tutto contento, perché a Sparta si sono trovati trecento uomini più valenti di lui.9 Io ritengo sincero questo suo atteggiamento e c’è motivo di credere che realmente lo fosse: ecco il cittadino.

Una donna spartana aveva cinque figli soldati e attendeva notizie sull’esito della battaglia. Arriva un ilota ed a lei che, tremante, lo interroga, annunzia: «I vostri cinque figli sono stati uccisi». «Vile schiavo, è forse questo che ti ho domandato?» «Abbiamo riportato vittoria!» E la madre corre al tempio e rende grazie agli dei.10 Ecco la cittadina.

Colui che nell’ordine civile vuol conservare il primo posto ai sentimenti naturali non sa quello che vuole. Sempre in contraddizione con se stesso, sempre oscillante tra inclinazioni e doveri, non sarà mai né uomo né cittadino, non sarà buono né per sé né per gli altri; sarà un uomo dei nostri tempi, un Francese, un Inglese, un borghese; non sarà niente.

Per essere qualcosa, per essere se stessi e sempre coerenti a se stessi, bisogna agire come si parla; bisogna essere decisi sul partito da prendere, prenderlo a viso aperto e non staccarsene mai. Aspetto che mi si faccia vedere un così prodigioso individuo, per sapere se sia uomo o cittadino, oppure come faccia ad essere l’uno e l’altro ad un tempo.

Da questi due obiettivi necessariamente opposti derivano due forme contrarie di istituzioni educative: l’una pubblica e collettiva, l’altra privata e domestica.

Chi voglia avere un’idea dell’educazione pubblica, legga la Repubblica di Platone. Non è affatto un’opera politica, come ritiene chi giudica i libri solo dal titolo: è il più bel trattato di educazione che sia mai stato scritto.

Quando si vuol citare ad esempio un paese chimerico, si tirano in ballo le istituzioni educative di Platone: se Licurgo si fosse limitato a mettere le sue per iscritto, le troverei più chimeriche ancora. Platone ha soltanto purificato il cuore dell’uomo, Licurgo lo ha snaturato.

L’educazione pubblica non esiste più e non può più esistere, perché dove non è più patria non possono essere più cittadini. Queste due parole, “patria” e “cittadino”, debbono essere cancellate dalle lingue moderne. Ed io ne so bene la ragione, ma non voglio dirla, perché non ha nulla a che fare col mio tema.

Non considero come esempi di educazione pubblica quei ridicoli istituti chiamati collegi.h Né faccio maggior conto dell’educazione derivante dalla società, perché, mirando a due fini contrari, li fallisce entrambi: essa è capace soltanto di formare uomini ipocriti, che fanno sempre mostra di altruismo, mentre si preoccupano esclusivamente di se stessi. Ma poiché queste ipocrisie sono comuni a tutti, non ingannano nessuno. È tutta fatica sprecata.

Da queste contraddizioni nasce quella che sentiamo incessantemente in noi stessi. Trascinati dalla natura e dagli uomini in direzioni contrarie, costretti a dividerci tra questi impulsi diversi, finiamo per seguire una forza risultante, che non ci conduce né all’una meta né all’altra. Così, combattuti e ondeggianti per tutta la vita, ci ritroviamo al termine estremo senza aver raggiunto l’armonia interiore, senza essere stati utili né a noi stessi né agli altri.

Resta infine l’educazione domestica o quella della natura, ma che cosa sarà mai per gli altri un uomo educato unicamente per sé? Se fosse possibile fondere in uno solo il duplice scopo che ci si propone, forse, rimuovendo le contraddizioni dell’uomo, si eliminerebbe un grosso ostacolo alla sua felicità. Ma per poter giudicare di lui, bisognerebbe vederlo interamente formato; bisognerebbe averne osservato le inclinazioni, averne seguito i progressi grado per grado; bisognerebbe, in una parola, conoscere l’uomo naturale. Io credo che, leggendo il presente lavoro, si farà qualche passo innanzi in tali ricerche.

Che cosa dobbiamo fare per formare quest’uomo raro? Molto, indubbiamente: vegliare perché nulla sia fatto. Quando occorre navigare contro vento, si bordeggia; ma se il mare è violento e si vuole restare fermi, bisogna gettare l’ancora. Sta’ attento, o giovane pilota, a non lasciar filare la gomena, bada che l’ancora non slitti sul fondo e che la tua imbarcazione non vada alla deriva prima che tu te ne accorga.

Nell’ordine sociale, in cui ogni posizione è distinta dalle altre, ciascuno deve essere educato in rapporto a quella che occupa. Se un individuo abbandona la posizione sociale per cui è stato preparato, non è più capace di far nulla. L’educazione è utile solo a patto che la scelta della professione operata dai genitorii sia sorretta dalla fortuna; diversamente nuoce all’allievo, non foss’altro che per i pregiudizi che gli ha inculcati. In Egitto, dove il figlio era obbligato ad abbracciare la condizione del padre, l’educazione aveva almeno uno scopo sicuro; ma nella nostra società, in cui solo i ceti sociali sono durevoli, mentre i singoli uomini passano continuamente dall’uno all’altro, nessuno può sapere, quando educa il figlio in conformità del proprio ceto, se non lo danneggi.

Nell’ordine naturale, poiché gli uomini sono tutti eguali, la loro vocazione comune è la condizione umana; e chiunque sia stato ben preparato a tale condizione, non può non assolvere egregiamente i compiti che ne derivano. Che il mio alunno sia destinato alle armi, alla Chiesa o alla toga, poco m’importa. Prima che i genitori scelgano per lui una professione, la natura lo chiama alla vita umana. Ed io intendo insegnargli l’arte di vivere. Uscendo dalle mie mani, lo ammetto, egli non sarà magistrato, né soldato, né sacerdote; sarà innanzi tutto uomo: a tutti i doveri propri di un uomo egli sarà in grado di far fronte al pari di qualsiasi altro e, per quanto la fortuna possa fargli mutar condizione, egli si sentirà sempre al suo posto. Occupavi te, Fortuna, atque cepi; omnesque aditus tuos interclusi ut ad me adspirare non posses.11

Il vero oggetto del nostro studio è la condizione umana. Il meglio educato tra noi è, a parer mio, colui che meglio sa sopportare i beni e i mali di questa vita; ne consegue che la vera educazione non è fatta di precetti, ma di esercizi. Noi cominciamo ad istruirci nell’atto stesso in cui cominciamo a vivere; la nostra educazione ha inizio con la nascita e il nostro primo precettore è la nutrice. Si spiega così come la parola “educazione” avesse per gli antichi un significato che per noi non ha più: “allevamento”. Educit obstetrix, dice Varrone, educat nutrix, instituit paedagogus, docet magister.12 Così tra queste tre attività dell’allevare, dell’educare e dell’istruire vi è tanta diversità quanta ne intercorre tra nutrice, precettore e maestro. Ma tali distinzioni vengono fraintese e il bambino, per essere ben diretto, deve affidarsi a una sola guida.

Occorre dunque dare ai nostri propositi un carattere più generale e considerare nel nostro allievo l’uomo astratto, l’uomo soggetto a tutte le vicissitudini della vita umana. Se gli uomini fossero perpetuamente legati al suolo su cui nacquero, se la stessa stagione durasse per l’intero anno, se ciascuno fosse così vincolato alla condizione avuta in sorte da non potersene mai distaccare, la pratica ormai affermatasi sarebbe relativamente buona; educato in funzione del suo stato e mai desideroso di mutarlo, il fanciullo non potrebbe, divenuto uomo, trovarsi esposto agli inconvenienti di uno stato diverso. Ma se si considera la mutevolezza delle vicende umane, lo spirito irrequieto e volubile di questo secolo che tutto sconvolge ad ogni generazione, quale metodo potrebbe apparirci più insensato che educare un fanciullo come se fosse destinato a non uscir mai dalla sua camera e ad essere sempre circondato dai suoi? Se l’infelice fa un passo sulla terra, se solo discende di un gradino, è perduto. Così non impara a sopportare il dolore, ma si esercita a sentirlo più intensamente.

Si pensa soltanto a conservare il proprio bambino: non è sufficiente; occorre insegnargli a conservarsi da sé quando sarà adulto, a sopportare le percosse del destino, a sfidare l’opulenza e la miseria, a vivere, se necessario, tra i ghiacci dell’Islanda o tra le rocce infocate di Malta. Usate pure ogni possibile precauzione perché non muoia: dovrà ben morire una volta; e quand’anche la sua morte non fosse effetto delle troppe attenzioni, queste sarebbero pur sempre inopportune. Non importa tanto impedirgli di morire, quanto farlo vivere. E vivere non è respirare: è agire, è fare uso degli organi, dei sensi, delle facoltà, di tutte quelle parti di noi stessi per cui abbiamo il sentimento di esistere. L’uomo che ha vissuto di più non è quegli che può annoverare il maggior numero d’anni, ma colui che più intensamente ha sentito la vita. V’è chi s’è fatto sotterrare a cento anni, ed era morto fin dalla nascita. Meglio sarebbe stato per lui scendere nella tomba ancor giovane, pur che avesse veramente vissuto fino a quel tempo.13

Tutta la nostra saggezza consiste in pregiudizi servili, tutte le nostre consuetudini si risolvono nell’asservimento, nella costrizione. L’uomo civile nasce, vive e muore nella schiavitù: alla nascita lo imprigionano nelle fasce; alla morte lo inchiodano in una bara; finché conserva sembianze umane, è incatenato dalle nostre istituzioni.

Si dice che molte levatrici, manipolando la testa dei neonati, pretendano di darle forma migliore: e le si lascia fare! Le nostre teste sarebbero dunque malfatte così come le creò l’Autore del nostro essere: bisogna che siano riplasmate esternamente dalle levatrici, all’interno dai filosofi. I Caraibi sono di una metà più fortunati di noi.

Puericultura

Appena uscito dal seno della madre e appena in grado di muoversi e di stendere le membra, il bambino viene imprigionato in nuovi legami. Lo infagottano nelle fasce, lo coricano con la testa immobilizzata, con le gambe allungate, con le braccia pendenti lungo il corpo; lo avvoltolano in pannolini e in bende di ogni genere, che non gli consentono di mutar posizione. Felice lui se non lo hanno stretto al punto da soffocarlo, se hanno avuto la precauzione di coricarlo su un fianco, perché il liquido che deve rovesciare dalla bocca possa cadere spontaneamente! Altrimenti non avrebbe modo di girare la testa per agevolarne lo smaltimento.14

Il neonato ha bisogno di distendere e muovere le membra, per liberarle dal torpore in cui, avviluppate a guisa di gomitolo, sono restate per tanto tempo. E in verità vengono distese, ma se ne impedisce il movimento, e persino la testa viene imprigionata da cuffie: quasi si avesse paura di vedere in lui il minimo segno di vita.

Così in un corpo che tende a svilupparsi vengono totalmente ostacolati i liberi movimenti che l’impulso vitale delle sue parti interne richiede. Il bambino compie senza posa inutili sforzi che esauriscono le sue energie o ne ritardano lo sviluppo. Era meno stretto, meno impacciato, meno compresso nel seno materno che non nelle fasce: non vedo che cosa abbia guadagnato a nascere.

L’immobilità cui sono costrette le tenere membra rallenta la circolazione del sangue e degli umori, impedisce al bambino di rafforzarsi e di crescere, ne altera la costituzione. Nei paesi ove si ignorano precauzioni così stravaganti, tutti gli uomini sono alti, forti, ben proporzionati. Ma dove si usa infagottare i neonati nelle fasce, abbondano gobbi, zoppi, storpi, rachitici ed ogni sorta di consimili minorati. Per timore che il corpo si deformi nella libertà dei suoi moti, ci si affretta a deformarlo opprimendolo da ogni parte. Per evitare che il bambino si storpi, si accetterebbe quasi di farne un paralitico.

Una costrizione tanto crudele non può non influire sull’umore e sul temperamento dei bambini. La loro prima sensazione è di dolore e di pena: ad ogni movimento di cui hanno bisogno non trovano che ostacoli; più sventurati di un criminale in catene, esercitano sforzi inutili, si irritano, gridano. La prima loro voce, voi dite, è voce di pianto. Lo credo bene: li contrariate fin dalla nascita; i primi doni che ricevono da voi sono catene; le prime vostre cure sono tormenti. Non avendo altro di libero se non la voce, come potrebbero non servirsene per lamentarsi? Urlano per il male che fate loro: legati in questa maniera, voi urlereste ancora di più.

Donde deriva questa usanza irragionevole? Da un’altra usanza contraria alla natura. Da quando le madri, trascurando il loro primo dovere, hanno smesso di allattare i propri bambini, si è reso necessario affidarli a donne mercenarie; costoro, trovandosi ad esser madri di fanciulli estranei, verso cui non sentivano naturali stimoli di affetto, hanno cercato unicamente di schivare ogni molestia. Un bambino in libertà richiede sorveglianza incessante; ma quando è bene impastoiato, si può gettarlo in un canto senza darsi pensiero dei suoi strilli. Purché non vi siano prove della negligenza della nutrice, purché il lattante non si rompa un braccio o una gamba, che importa poi che abbia a morire o a restare infermo per tutta la vita? Si proteggono le sue membra a spese del corpo e, qualunque cosa succeda, la nutrice non ne ha colpa.

Quelle impagabili madri che, sbarazzatesi dei figlioli, si abbandonano liete agli svaghi della città, sanno poi quale trattamento sia riservato in campagna al loro piccolo in fasce? Se arreca il minimo disturbo, la nutrice lo appende ad un chiodo come un involto di stracci e, mentre ella disbriga tranquilla le proprie faccende, quel poverino se ne sta così crocifisso. Tutti quelli che sono stati trovati in questa posizione avevano il viso violaceo; non potendo circolare liberamente per la forte compressione del petto, il sangue risaliva alla testa. E si credeva che intanto la piccola vittima se ne stesse calma e tranquilla, solo perché non aveva la forza di gridare! Non so per quante ore un bambino possa restare in tale stato senza morire, ma dubito che possa resistere a lungo. È questo, a parer mio, uno dei maggiori vantaggi delle fasce.

Si pretende che i bambini in libertà potrebbero assumere posizioni dannose, compiere movimenti nocivi alla buona conformazione delle loro membra. Ecco uno di quei vani ragionamenti della nostra falsa saggezza, mai confermati dall’esperienza! Di tanti bambini che presso popoli più sensati di noi sono allevati nella piena libertà fisica, non uno se ne vede che si ferisca o si storpi; non hanno tanto vigore da rendere pericolose le loro mosse e, se assumono una posizione sforzata, subito il dolore li spinge ad abbandonarla.

Non ci è ancora balenata l’idea di mettere in fasce cuccioli e gattini: forse subiscono qualche inconveniente per questa negligenza? I bambini sono più pesanti, è vero; ma sono anche, in proporzione, più deboli. Riescono sì e no a muoversi: come potrebbero storpiarsi? Se si lasciassero distesi sul dorso, morirebbero in questa posizione, come tartarughe, senza potersi mai rivoltare.

Ma alle donne non basta aver smesso di allattare i bambini: ormai non vogliono neppure metterne al mondo. Ed è conseguenza ben naturale. Sentita come gravosa la condizione di madre, si trova presto il mezzo di liberarsene del tutto; si vuol compiere un atto infecondo, per poterlo sempre ricominciare, e si rivolge così a danno della specie umana quel piacevole stimolo che era destinato alla sua moltiplicazione. Questa usanza, aggiunta alle altre cause di spopolamento, ci lascia intendere quale sarà tra breve la sorte dell’Europa. Le scienze, le arti, la filosofia e i costumi che essa fa nascere non tarderanno a ridurla a un deserto. Sarà popolata soltanto di bestie feroci e, come genere di abitanti, non avrà cambiato di molto.

Ho visto qualche volta la commedia recitata dalle giovani spose che fingono di voler allattare i loro bambini. Sanno ben trovare il modo perché altri le spinga ad abbandonare cotale fantasia: fanno abilmente intervenire i mariti, i dottorij e soprattutto le madri. Un marito che osasse permettere alla sposa di allattare il proprio bambino sarebbe un uomo perduto: passerebbe per un assassino che vuole sbarazzarsi di lei. O mariti prudenti, è giocoforza sacrificare alla pace l’amore paterno. È fortuna per voi che si trovino in campagna donne più costumate delle vostre. Ed è fortuna ancor maggiore se il tempo che le vostre così risparmiano non è destinato ad altri.

Quale sia il dovere delle donne, non può esservi dubbio; solo si discute, stante la loro negligenza, se sia eguale per i bambini essere nutriti dal latte materno od altrui. Considero tale questione, in cui i dottori son giudici, bell’e risolta secondo i voti delle donne. E da parte mia aggiungerei che val meglio per il bambino succhiare il latte di una balia in buona salute anziché quello di una madre viziata, col rischio di ricevere qualche nuovo male dal sangue stesso di cui è formato.

Ma è giusto considerare la questione solo dal lato fisico? Forse il fanciullo ha minor bisogno delle cure di una madre che del suo seno? Altre donne e persino alcune bestie potrebbero dargli il latte che ella gli nega, ma la sollecitudine materna è insostituibile. Colei che nutre il bambino altrui invece del proprio è una cattiva madre: come potrà essere una buona nutrice? Potrà diventarlo, ma lentamente; occorrerà che l’abitudine subentri alla natura; e il bambino curato male, avrà tempo di morire cento volte prima che la nutrice provi per lui tenerezza di madre.

Ove poi questa vantaggiosa circostanza si avveri, ne risulta un inconveniente che dovrebbe togliere di per sé a ogni donna sensibile il coraggio di affidare ad un’altra la cura del proprio bambino: dividere il diritto di madre, anzi alienarlo; vedere che il figlio ama un’altra donna quanto e più di lei; sentire che il suo affetto per la madre vera non è che una grazia e quello per la madre adottiva un dovere. E invero, là dove ha trovato materne sollecitudini, non deve forse un’affezione di figlio?

Per rimediare all’inconveniente, si inculca nei bambini disprezzo per le loro nutrici, trattando queste come pure e semplici serve. Non appena è compiuta l’opera loro, si riprende il bambino o si licenzia la nutrice; poi, facendole ognora cattiva accoglienza, le vien tolta la voglia di far visita al suo caro poppante. Passato qualche anno, egli non la vede più, non la conosce più. La madre, che crede così di sostituirsi a lei e di porre rimedio con un atto crudele alla sua negligenza di prima, s’inganna. Anziché fare un tenero figlio del piccino allattato contro natura, lo avvezza all’ingratitudine; gli insegna a disprezzare un giorno colei che gli dette la vita come l’altra che lo nutrì del suo latte.

Con che piacere mi soffermerei più a lungo su questo argomento, se fosse meno scoraggiante ripetere invano inutili considerazioni. Eppure è un fatto le cui ripercussioni sono più vaste e numerose di quanto si pensi. Volete ricondurre ciascuno ai suoi primi doveri? Cominciate dalle madri: sarete stupiti dei cambiamenti che otterrete. Tutto il male procede di grado in grado da questa prima depravazione; l’intero ordine morale ne risulta alterato; le inclinazioni naturali si spengono nei cuori; l’atmosfera delle case diviene meno viva; non v’è più il commovente spettacolo di una famiglia nascente che avvince a sé i mariti, che impone riguardi agli estranei; decresce il rispetto per la madre che non è circondata dai figli; non v’è più stabilità nelle famiglie; l’abitudine cessa di rafforzare i vincoli del sangue; non più padri, né madri, né figli o fratelli o sorelle: si conoscono a pena, come potrebbero amarsi? Ciascuno ormai pensa soltanto a se stesso. E invero, quando la casa non offre che una triste solitudine, è pur necessario recarsi altrove a cercarvi un po’ di allegria.

Ma che le madri si degnino di allevare i loro figlioli; e allora i costumi ridiventeranno spontaneamente migliori, i sentimenti naturali si ridesteranno in tutti i cuori, lo Stato si ripopolerà: in quel primo, in quel solo principio sono racchiusi tutti questi effetti. L’attrattiva della vita domestica è il migliore antidoto ai cattivi costumi. Il chiasso dei fanciulli, che si crede fastidioso, diventa piacevole: rende il padre e la madre più necessari, più cari l’uno all’altra, rafforza tra loro il vincolo coniugale. Quando la famiglia è viva e animata, le cure domestiche divengono la più grata occupazione della sposa e il più dolce passatempo del marito. Così la correzione di questo solo abuso provocherebbe ben presto una riforma generale e in breve la natura riprenderebbe tutti i suoi diritti. Tornino una buona volta le spose ad essere madri e subito gli uomini saranno di nuovo padri e mariti.

Discorsi superflui! Anche la noia dei piaceri mondani non riconduce mai a quelli familiari. Le spose hanno cessato di essere madri e non lo saranno più, non vogliono più esserlo. E quand’anche volessero, difficilmente potrebbero; invalsa ormai la consuetudine contraria, ciascuna dovrebbe combattere l’opposizione di quante la circondano, alleate contro un esempio che le une non hanno dato e le altre non intendono seguire.

Vero è che si trovano ancora, talvolta, giovani donne di buona indole che, osando in ciò sfidare la tirannia della moda e i clamori del loro sesso, adempiono con intrepida virtù questo dolce dovere imposto loro dalla stessa natura. Possa il loro numero accrescersi per l’attrattiva dei beni riservati a quante vi si consacrano! Fondandomi su conseguenze che il più semplice ragionamento basta ad illuminare e su osservazioni che non ho mai visto smentite, oso promettere a queste degne madri la salda e costante affezione dei mariti, una tenerezza veramente filiale da parte dei figli, la stima e il rispetto del prossimo, e parti felici senza inconvenienti né immediati né postumi, una salute forte e vigorosa, e infine il piacere di vedersi imitate dalle proprie figlie e portate ad esempio a quelle degli altri.

Dove non c’è madre non ci sono figlioli. I loro doveri sono reciproci: se male adempiuti da una parte, saranno trascurati dall’altra. Il figlio deve amare la madre prima di sapere che ha il dovere di amarla. Se la voce del sangue non è rafforzata dalla consuetudine e dalle cure, si spegne già in tenera età e il cuore, per così dire, muore prima ancora di nascere. Ed eccoci allora, fin dai primi passi, fuori della natura.

Al distacco dalla natura, però, si può giungere per altra via del tutto opposta, quando la madre, anziché trascurarle, spinge all’eccesso le cure materne, quando si fa un idolo del suo bambino, ne accresce ed alimenta la debolezza per impedirgli di sentirla e, sperando di sottrarlo alle leggi della natura, gli risparmia ogni prova dolorosa, senza pensare, per evitargli qualche momentaneo disagio, quanti futuri inconvenienti e pericoli accumuli sulla sua testa e quanto sia barbara questa precauzione di prolungare in tal guisa la debolezza del fanciullo da moltiplicare le sue fatiche di adulto.

Narra la leggenda come Teti, per rendere invulnerabile il figlio, lo tuffasse nell’acqua dello Stige. Bella e limpida questa allegoria! Le crudeli madri di cui parlo agiscono altrimenti: ostinandosi a tenere i propri figli immersi nella mollezza, li preparano alla sofferenza; spalancano i loro pori ai mali di ogni specie che non mancheranno di assalirli da grandi.15

Osservate la natura e seguite la strada che vi addita: essa esercita i bambini senza tregua, ne tempra il carattere con prove di ogni specie, insegna loro per tempo che cosa siano pena e dolore. Allo spuntar dei denti sono assaliti dalla febbre, coliche acute danno loro le convulsioni, lunghi accessi di tosse li soffocano, i vermi intestinali li tormentano, la pletora corrompe il loro sangue, lieviti diversi vi fermentano, provocando pericolose eruzioni. La prima infanzia è quasi tutta malattia e pericolo: la metà dei fanciulli che nascono muore prima dell’ottavo anno. Ma superate queste prove, le forze del fanciullo ne risultano accresciute e, non appena egli è in grado di farne uso, la sua vitalità ha fondamenti più saldi.

Ecco la regola della natura. Perché contrastarla? Non vi accorgete che, credendo di correggerla, distruggete l’opera sua, ostacolate l’effetto delle sue premure? Operare dall’esterno ciò che essa opera internamente sarebbe, a vostro avviso, un raddoppiare il pericolo: al contrario, ciò vale a stornarlo, ad attenuarlo. L’esperienza insegna che i fanciulli allevati con troppa delicatezza muoiono in maggior numero degli altri. Le loro forze, a patto che non se ne oltrepassi la misura, è meno rischioso utilizzarle che risparmiarle. Esercitateli dunque alle prove che dovranno un giorno sopportare. Temprate il loro corpo alle intemperie delle stagioni, dei climi, degli elementi, alla fame, alla sete, alla fatica; tuffateli nelle acque dello Stige. Prima che il corpo abbia acquisito abitudini definitive, è possibile assuefarlo senza rischio a tutte quelle che si vuole; ma, quando sia giunto alla sua piena formazione, ogni cambiamento è pericoloso. Un bambino sopporterà alterazioni che un uomo non potrebbe sopportare: le fibre del primo, molli e flessibili, assumono senza sforzo la piega che si dà loro; quelle dell’uomo, ormai più rigide, mutano solo con violenza la piega ricevuta. È dunque possibile rendere un bambino robusto, senza metterne a rischio la vita e la salute; e quand’anche qualche rischio vi fosse, non si dovrebbe tuttavia esitare. Poiché sono rischi inseparabili dalla vita umana, non è forse la soluzione migliore concentrarli in quella fase del suo corso in cui sono meno svantaggiosi?

Un bambino diviene più prezioso col crescere dell’età. Al valore della sua persona si aggiunge quello delle cure che è costato; alla perdita della vita si aggiunge in lui il sentimento della morte. Bisogna dunque pensare soprattutto all’avvenire, quando si attende alla sua conservazione. È contro i mali della giovinezza che occorre armarlo prima che l’abbia raggiunta: infatti, se il valore della vita aumenta quanto più si avvicina il momento della sua utilizzazione, non è gran follia risparmiare alcuni mali all’infanzia per poi moltiplicarli all’età della ragione? Sono queste le lezioni del maestro?

È destino dell’uomo soffrire in ogni tempo. L’impegno stesso della conservazione è congiunto al dolore. Felice chi nell’infanzia non conosce che i mali fisici, assai meno crudeli e dolorosi degli altri e che più raramente ci fanno rinunciare alla vita! Nessuno si uccide per i dolori della gotta, solo quelli dell’animo provocano la disperazione. Noi compiangiamo la condizione dell’infanzia ed è la nostra che dovremmo compiangere. Dei nostri mali più grandi siamo noi stessi gli artefici.

Il padre come educatore

Quando nasce, un bambino strilla; la sua prima infanzia trascorre nel pianto. Ora viene cullato e vezzeggiato perché si acquieti, ora sono minacce e percosse che lo costringono a tacere. O facciamo quel che piace a lui, o esigiamo da lui quel che piace a noi; o ci sottomettiamo alle sue fantasie o lo sottomettiamo alle nostre: non c’è via di mezzo, o dà ordini o ne riceve. Così le sue prime idee sono quelle di autorità e di soggezione. Prima ancora di saper parlare, comanda; prima di poter agire, obbedisce; e a volte è castigato prima che possa conoscere le sue colpe o, meglio, commetterle. È così che si infondono ben presto nel suo giovane cuore le passioni di cui poi si fa colpa alla natura, e quegli stessi che tanto hanno contribuito a renderlo cattivo, si lamentano in seguito di trovarlo tale.

Il fanciullo trascorre sei o sette anni in questo modo tra le mani delle donne, vittima dei loro capricci e dei propri; e dopo avergli fatto imparare questo e quello, infarcendo la sua memoria di parole che non comprende o di cose che a nulla gli servono, dopo aver soffocato la sua indole con le passioni destate in lui, questo essere innaturale viene affidato a un precettore che sviluppa fino in fondo i germi artificiali che trova già formati e tutto gl’insegna fuorché a conoscersi e a rendersi utile a se stesso, fuorché l’arte di saper vivere e d’essere felice. Infine, quando questo fanciullo, schiavo e tiranno insieme, pieno di scienza e privo di buon senso, parimenti debole nel corpo e nell’anima, viene gettato in mezzo ai suoi simili a farvi mostra di inettitudine, di orgoglio e di ogni altro suo vizio, ci dà motivo di deplorare la miseria e la perversità degli uomini. Ma è un errore; questo è l’uomo delle nostre aberrazioni: quello della natura è fatto altrimenti.

Volete dunque che la sua forma originaria si conservi? Proteggetela fin dall’istante in cui viene al mondo. Appena nasce, impadronitevi di lui e non lasciatelo più prima che sia uomo: altrimenti non riuscirete mai. Allo stesso modo che la vera nutrice è la madre, è il padre il vero precettore. Trovino essi un armonico accordo così nell’alternarsi delle loro funzioni come intorno ai principi da seguire; passi il bambino dalle mani dell’una a quelle dell’altro. Sarà meglio educato da un padre giudizioso, pur se modesto, che dal più abile dei maestri; meglio infatti potrà lo zelo supplire al talento che non il talento allo zelo.

Ma gli affari, si dirà, il lavoro, i doveri… Ah, i doveri! L’ultimo, senza dubbio, è quello di padre!k Non meravigliamoci se un uomo, la cui sposa ha disdegnato di nutrire il frutto della loro unione, disdegni a sua volta di educarlo. Non v’è quadro più bello di quello della famiglia, ma un sol tratto stonato deforma tutti gli altri. Se la madre ha troppo delicata salute per esser nutrice, il padre avrà troppe faccende per essere precettore. I figli, allontanati, dispersi in convitti, in conventi, in collegi, riverseranno altrove l’amore della casa paterna o, per dir meglio, vi torneranno incapaci di qualsiasi affetto. Fratelli e sorelle si conosceranno appena. Quando saranno tutti riuniti per qualche ricorrenza, potranno, sì, essere molto compiti tra loro, ma si tratteranno da estranei. Dal momento che tra i genitori non v’è più intimità, dal momento che la convivenza in seno alla famiglia non costituisce più la dolcezza della vita, bisogna pur ricorrere ai cattivi costumi per supplirvi. Qual uomo è sì sciocco da non vedere la necessaria connessione di tutto ciò?

Un padre, quando ha generato e allevato dei figli, non ha compiuto che la terza parte del compito suo: deve uomini al genere umano, uomini socievoli alla società, cittadini allo Stato. Ogni uomo, che sia in grado di pagare questo triplice debito e non lo faccia, è colpevole, e più colpevole ancora, forse, quando lo paghi a metà. Colui che non può adempiere i doveri di padre non ha il diritto di diventarlo. Non c’è povertà, né lavoro, né rispetto umano che lo dispensino dal nutrire i suoi figli e dall’educarli lui stesso. O lettori, potete credermi: a chiunque abbia viscere umane e trascuri doveri tanto sacri predìco che piangerà lungamente amare lacrime sulla sua colpa e non se ne darà mai pace.18

Ma che fa quest’uomo ricco, questo padre di famiglia tanto indaffarato e costretto, dice lui, ad abbandonare i figli a se stessi? Paga un altro uomo perché compia l’ufficio che tocca a lui. Spirito venale! Credi proprio di dare a tuo figlio un altro padre con un po’ di denaro? Non ti fare illusioni; non è neppure un maestro quello che gli dai, è un servo. Ed egli ne formerà ben presto un secondo.

Qualità del pedagogo e dell’allievo

Si discute molto delle qualità di un buon pedagogo.l La prima da esigere, a parer mio, ed essa sola ne presuppone molte altre, è che non sia un mercenario. Vi sono mestieri così nobili che è impossibile farli per denaro senza, per ciò stesso, mostrarsene indegni: di tal genere è il mestiere dell’uomo di guerra, tale è quello del pedagogo.

«E chi dunque educherà mio figlio?» «Te l’ho già detto: tu stesso.» «Ma io non posso.» «Non puoi?… Allora trovati un amico. Non vedo altro mezzo.»

Un pedagogo! O quale sublime anima!… In verità, chi voglia formare un uomo, bisogna che sia padre egli stesso, o più che uomo. Ecco la funzione che tranquillamente si affida a mercenari.

Più ci si pensa, più si scorgono nuove difficoltà. Occorrerebbe che il pedagogo fosse stato educato per il suo allievo, che i domestici fossero stati educati per il loro padroncino, che quanti lo avvicinano avessero ricevuto le impressioni che debbono comunicargli. Rifacendo a ritroso il processo educativo, chissà fin dove bisognerebbe risalire! È certo però che il fanciullo non può essere educato bene da chi non abbia ricevuto a sua volta una buona educazione.

Questo raro mortale è forse introvabile? Lo ignoro. In tempi di avvilimento come questi, chi sa quale grado di virtù possa ancora raggiungere un animo umano? Ma supponiamo di aver trovato quest’essere prodigioso. Solo considerando ciò che deve fare vedremo ciò che deve essere. Una cosa, però, mi sembra fin d’ora certissima: un padre che avesse capito tutto il valore di un buon pedagogo deciderebbe di farne a meno, perché allora durerebbe più fatica a trovarlo che a farne lui l’ufficio. Vuole dunque farsi un amico? Educhi suo figlio ad esser tale; eccolo dispensato dal cercare altrove, e la natura avrà già fatto la metà dell’opera.

Qualcuno, di cui non conosco che il rango sociale, mi ha fatto proporre di educare suo figlio.19 È stato per me un grande onore, senza dubbio. Ma dovrebbe, anziché dolersi del mio rifiuto, esser lieto della mia discrezione. Una volta accettata l’offerta, se avessi male applicato il mio metodo, sarebbe stata un’educazione fallita; ma se fossi riuscito, sarebbe stato anche peggio: suo figlio avrebbe rinnegato il titolo, non avrebbe più voluto esser principe.

Sono troppo consapevole della grandezza dei doveri di un pedagogo e troppo avverto la mia incapacità, per accettare mai un simile incarico da qualunque parte mi sia offerto; persino l’interesse dell’amicizia sarebbe per me un nuovo motivo di rifiuto. Credo che, dopo aver letto questo libro, poche persone saranno disposte a farmi una simile proposta; ma se per caso ve ne fossero, le prego di risparmiarsi l’inutile fatica. In passato ho fatto esperienza di questo mestiere quanto basta per esser certo ch’io non sono fatto per esso e, se anche avessi talento sufficiente, la mia condizione me ne dispenserebbe. Ho creduto mio dovere formulare questa pubblica dichiarazione per coloro che non sembrano stimarmi abbastanza da credere sincere e irremovibili le mie decisioni.

Non in grado di adempiere il compito più utile, oserò almeno tentarne uno più facile: a somiglianza di tanti altri, non metterò mano all’opera, ma alla penna, e quel che si deve, anziché farlo, mi sforzerò di dirlo.

So bene che, in imprese quali la mia, l’autore si trova sempre a suo agio tra teorie che non ha l’obbligo di mettere in pratica, so bene che impartisce senza sforzo una folla di bei precetti impossibili a seguirsi e che, per mancanza di particolari e di esempi, anche la parte attuabile delle sue proposte resta lettera morta, quando non ne abbia mostrato l’applicazione.

Ho deciso perciò di crearmi un allievo immaginario, di attribuirmi l’età, la salute, le cognizioni e tutti i requisiti necessari per consacrarmi alla sua educazione e di attendere a questa dalla sua nascita fino a quando, divenuto adulto, non avrà bisogno d’altra guida che di se stesso. Tale metodo mi sembra utile per impedire a un autore, incline a diffidare di se stesso, di perdersi dietro vani miraggi; infatti, non appena si allontana dai metodi correnti, non ha che da sperimentare i suoi sul proprio allievo: si accorgerà subito, o il lettore si accorgerà per lui, se segue davvero lo sviluppo dell’infanzia e il cammino naturale del cuore umano.

Ecco quello che ho cercato di fare dinanzi a tutte le difficoltà incontrate: per non ingrossare inutilmente il libro, mi sono limitato a enunciare i principi di cui ciascuno dovrebbe sentire la verità; ma le regole che potevano aver bisogno di prove le ho tutte applicate al mio Emilio, o ad altri esempi, e ho fatto vedere con ricchezza di particolari in che modo le mie proposte potevano tradursi in pratica. Tale almeno è il piano che ho inteso seguire. Giudichi il lettore se vi sono riuscito.

È per questa ragione che dapprima ho parlato poco di Emilio, poiché le mie prime massime educative, benché contrarie a quelle attualmente in voga, sono di un’evidenza a cui è difficile per ogni uomo ragionevole rifiutare il proprio consenso. Ma via via che procedo, il mio allievo, guidato diversamente dagli altri, non è più un fanciullo simile a loro; ha bisogno di un regime fatto apposta per lui. Allora appare più spesso sulla scena, e da ultimo non lo perdo più per un momento di vista, fino a quando, checché egli ne dica, non ha più alcun bisogno di me.

Non parlo affatto, qui, delle qualità di un buon pedagogo; le presuppongo, e suppongo di essere a mia volta dotato di tutte queste qualità. Leggendo la presente opera, si vedrà quanto io sia generoso verso me stesso.

Osserverò soltanto, in contrasto con il parere dei più, che il pedagogo deve essere giovane, e addirittura tanto giovane quanto può esserlo un uomo saggio. Vorrei che fosse egli stesso un fanciullo, se fosse possibile, e che potesse diventare il compagno del proprio allievo e guadagnarsi la sua fiducia partecipando ai suoi svaghi. Interessi comuni tra l’infanzia e l’età matura non ce n’è abbastanza perché possa mai crearsi, a tanta distanza, un saldo vincolo di affetto. A volte i fanciulli lusingano i vecchi, ma non li amano mai.

Si vorrebbe che il pedagogo avesse già compiuta un’esperienza educativa. È troppo; lo stesso uomo non può compierne più di una. Se una seconda fosse indispensabile per riuscire, con qual diritto si accingerebbe alla prima?

Con maggiore esperienza, certo, saprebbe eseguire meglio il proprio compito, ma non potrebbe più intraprenderlo. Chiunque lo abbia adempiuto una volta abbastanza bene da assaporare tutte le pene che dà, non ha alcuna voglia di ricominciare; se poi la prima volta lo ha adempiuto male, questo è un pessimo precedente per la seconda.

È ben diverso, ne convengo, seguire un giovane per cinque anni o guidarlo per venticinque. Voi assegnate un pedagogo a vostro figlio quando è già tutto formato; io voglio che ne abbia uno prima ancora di nascere. Il vostro può cambiare ad ogni lustro d’allievo; il mio non ne avrà che uno solo. Voi distinguete il precettore dal pedagogo: altra follia! Distinguete forse il discepolo dall’allievo? Vi è una sola scienza da insegnare ai fanciulli: quella dei doveri dell’uomo. Questa scienza è una; e, checché abbia detto Senofonte dell’educazione persiana, è indivisibile. Del resto, preferisco chiamarlo pedagogo anziché precettore il maestro di questa scienza, poiché il suo compito consiste non tanto nell’istruire quanto nel guidare. Egli non deve affatto dare precetti, ma farli trovare.

Se il pedagogo va dunque scelto con tanta cura, sarà pur lecito a lui scegliersi il proprio allievo, soprattutto se intende proporlo come modello di educazione. La scelta non può essere influenzata dall’intelligenza o dal carattere del fanciullo, perché si conoscono solo alla fine dell’opera, mentre io adotto l’allievo prima che nasca. Tuttavia, se potessi scegliere, ne vorrei uno d’intelligenza comune, e così immagino che sia il mio allievo. Sono infatti gli uomini comuni che occorre educare e solo la loro educazione deve servire di esempio a quella dei loro simili. Gli altri si educano da sé, qualunque modello si proponga loro.

Nell’educazione degli uomini ha non poca importanza il paese che abitano; essi riescono a dare il meglio di se stessi solo nei climi temperati. In quelli estremi lo svantaggio è evidente. Un uomo non è piantato come un albero in un paese per restarvi per sempre; e colui che parte da uno degli estremi per arrivare all’altro deve necessariamente compiere, per raggiungere la stessa meta, un cammino doppio rispetto a colui che parte da una posizione intermedia.

Anche se l’abitante di un paese temperato debba raggiungere successivamente i due estremi, il suo vantaggio è ancora evidente; infatti, benché debba anch’egli subire una modificazione, come colui che procede dall’uno all’altro estremo, l’allontanamento dalle sue naturali condizioni di vita è inferiore della metà. Un francese vive in Guinea e in Lapponia, ma un negro non vivrà altrettanto bene sul Tornea, né un Samoiedo nel Benin.20 Sembra inoltre che l’organizzazione del cervello sia meno perfetta nelle due zone estreme. Né i negri né i Lapponi hanno le facoltà mentali degli europei. Se voglio perciò che il mio allievo possa trovarsi a suo agio in ogni parte della terra, lo sceglierò in una zona temperata; in Francia, ad esempio, meglio che altrove.

Nel nord gli uomini consumano molte energie sopra un suolo sterile; nel sud ne consumano poche sopra un suolo fertile; di qui nasce un’altra differenza: gli uni sono laboriosi, gli altri inclinano a una sorta di ozio contemplativo. La società ci offre in uno stesso luogo l’immagine di queste differenze tra i poveri e i ricchi: i primi abitano la terra ingrata, gli altri quella fertile.

Il povero non ha bisogno di educazione: la sua gli viene impartita a forza dal suo stesso stato, né potrebbe averne un’altra; invece l’educazione che il ricco riceve dalla sua condizione sociale è quella che meno si conviene a lui stesso e alla società. D’altra parte l’educazione naturale deve rendere un uomo adatto a tutte le condizioni umane: ora, è meno ragionevole educare un povero alla ricchezza che un ricco alla povertà, perché, se si considera il rapporto numerico tra l’una e l’altra condizione, vi sono più uomini ridottisi in miseria che nuovi ricchi. Scegliamo dunque un ricco; saremo almeno sicuri di aver formato un uomo di più, poiché sappiamo che il povero può diventare uomo per conto suo.

Per la stessa ragione non mi dispiacerà che Emilio sia nobile. Sarà sempre una vittima strappata al pregiudizio.

Emilio è orfano. Non importa che abbia un padre e una madre: assunti su di me i loro doveri, eredito tutti i loro diritti. Egli deve onorare i genitori, ma obbedire esclusivamente a me. Questa è la mia prima o meglio unica condizione. Debbo infatti aggiungerne un’altra che è solo la sua diretta conseguenza: nessuno dovrà mai separarci senza il nostro consenso. Questa clausola è essenziale e vorrei anzi che allievo e pedagogo si considerassero a tal punto inseparabili da riguardare come comune il destino della loro vita. Ma se hanno modo di prospettarsi, sia pure in un lontano avvenire, la loro separazione, se possono prevedere il momento che deve renderli estranei l’un l’altro, già di fatto son tali; ciascuno si fa il suo piccolo sistema per proprio conto e, occupati entrambi dall’idea del tempo in cui non saranno più insieme, ci restano malvolentieri. Il discepolo guarda al maestro come al simbolo e al flagello dell’infanzia; il maestro considera il discepolo un pesante fardello che non vede l’ora di togliersi di dosso; entrambi aspirano di comune accordo al momento di vedersi liberati l’uno dell’altro e, poiché non esiste mai tra loro vera affezione, è facile immaginare come l’uno eserciti poca vigilanza e l’altro mostri scarsa docilità.

Ma quando pensano di dover passare insieme i loro giorni, importa a ciascuno di loro farsi amare dall’altro e perciò stesso nasce tra essi un affetto reciproco. L’allievo non si vergogna di seguire nell’infanzia colui che avrà per amico anche da grande; il pedagogo prende interesse a un’opera di cui deve raccogliere i frutti; tutti i meriti di cui arricchisce l’allievo sono un capitale che renderà nei giorni della vecchiaia.

Questo accordo anticipatamente concluso presuppone un parto felice, un fanciullo ben formato, vigoroso e sano. Un padre non ha scelta e non deve avere preferenza nella famiglia che Dio gli assegna: tutti i suoi figli sono egualmente suoi figli, a tutti egli deve eguali cure ed egual tenerezza. Siano storpi o ben fatti, gracili o robusti, ognuno di loro è un deposito, e deve renderne conto alla mano da cui lo riceve: il matrimonio è un contratto stipulato con la natura oltre che tra i coniugi.

Ma chiunque si assuma un dovere non impostogli dalla natura, deve in primo luogo accertarsi dei mezzi per compierlo, altrimenti si renderà responsabile anche di ciò che non avrà potuto fare. Chi si accolla un allievo infermo e malaticcio muta l’ufficio di educatore in quello di infermiere; perde nel curare una vita inutile il tempo che destinava ad aumentarne il valore; si espone al rischio di vedersi un giorno rimproverare da una madre in lacrime la morte di quel figlio che egli le aveva a lungo conservato.

Io non mi lascerei mai accollare un bambino malaticcio e cachettico, dovesse pur campare ottant’anni. Non ne voglio sapere di un allievo sempre inutile a se stesso ed agli altri, unicamente occupato nello sforzo di sopravvivere, e il cui corpo pregiudichi l’educazione dell’anima. Che otterrei prodigandogli invano le mie cure, se non raddoppiare la perdita della società e sottrarle due uomini al posto di uno? Che altri venga in vece mia ad occuparsi di questo infermo; lo approvo, e lodo la sua carità; ma io non posso farlo, non son capace di insegnare a vivere a chi è costantemente assillato dalla preoccupazione di sottrarsi alla morte.

Bisogna che il corpo abbia sufficiente vigore per obbedire all’anima: un buon servitore deve essere robusto. So che l’intemperanza eccita le passioni ed infiacchisce anche il corpo, alla lunga; le macerazioni, i digiuni producono spesso lo stesso effetto per la ragione opposta. Più il corpo è debole, più comanda; più è forte, più obbedisce. Tutte le passioni sensuali albergano nei corpi effeminati, che ne risultano ancor più eccitati proprio perché meno possono soddisfarle.

La medicina e l’arte della salute

Un corpo debole indebolisce l’anima. Ecco perché impera l’arte della medicina, più perniciosa agli uomini di tutti i mali che pretende guarire. Per parte mia, non so di che malattie ci guariscano i medici, ma so di certo che ce ne inoculano di assai funeste: la viltà, la pusillanimità, la credulità, il terrore della morte. Se guariscono il corpo, uccidono il coraggio. Che importa che facciano camminare dei cadaveri? È di uomini che abbiamo bisogno, e non uno se ne vede uscire dalle loro mani.21

La medicina è di moda tra noi, né può non esserlo. È lo svago degli oziosi e degli scioperati i quali, non sapendo che farsi del proprio tempo, lo adoperano per conservarsi in vita. Se avessero avuto la sventura di nascere immortali, sarebbero gli esseri più miserevoli: una vita che non avessero mai paura di perdere sarebbe priva per loro di ogni valore. Individui siffatti hanno bisogno di medici che li minaccino per lusingarli e che diano loro ogni giorno il solo piacere di cui siano capaci, quello di non essere ancora morti.

Non ho alcuna intenzione di dilungarmi qui sulla vanità della medicina; il mio solo proposito è di considerarla dal lato morale. Non posso tuttavia astenermi dall’osservare che riguardo al suo uso gli uomini ricorrono agli stessi sofismi di cui ammantano la ricerca della verità. Essi suppongono sempre che curando un malato questi guarisca, e che cercando una verità la si trovi. Ma non vedono che bisogna bilanciare il vantaggio di una guarigione operata dal medico con la morte di cento malati uccisi da lui e l’utilità di una verità scoperta con il danno di cento errori accreditati nello stesso tempo. La scienza che istruisce e la medicina che guarisce sono senza dubbio ottime, ma la scienza che inganna e la medicina che uccide sono pessime.

Insegnateci dunque a distinguerle: questo e il nodo della questione. Se sapessimo ignorare la verità, non saremmo mai vittime della menzogna; se ci rifiutassimo di voler guarire a dispetto della natura, non morremmo mai per mano del medico: ecco due casi in cui l’astinenza sarebbe saggia e il praticarla certamente vantaggioso. Con ciò non contesto che la medicina sia utile a qualche uomo, ma dico che è funesta al genere umano.

Mi si dirà, come sento continuamente ripetermi, che gli errori sono del medico, ma che la medicina per se stessa è infallibile. E sia pur vero; ma si presenti allora senza medico, poiché, finché verranno insieme, vi sarà bensì da sperare nel soccorso dell’arte, ma cento volte di più da temere degli errori di chi la pratica.

Quest’arte menzognera, fatta più per i mali dello spirito che per quelli del corpo, è parimenti inutile agli uni ed agli altri: più che guarirci dalle malattie, ce ne infonde il terrore; più che allontanare la morte, ce la fa sentire anzi tempo; consuma la vita anziché prolungarla; e quand’anche la prolungasse, sarebbe ancora a spese del genere umano, poiché ci sottrae alla società con le cure che ci impone e ai nostri doveri per i timori che ci incute. È la conoscenza dei pericoli che ce li fa temibili: colui che si credesse invulnerabile non avrebbe paura di nulla. A furia di immunizzare Achille contro il pericolo, il poeta gli toglie il merito del suo valore; a parità di condizioni, ogni altro uomo sarebbe stato un Achille.

Volete trovare uomini davvero coraggiosi? Cercateli là dove non esistono medici, dove si ignorano le conseguenze delle malattie e non si pensa minimamente alla morte. L’uomo che vive secondo natura sa soffrire con costanza e morire in pace. Sono i medici con le loro prescrizioni, i filosofi con i loro precetti, i preti con le loro esortazioni che gli avviliscono il cuore e gli fanno disimparare a morire.

Mi si dia dunque un allievo che non abbia bisogno di tutta codesta gente, se no lo rifiuto. Non voglio che altri sciupino l’opera mia; intendo educarlo da solo oppure non immischiarmene affatto. Molto saggiamente Locke, che aveva passato una parte della vita a studiar medicina, raccomanda con forza di non dare farmachi ai bambini, né per precauzione né per leggeri disturbi. Io dirò di più: rifiutando i medici per me, non ne chiamerò mai neppure per Emilio, a meno che la sua vita non sia in evidente pericolo, perché allora peggio che ucciderlo non potranno.

So bene che il medico non mancherà di trarre profitto da questo ritardo. Se il bambino muore, dirà che non è stato chiamato in tempo; se la scampa, sarà stato lui a salvarlo. E sia pure: trionfi il medico, ma quel che soprattutto importa è che venga chiamato solo in extremis.

Se il bambino non è capace di guarire, sappia essere malato: quest’arte sostituisce l’altra e spesso riesce molto meglio; è l’arte della natura. Quando un animale è ammalato, soffre in silenzio e non dà in ismanie, né per questo si vedono le bestie patire più che gli uomini. Si obietterà che gli animali, vivendo in maniera più conforme a natura, debbono esser soggetti a minor numero di mali. Ebbene, proprio a questa maniera intendo far vivere il mio allievo; egli deve dunque trarne lo stesso profitto.

La sola parte utile della medicina è l’igiene; e anche l’igiene, del resto, più che una scienza è una virtù. La temperanza e il lavoro sono le due vere medicine dell’uomo: il lavoro stimola il suo appetito e la temperanza gl’impedisce di abusarne.

Per sapere quale sia il regime più utile alla vita e alla salute, basta conoscere quale seguano i popoli che sono più sani, più robusti e vivono più a lungo. Se dalle osservazioni generali non risulta che l’uso della medicina assicuri agli uomini salute più stabile e vita più lunga, per il fatto stesso che non è utile, quest’arte è da ritenersi nociva, poiché impiega tempo, uomini e cose in pura perdita. Il tempo che si spende nel conservar la vita non solo va detratto da questa come perduto invano, ma, poiché lo adoperiamo per tormentarci, questo stesso tempo è peggio che nullo, è negativo; e allora, per calcolare equamente, bisogna toglierne altrettanto da quello che ci resta. Un uomo che passa dieci anni senza medici vive di più per se stesso e per gli altri di chi ne passa trenta come loro vittima. Avendo fatto l’una e l’altra esperienza, mi credo più di ogni altro in diritto di trarne tale conclusione.

Ecco le mie ragioni per non volere un allievo se non robusto e sano, e i miei principi per conservarlo tale. Non perderò tempo a dimostrare l’utilità dei lavori manuali e dell’esercizio fisico per rafforzare la complessione e la salute; è una verità che nessuno contesta: gli esempi di maggiore longevità sono offerti quasi sempre dagli uomini che più degli altri hanno messo alla prova il proprio corpo, hanno sopportato fatiche, hanno lavorato.m E neppure entrerò in particolari intorno alle misure che intendo prendere a questo riguardo; si vedrà come siano parte così integrante del mio metodo, che basterà afferrarne lo spirito, per non aver bisogno d’altra spiegazione.

La nutrice

Con la vita cominciano i bisogni. Al neonato occorre una nutrice. Se la madre è disposta a compiere il suo dovere, tanto meglio: le si daranno istruzioni per iscritto; infatti questa favorevole circostanza presenta lo svantaggio di tenere per un po’ il pedagogo lontano dal suo alunno. Ma è da credere che l’interesse per il bambino e la stima per colui nelle cui mani si propone di affidare sì caro deposito renderanno la madre sollecita ai suggerimenti del maestro; e tutto ciò che ella vorrà fare, è certo che lo farà meglio di un’altra. Se invece occorre una nutrice estranea, cominciamo con lo sceglierla bene.

Una delle sfortune dei ricchi è quella di essere ingannati in tutto. Se giudicano male gli uomini, non è il caso di meravigliarsi; sono le ricchezze che li corrompono e, per una giusta ritorsione, sentono per primi il difetto del solo strumento che sia loro noto. In casa loro tutto è fatto male, tranne ciò che sono essi stessi a fare; e di solito non fanno niente. Se si tratta di cercare una nutrice, la fanno scegliere dall’ostetrico. E che succede allora? Che la migliore è sempre quella che lo ha pagato meglio. Io dunque non consulterò l’ostetrico per la nutrice di Emilio, avrò cura di cercarmela da me. Forse non potrei tenere su tale soggetto i forbiti ragionamenti di un chirurgo, ma certamente agirò con maggior buona fede e il mio zelo m’ingannerà meno della sua avarizia.

Questa scelta, in fondo, non ha nulla di misterioso e i criteri da seguire sono ben noti, ma penso che si dovrebbe prestare un po’ più d’attenzione all’età del latte e alla sua qualità. Il primo latte è interamente sieroso e deve quasi avere efficacia purgativa per eliminare i resti del meconio coagulatosi negli intestini del bambino appena nato. A poco a poco il latte diviene più denso e fornisce un nutrimento più solido al bambino che ha maggiore forza per digerirlo. Non è certo senza ragione che nelle femmine di ogni specie animale la natura modifica la consistenza del latte a seconda dell’età del lattante.

Ci vorrebbe dunque una nutrice fresca di parto per un bambino nato da poco. Ciò presenta qualche difficoltà lo so bene; ma non appena si abbandona l’ordine naturale, tutto diventa complicato, se si vuol far bene. Il solo espediente comodo è di far male; ed è in effetti quello che si sceglie.

Ci vorrebbe una nutrice altrettanto sana nello spirito che nel corpo: l’eccesso delle passioni può, come il turbamento degli umori, alterare il suo latte; si aggiunga che attenersi esclusivamente alle qualità fisiche significa ignorare la metà del problema: il latte può essere buono e la nutrice cattiva; un buon carattere è perciò essenziale quanto una buona complessione. Se si sceglie una donna viziosa, non dico che il lattante contrarrà i suoi vizi, ma certo ne soffrirà. Non gli deve essa, insieme col latte, una quantità di cure che richiedono zelo, pazienza, dolcezza, pulizia? Se è golosa e sregolata, il suo latte sarà ben presto alterato, se è trascurata o collerica, che ne sarà nelle sue mani dell’infelice bambino che non può difendersi né lamentarsi? Mai, in qualsivoglia circostanza, i cattivi saranno buoni a far qualcosa di buono.

La scelta della nutrice è tanto più importante in quanto il suo lattante non deve avere altra governante che lei, così come non deve avere altro precettore che il suo pedagogo. Questo era l’uso degli antichi, meno ragionatori e più saggi di noi. Le nutrici, quando avevano allattato bambini del loro sesso, non li abbandonavano più. Ecco perché nelle loro opere teatrali la figura della confidente è quasi sempre impersonata dalle nutrici. Quando un bambino passa successivamente per tante mani diverse, non può mai essere educato bene. Ad ogni cambiamento, egli fa segreti confronti che tendono sempre a sminuire la sua stima verso quelli che si prendono cura di lui e, per conseguenza, il suo rispetto per la loro autorità. Se gli accade una volta di pensare che certi adulti hanno meno cervello dei bambini, tutto il prestigio dell’età è perduto e l’educazione fallisce. Un bambino non deve conoscere altri superiori che il padre e la madre oppure, in loro mancanza, la nutrice e il pedagogo; e ve n’è ancora uno di troppo, ma questa divisione di compiti è inevitabile: tutto ciò che si può fare per rimediarvi è che le due persone cui è affidato siano a tal punto concordi nell’opera loro da formare ai suoi occhi un essere solo.

Bisogna che la nutrice viva un po’ più comodamente, che abbia alimenti un po’ più sostanziosi, ma senza mutare completamente la maniera di vivere, poiché un cambiamento improvviso e totale, anche se in meglio, è sempre pericoloso per la salute e, del resto, se il suo regime ordinario le ha consentito di essere sana e di buona costituzione, a che pro farglielo cambiare?

Le contadine mangiano meno carne e più legumi delle donne di città e questa dieta vegetale sembra più favorevole che contraria sia ad esse che ai loro bambini. Ma quando allattano bambini di città, si danno loro brodi ristretti e zuppe di carne, nella convinzione che ne ricevano un nutrimento più sostanzioso e possano quindi fornire più latte. Io non sono affatto di questo avviso e ho in ciò il conforto dell’esperienza, che c’insegna come i bambini allattati così vadano soggetti più degli altri alle coliche e ai vermi.

Ciò non deve meravigliare, poiché le sostanze animali in putrefazione formicolano di vermi, mentre quelle vegetali si comportano in modo diverso. Il latte, benché elaborato nel corpo dell’animale, è una sostanza vegetale;n come l’analisi dimostra, esso diventa facilmente acido e, anziché lasciar residui di ammoniaca come le sostanze animali, ne lascia di sale neutro come quelle vegetali.

Tra gli animali il latte delle femmine erbivore è più dolce e più sano di quello delle carnivore. Formatosi da una sostanza omogenea alla sua, conserva meglio la propria natura ed è meno soggetto alla putrefazione. Se si guarda poi alla quantità, ognuno sa che i farinacei formano più sangue della carne; formeranno quindi anche più latte. Un bambino che non sia svezzato prima del tempo o che sia svezzato solo per mezzo di alimenti vegetali, e la cui nutrice si cibi anch’ella di vegetali, credo che non possa mai essere soggetto ai vermi.

È possibile che gli alimenti vegetali diano un latte più facile ad inacidirsi, ma sono ben lontano dal considerare il latte acido come un nutrimento malsano: interi popoli, che non ne hanno altro, se ne nutrono con gran profitto e giudico perciò una vera ciarlataneria tutto questo apparato di assorbenti dell’acidità. Vi sono organismi ai quali il latte non fa bene e allora nessun assorbente lo rende loro tollerabile; gli altri lo sopportano senza assorbenti. Si ha paura del latte rappreso o cagliato: è una sciocchezza, poiché si sa che sempre il latte caglia nello stomaco. È proprio così che diviene un alimento abbastanza solido per nutrire i bambini e i piccoli degli animali: se non si rapprendesse, non farebbe che passare, senza nutrirli.o Per quanto lo si diluisca in mille modi, per quanto si ricorra a mille assorbenti dell’acidità, chiunque ingerisce latte digerisce formaggio: è fuori discussione. Lo stomaco è così ben conformato per far cagliare il latte che appunto da quello del vitello si ricava il caglio.

Penso dunque che invece di cambiare l’ordinaria alimentazione delle nutrici basti dargliene di più abbondante e meglio scelta nel suo genere. Se i cibi magri provocano riscaldi, non dipende dalla loro natura, è il condimento che li rende malsani. Cambiate le usanze della vostra cucina, evitate fritti e soffritti; il burro, il sale, i latticini non sentano mai il calore del fuoco; i legumi cotti in acqua siano conditi solo nel momento in cui giungono caldi sulla mensa. Allora i cibi magri, anziché provocare riscaldi alla nutrice, le forniranno latte abbondante e della migliore qualità.p È mai possibile infatti, riconosciuta la dieta vegetale come la dieta più adatta al bambino, che quella carnea sia poi la migliore per la nutrice? È una contraddizione.

È soprattutto nei primi anni della vita che l’aria agisce sulla costituzione dei bambini. In una pelle delicata e morbida essa penetra per tutti i pori, opera potentemente sui giovanissimi corpi e produce in loro effetti che non si cancellano mai. Non sarei perciò del parere di strappare una contadina dal suo villaggio, per rinchiuderla in una stanza in città e farle allattare il bambino in casa altrui. Preferisco che sia il bambino a respirare la buona aria dei campi anziché la nutrice quella viziata della città. Il piccolo si adatterà alle condizioni di vita della nuova madre, abiterà nella sua rustica casa, e il pedagogo ve lo accompagnerà. Il lettore rammenta infatti che quello da noi prescelto non presta l’opera sua per denaro: è un amico del padre. Ma se questo amico non si trova, mi si dirà, se questo spostamento non è facile, se insomma niente di ciò che consigliate è attuabile, che s’ha da fare? Ve l’ho già detto: esattamente quello che fate. E per questo non c’è bisogno di consigli.

Gli uomini non sono fatti per vivere ammucchiati in formicai, ma sparsi sulla terra che debbono coltivare. Più si ammassano, più si corrompono. Le infermità del corpo come i vizi dell’anima sono l’effetto infallibile dell’eccessiva concentrazione. Tra tutti gli animali l’uomo è il meno capace di vivere in branco. Esseri umani ammonticchiati come montoni morirebbero tutti in breve tempo. L’alito dell’uomo è mortale ai suoi simili, in senso proprio e in senso figurato.

Le città sono l’abisso ove precipita il genere umano. Nello spazio di poche generazioni le razze periscono o degenerano; bisogna rinnovarle, ed è sempre la campagna che provvede a questo rinnovamento. Inviate dunque i vostri bambini a rigenerarsi, per così dire, da sé e a recuperare in mezzo ai campi il vigore che si perde nell’aria malsana dei luoghi troppo popolati. Le donne in stato di gravidanza, quando sono in campagna, si affrettano a tornare in città al momento del parto: dovrebbero fare esattamente il contrario, soprattutto quelle che intendono allattare i propri figli. Avrebbero a dolersene meno di quanto pensino; e in una sede più naturale per l’essere umano, i piaceri congiunti ai doveri della natura toglierebbero loro in breve il gusto di quelli artificiali.

Innanzi tutto, dopo il parto, si lava il neonato con un po’ d’acqua tiepida mescolata per solito a vino. Quest’aggiunta del vino, però, mi sembra poco necessaria. Poiché la natura non produce nulla di fermentato, non c’è motivo di credere che l’uso di un liquore artificiale abbia importanza per la vita delle sue creature.

Per la stessa ragione, neppure questa precauzione di intiepidire l’acqua è indispensabile; e in effetti c’è tutta una moltitudine di popoli che lavano i neonati nell’acqua dei fiumi o del mare senz’alcun riguardo. Ma i nostri bambini, resi fragili ancor prima di nascere dalla mollezza dei padri e delle madri, vengono al mondo con una complessione già malandata, e non si può esporli subito a tutte le prove destinate a ritemprarla. Solo per gradi è possibile ricondurli al vigore primitivo. Cominciate dunque dapprima con l’attenervi all’uso consueto e distaccatevene poco per volta. Lavate spesso i bambini: la loro sudiceria ne dimostra la necessità; se non si fa altro che asciugarli, si strazia la loro pelle. Ma via via che si irrobustiscono, diminuite la temperatura dell’acqua, fino a lavarli d’estate e d’inverno con acqua fredda e persino ghiacciata. Poiché per non esporli a rischi occorre che questa diminuzione sia lenta, progressiva e insensibile, si può far uso del termometro per misurarla esattamente.

Quest’abitudine del bagno, una volta stabilita, non deve essere più interrotta ed è importante che sia conservata per tutta la vita. Io la considero non solo dal lato della pulizia e dei vantaggi immediati per la salute, ma anche come utilissima precauzione per rendere più flessibile il tessuto delle fibre e adattarle così senza sforzo né rischio alle più ampie variazioni di temperatura. Per questo vorrei che, crescendo, il bambino a poco a poco si abituasse a bagnarsi qualche volta in acqua calda a tutti i gradi sopportabili, e spesso in acque fredde a tutti i gradi possibili. Così, abituatosi a tollerare le diverse temperature dell’acqua che, essendo un fluido più denso, ci tocca in più punti e produce impressioni più forti, diverrebbe quasi insensibile alle variazioni dell’aria.

Nel momento in cui il bambino, uscendo dai suoi involucri, comincia a respirare, non permettete che sia imprigionato in altri ancora più stretti. Niente cuffiotti, né fasce, né bende, ma pannolini comodi e sciolti, che lascino in libertà tutte le sue membra, né tanto pesanti da impacciarne i movimenti, né tanto caldi ch’egli non senta le impressioni dell’aria all’intorno.q Ponetelo in una grande cullar bene imbottita, ove possa muoversi a suo agio e senza pericolo. Quando comincia ad irrobustirsi, lasciate che si trascini carponi per la stanza, che sgranchisca e distenda le piccole membra, e lo vedrete più forte di giorno in giorno. Paragonatelo poi con un suo coetaneo serrato ben bene tra le fasce: sarete stupiti dalla differenza dei loro progressi.s

C’è da aspettarsi una forte opposizione da parte delle nutrici, alle quali un bambino infagottato a dovere dà meno fastidio di quello che bisogna sorvegliare senza tregua. Si aggiunga che ogni sudiciume diventa più evidente con le vesti aperte: occorre pulirlo più spesso. Infine il costume è un argomento inconfutabile in certi paesi, e su di esso concordano persone di tutti i ceti.

Con le nutrici non perdetevi in ragionamenti: comandate, sorvegliate e fate il possibile per rendere agevoli nella pratica le cure che avrete prescritte. Perché non dovreste assumerne la vostra parte? In occasione di un allattamento ordinario, quando si guarda solo al lato fisico, purché il bambino sopravviva e non deperisca, il resto ha poca importanza. Ma nel nostro caso l’educazione comincia con la vita e il bambino, nascendo, è già discepolo, non del suo pedagogo, ma della natura. Il pedagogo si limita a studiare sotto questo primo maestro e ad impedire che i suoi precetti siano contrastati. Veglia sul lattante, lo osserva, lo segue, spia con occhio vigile il primo bagliore del suo debole intelletto, come, nell’imminenza del primo quarto, i musulmani spiano l’istante in cui sorgerà la luna.

Gli inizi dello sviluppo spirituale

Gli uomini nascono capaci di apprendere, ma senza nulla sapere, senza nulla conoscere. L’anima, imprigionata in organi imperfetti e formati a metà, non ha neppure il sentimento della propria esistenza. I movimenti, le grida del bambino appena nato sono atti puramente meccanici, indipendenti da ogni forma di conoscenza e di volontà.

Supponiamo che un bambino avesse nascendo la statura e la forza di un uomo fatto, che uscisse, per così dire, tutto armato dal seno della madre come Pallade dal cervello di Giove; quest’uomo-bambino sarebbe un perfetto imbecille, un automa, una statua22 immobile e quasi insensibile: non vedrebbe niente, non udrebbe niente, non conoscerebbe nessuno, non saprebbe volgere gli occhi verso l’oggetto da vedere; non solo non scorgerebbe alcun oggetto fuori di lui, ma non sarebbe neppure in grado di riferirlo all’organo del senso con cui lo percepisce; con l’occhio cieco a ogni colore, con l’orecchio sordo a ogni suono, i corpi che toccasse non sarebbero in contatto col suo, anzi neppure saprebbe di averne uno proprio; il contatto delle sue mani avverrebbe nel suo cervello, tutte le sensazioni convergerebbero in un solo punto; egli esisterebbe soltanto nel comune sensorium e non avrebbe che una sola idea, quella dell’io, cui ricondurrebbe tutte le sue sensazioni; ed è unicamente questa idea o meglio questa sensazione che egli avrebbe in più rispetto a un comune bambino.

Quest’uomo, formato tutto d’un colpo, non saprebbe neppure rizzarsi sui propri piedi; gli occorrerebbe molto tempo per imparare a tenersi in equilibrio; forse neppure ci proverebbe, e si vedrebbe allora questo gran corpo, forte e robusto, restare immobile come una pietra o strisciare carponi come un cucciolo.

Egli avvertirebbe il disagio dei bisogni senza conoscerli e senza immaginare alcun mezzo per soddisfarli. Non esiste alcuna immediata comunicazione tra i muscoli dello stomaco e quelli delle braccia e delle gambe; perciò, fosse pur circondato di cibi, non farebbe un passo per avvicinarvisi né stenderebbe la mano per afferrarli; e poiché il corpo avrebbe già compiuto la sua crescita e le sue membra sarebbero interamente sviluppate, egli non avrebbe per conseguenza l’irrequietezza e i continui movimenti propri dei bambini e potrebbe tranquillamente morire di fame prima di muoversi alla ricerca di che sostentarsi. Nessuno può negare, per poco che abbia riflettuto sull’ordine e sul progresso delle nostre conoscenze, che tale a un di presso sarebbe lo stato primitivo di ignoranza e stupidità naturalmente proprio dell’uomo, prima che avesse appreso alcunché dall’esperienza o dai suoi simili.

Conosciamo dunque o possiamo conoscere il punto iniziale da cui parte ciascuno di noi per giungere al grado comune dell’intelligenza, ma chi conosce il limite opposto? Ciascuno progredisce più o meno secondo le attitudini, le inclinazioni, i bisogni, il talento, lo zelo e le occasioni che ha di manifestarli. Non credo che alcun filosofo sia stato ancora tanto temerario da dire: ecco il termine cui l’uomo può giungere e che non potrà sorpassare. Noi ignoriamo ciò che la nostra natura ci permette di essere; nessuno di noi ha misurato la distanza che può intercorrere tra un uomo ed un altro. Qual è l’anima gretta che mai fu infiammata da questa idea, che mai talvolta disse tra sé nel suo orgoglio: quanti ne ho già oltrepassati! quanti posso raggiungerne ancora! perché un mio simile dovrebbe giungere più lontano di me?

L’educazione dell’uomo, ripeto, comincia con la sua nascita; prima di parlare, prima ancora di udire, già impara. L’esperienza precorre le lezioni teoriche; nel momento in cui conosce la sua nutrice, il bambino ha già molto imparato. Desterebbe stupore la quantità di conoscenze dell’uomo più rozzo, se potessimo seguirne i progressi dal momento in cui è nato a quello cui è giunto. Se si dividesse tutta la scienza umana in due parti, l’una comune a tutti gli uomini, l’altra esclusivamente propria dei dotti, quest’ultima risulterebbe assai piccola a confronto dell’altra. Ma noi ci curiamo ben poco delle conoscenze comuni, perché si acquistano senza pensarci e anche prima dell’età della ragione; in fondo, il sapere è caratterizzato solo da ciò che lo differenzia e, come nelle equazioni algebriche, le quantità comuni non si calcolano.

Anche gli animali apprendono molto. Hanno dei sensi e debbono imparare a farne uso; hanno dei bisogni e debbono imparare a soddisfarli; debbono imparare a mangiare, a camminare, a volare. I quadrupedi, che si tengono ritti sulle zampe fin dalla nascita, non per questo sono capaci di camminare; quando fanno i primi passi, si vede subito che si tratta di incerti tentativi. I canarini fuggiti dalla gabbia non sanno volare, perché non hanno volato mai. Tutto è apprendimento per gli esseri animati e sensibili. Se le piante fossero capaci di un movimento progressivo, dovrebbero possedere sensi e acquisir conoscenze, altrimenti le specie vegetali perirebbero presto.

Le prime sensazioni dei bambini sono puramente affettive; essi non percepiscono che il piacere e il dolore. Incapaci di camminare e di afferrare, hanno bisogno di molto tempo per formarsi a poco a poco le sensazioni rappresentative di oggetti esistenti al di fuori di loro; ma nell’attesa che questi oggetti si distacchino e per così dire si allontanino dai loro occhi, onde assumere dinanzi a essi dimensioni e forma, il ripetersi delle sensazioni affettive comincia a sottomettere i piccoli alla forza dell’abitudine; così vediamo i loro occhi voltarsi di continuo verso la luce e, se questa viene di fianco, assumere insensibilmente tale direzione. Si deve perciò aver cura di tener sempre la loro faccia rivolta verso la luce, per evitare che crescano con gli occhi storti o si abituino a guardare di traverso. È necessario anche avvezzarli per tempo all’oscurità, altrimenti piangono e strillano appena vi si trovino immersi. Il nutrimento e il sonno, se distribuiti con eccessiva esattezza, divengono loro necessari ad intervalli fissi e ben presto il desiderio non scaturisce più dal bisogno, ma dall’abitudine o, per dir meglio, l’abitudine aggiunge un nuovo bisogno a quello naturale: ecco ciò che bisogna impedire.

La sola abitudine che il bambino deve prendere è quella di non averne alcuna. Non va quindi portato su un braccio più che sull’altro, né avvezzato a presentare una mano piuttosto che l’altra o a servirsene più spesso, né a voler mangiare,23 dormire e fare alcunché ad ore determinate, o a non poter restar solo né la notte né il giorno. Create fin d’ora le premesse al regno della sua libertà, all’uso autonomo delle sue forze, consentendo al suo corpo l’assuefazione naturale, mettendolo in grado di essere sempre padrone di se stesso e di fare in ogni circostanza la propria volontà, allorché ne avrà una.

Non appena il bambino comincia a distinguere gli oggetti, è opportuno saper scegliere quelli che gli vengono mostrati. Tutti i nuovi oggetti interessano naturalmente l’uomo. Ma egli si sente così debole, che teme tutto ciò che non conosce: l’abitudine di vedere oggetti nuovi senza subirne alcuna conseguenza distrugge questo timore. Ad esempio, i bambini allevati in case molto pulite, dove non si tollera la presenza di ragni, hanno paura di questi animali, ed è paura che sovente conservano anche da adulti. Non ho mai visto tra i contadini un uomo, una donna o un fanciullo che abbiano paura dei ragni.

Perché dunque l’educazione di un bambino non dovrebbe cominciare prima che sia in grado di parlare e di capire, atteso che la sola scelta degli oggetti presentatigli basta a renderlo timido o coraggioso? Io voglio che lo si abitui a vedere oggetti nuovi, animali brutti, strani, disgustosi, ma gradualmente e da lontano, finché ci abbia fatto l’occhio e, a forza di vederli toccare dagli altri, li tocchi infine anche lui. Se durante l’infanzia ha visto, senza spaventarsene, rospi, serpenti, gamberi, da grande resterà impassibile dinanzi a qualsiasi animale. Non esistono più oggetti terribili per chi ne vede tutti i giorni.

Tutti i bambini hanno paura delle maschere. Io comincio col mostrarne ad Emilio una d’aspetto piacevole; poi qualcuno, stando dinanzi a lui, se l’applica al volto: io mi metto a ridere, tutti ridono, e il fanciullo riderà come gli altri. Pian piano lo abituo a maschere dall’aspetto meno piacevole e, alla fine, addirittura orribile. Se sono stato abile nella gradazione, lungi dal terrorizzarsi per l’ultima maschera, ne riderà come della prima. E dopo ciò non temo più che abbia a spaventarsi delle maschere.

Durante l’addio di Ettore e Andromaca, il piccolo Astianatte, spaventato dal pennacchio che ondeggia sul cimiero, non riconosce il padre, ma si rifugia piangendo sul seno della nutrice e strappa alla madre un sorriso pieno di lagrime. Che fare per guarire un simile spavento? Esattamente quello che fa Ettore: deporre l’elmo a terra e accarezzare il bambino.24 Ma in un momento più calmo si dovrebbe fare di più; avvicinarsi all’elmo, giocherellare con le piume, farle maneggiare al bambino; poi la nutrice prenderebbe l’elmo e, ridendo, se lo metterebbe in testa, sempre che una mano di donna osasse toccare le armi di Ettore.

Se occorre avvezzare Emilio al rumore di un’arma da fuoco, faccio dapprima bruciare un innesco in una pistola. Questa fiamma improvvisa e fuggevole, questa specie di lampo, lo rallegra; ripeto l’operazione con un po’ più di polvere; poi introduco nella pistola una piccola cartuccia senza ostruirla con lo stoppaccio, poi una più grossa; infine lo abituo ai colpi di fucile, ai mortaretti, ai cannoni, alle detonazioni più terribili.

Ho notato che i bambini raramente hanno paura del tuono, a meno che gli scoppi non siano di eccezionale violenza e non feriscano realmente l’organo dell’udito; in caso diverso, questa paura li prende solo quando hanno appreso che il fulmine può talora ferire od uccidere. Allorché la ragione comincia a spaventarli, fate in modo che l’abitudine li rassicuri. Con una gradualità lenta e ben studiata si rendono l’uomo e il bambino intrepidi ad ogni prova.

All’inizio della vita, quando la memoria e l’immaginazione sono ancora inattive, il bambino è attento solo a ciò che colpisce immediatamente i suoi sensi; costituendo le sensazioni il primo materiale delle sue conoscenze, offrirgliele in un ordine adeguato significa preparare la sua memoria a fornirle un giorno nello stesso ordine al suo intelletto; ma poiché egli è attento unicamente alle sue sensazioni, basta in un primo tempo mostrargli distintamente il legame tra queste e gli oggetti che le provocano. Il bambino vuol tutto toccare, tutto maneggiare: non opponetevi a questa irrequietezza; essa gli consente un tirocinio quanto mai necessario. È così che impara a distinguere il calore, il freddo, la durezza, la mollezza, la pesantezza, la leggerezza dei corpi, a giudicarne la grandezza, la forma e tutte le qualità sensibili, osservando, palpando,t ascoltando, e soprattutto confrontando la vista col tatto, sì da valutare con l’occhio la sensazione che si produrrebbe sotto le sue dita.

Solo mediante il movimento apprendiamo che vi sono cose distinte da noi; e solo muovendoci noi stessi acquisiamo l’idea dell’estensione. È proprio per la totale mancanza di questa nozione che il bambino tende indifferentemente la mano per afferrare l’oggetto che lo sfiora o quello che si trova a cento passi da lui. Lo sforzo che fa può sembrare un gesto d’imperio, un ordine che impartisce all’oggetto perché si avvicini o a voi perché glielo portiate; non è affatto vero; ciò dimostra soltanto che quegli oggetti che prima vedeva nel cervello, e poi a ridosso degli occhi, li vede ora all’estremità delle braccia, né immagina altra estensione oltre quella cui può giungere. Abbiate dunque cura di farlo muovere spesso, di trasportarlo da un punto all’altro, per insegnargli a valutare le distanze. Allorché, però, incomincia a conoscerle, bisogna cambiare metodo a farlo muovere come piace a voi, non come vorrebbe lui, perché, appena non è più ingannato dai sensi, la causa del suo sforzo diventa un’altra. Questo cambiamento è notevole e richiede perciò di essere spiegato con cura.

Il disagio provocato dai bisogni si esprime con segni, quando l’intervento altrui è necessario per soddisfarli. Donde il frequente gridare dei bambini: piangono molto e non può non essere così.

Poiché tutte le loro sensazioni sono affettive, se le trovano piacevoli, ne godono in silenzio; se dolorose, manifestano ciò nel loro linguaggio e invocano sollievo. Ma finché sono svegli, non possono quasi mai trovarsi in uno stato d’indifferenza: o dormono o sono preda di sensazioni.

Tutte le lingue sono creazioni artificiali.u Per molto tempo si è cercato di scoprire se ve ne fosse una naturale e comune a tutti gli uomini; senza dubbio una ve n’è, quella che i bambini parlano prima di saper parlare. Questa lingua non è articolata, ma ricca di intonazioni, sonora, intelligibile. L’uso delle nostre ce l’ha fatta trascurare al punto da dimenticarla del tutto. Studiamo i bambini piccoli, e presto torneremo ad impararla accanto a loro. Le nutrici sono maestre in questa lingua; comprendono tutto ciò che dicono loro i lattanti, rispondono, hanno con essi lunghe e coerenti conversazioni; e le parole, che pur pronunciano, sono perfettamente inutili, perché non il loro senso afferra il bambino, ma l’intonazione a cui si accompagnano.

Al linguaggio della voce si aggiunge quello dei gesti, non meno energico. E sono gesti che non risiedono nelle deboli mani dei bambini, ma sui loro volti. È stupefacente constatare quale ricca espressività posseggano queste fisionomie non ancora ben formate; i loro tratti mutano da un istante all’altro con inconcepibile rapidità; il sorriso, il desiderio, lo spavento vi si vedono nascere e svanire come guizzi di luce, ed ogni volta sembra di vedere un altro viso. Hanno certamente i muscoli della faccia più mobili dei nostri. Viceversa i loro occhi smorti non dicono quasi nulla. Ed è logico che sia questo il linguaggio proprio di un’età in cui si hanno soltanto bisogni corporali: l’espressione delle sensazioni è affidata alle smorfie, quella dei sentimenti agli sguardi.

Poiché la prima condizione dell’uomo è di miseria e di debolezza, le sue prime voci sono il lamento ed il pianto. Il bambino sente i suoi bisogni, non può soddisfarli e gridando invoca l’aiuto altrui: se ha fame o sete, piange; se ha troppo caldo o troppo freddo, piange; se ha bisogno di muoversi e lo si tiene immobile, piange; se vuol dormire e lo si agita, piange. Quanto meno è in grado di modificare da sé la sua condizione,v più spesso richiede che sia cambiata. Non ha che un linguaggio, perché non ha, per così dire, che un solo genere di disagio: stante l’imperfezione dei suoi organi, non distingue punto le loro diverse impressioni; tutti i suoi mali formano per lui un’unica sensazione di dolore.

Da queste crisi di pianto, che potremmo credere così poco degne d’attenzione, nasce il primo rapporto dell’uomo con tutto ciò che lo circonda: in tal modo si foggia il primo anello della lunga catena di cui è formato l’ordine sociale.

Quando il bambino piange, si trova a disagio, ha qualche bisogno che non sa come soddisfare; si suole allora esaminare, ricercare questo bisogno, trovarlo, provvedervi. Se non lo si trova o non si può soddisfarlo, il pianto continua e finisce con l’infastidirci; allora vezzeggiamo il bambino perché taccia, lo culliamo, gli cantiamo una nenia per farlo addormentare; se si ostina, perdiamo la pazienza, lo minacciamo: certe nutrici brutali qualche volta lo battono. Strani ammaestramenti per il suo ingresso nella vita!

Non dimenticherò mai di aver visto uno di questi incomodi bambini sempre piagnucolanti picchiato così dalla nutrice. Si chetò di colpo e lo credetti intimidito. Dicevo tra me: sarà un’anima servile, da cui non si otterrà nulla se non con le cattive. Mi sbagliavo: il povero infelice, soffocato dalla collera, non riusciva più a respirare; lo vidi diventare violaceo. Un momento dopo scoppiarono acute grida; tutti i segni del risentimento, del furore e della disperazione possibili a quell’età erano espressi nella sua voce. Temetti che per la forte agitazione esalasse l’ultimo respiro. Se anche avessi dubitato che il sentimento del giusto e dell’ingiusto sia innato nel cuore dell’uomo, questo solo esempio mi avrebbe fatto ricredere. E sono certo che un tizzone ardente caduto per caso sulla mano di quel bambino gli sarebbe riuscito meno doloroso di quel colpo, in fondo leggero, ma inferto con la manifesta intenzione di offenderlo.

Questa disposizione dei bambini al cruccio, alla collera, al furore, esige straordinarie cautele. Il Boerhaave25 pensa che le loro malattie siano per lo più del tipo convulsivo, perché la loro testa è in proporzione più grossa, il sistema nervoso più esteso che negli adulti e, per conseguenza, più eccitabile. Allontanate dunque da loro con la massima cura i domestici che li stuzzicano, li irritano, li spazientiscono: sono cento volte più pericolosi, più funesti che non le ingiurie dell’aria e delle stagioni. Finché i bambini troveranno resistenza solo nelle cose e mai nell’altrui volontà, non diverranno né ribelli né collerici e godranno migliore salute. Ecco una delle ragioni per cui i bambini delle famiglie del popolo, più liberi, più indipendenti, sono in genere meno cagionevoli, meno delicati, più robusti di quelli che si pretende di allevare meglio contrariandoli senza tregua. Si rammenti sempre, però, che altro è non contrariarli, altro obbedire ai loro capricci.

Bisogno di attività e capricci

I primi pianti dei bambini sono preghiere, ma, se non si agisce con prudenza, diventano ben presto degli ordini: i bambini cominciano col farsi assistere e finiscono per farsi servire. Così da quella stessa debolezza, da cui proviene in un primo tempo il sentimento della loro dipendenza, nasce in seguito l’idea del comando e del dominio; ma poiché questa idea, più che dai loro bisogni, è suscitata dai nostri servigi, cominciano qui a manifestarsi effetti morali la cui causa immediata non risiede nella natura; è quindi chiaro perché, già in questa prima età, importi distinguere l’intenzione segreta che suggerisce il gesto od il grido.

Quando il bambino tende con sforzo la mano verso un oggetto senza dire nulla, crede di poterlo raggiungere, perché non sa valutarne la distanza: egli è in errore. Quando però si lamenta e grida tendendo la mano, allora non s’inganna più sulla distanza, bensì comanda all’oggetto di appressarsi o a voi di portarglielo. Nel primo caso, fatelo avvicinare all’oggetto lentamente e a piccoli passi; nel secondo, non dategli neppure l’impressione di starlo a sentire: più griderà, meno dovrete dargli retta. È importante avvezzarlo a non comandare né agli uomini, perché non è il loro padrone, né alle cose, perché queste non lo ascoltano affatto. Così, quando desidera qualche cosa che vede, e noi vogliamo dargliela, è meglio avvicinare il bambino all’oggetto anziché portare l’oggetto al bambino: egli trae dal ripetersi di questa esperienza una conclusione adeguata alla sua età e che non c’è altro mezzo di suggerirgli.

L’abate di Saint-Pierre26 definiva gli uomini dei grandi bambini; reciprocamente, potremmo chiamare i bambini dei piccoli uomini. Queste proposizioni, in quanto giudizi soggettivi, hanno la loro parte di verità; per assurgere al valore di principi, abbisognano di un chiarimento. Ma quando l’Hobbes27 definiva l’uomo malvagio come un bambino con forze di adulto, diceva cosa assolutamente contraddittoria. La cattiveria deriva sempre dalla debolezza e il bambino è cattivo solo perché è debole; rendetelo forte e sarà buono: colui che può tutto non farebbe mai del male. Tra tutti gli attributi della Divinità onnipotente la bontà è quello senza di cui meno è possibile concepirla. Tutti i popoli che hanno riconosciuto due principi hanno sempre considerato quello del male come inferiore a quello del bene; senza di che avrebbero fatto una supposizione assurda. Confrontate nelle pagine successive la Professione di fede del Vicario savoiardo.28

Solo la ragione ci insegna a conoscere il bene ed il male, e perciò la coscienza, che ci fa amare l’uno e odiare l’altro, benché indipendente dalla ragione, non può svilupparsi senza di essa. Anteriormente all’età della ragione facciamo il bene e il male senza conoscerlo; non c’è moralità nelle nostre azioni, benché ce ne sia talora nel sentimento che nasce in noi dal comportamento altrui nei nostri confronti. Il bambino vuol mettere a soqquadro tutto ciò che vede: rompe e fracassa quanto può raggiungere; afferra un uccello come afferrerebbe una pietra e lo soffoca senza sapere quello che fa.

Perché ciò? Una prima spiegazione tenterà di darla la filosofia, ricorrendo all’idea di vizi naturali, innati: l’orgoglio, lo spirito di dominio, l’amor proprio, la cattiveria dell’uomo; e potrà aggiungere che il sentimento della debolezza rende il bambino avido di compiere atti di forza e di provare a se stesso il proprio potere. Ma osservate quel vecchio malato e decrepito, ricondotto dal ciclo della vita umana alla debolezza dell’infanzia: non solo resta egli stesso immobile e tranquillo, ma vuole inoltre che tutto resti tale intorno a lui; il minimo cambiamento lo rende turbato ed inquieto, vorrebbe veder regnare una calma universale. Come potrebbe la medesima impotenza congiunta alle medesime passioni produrre effetti così diversi nelle due età, se la causa prima non fosse cambiata? E dove si può ricercare questa diversità di cause se non nello stato fisico dei due individui? Il principio attivo, comune ad entrambi, si sviluppa nell’uno e si spegne nell’altro; l’uno si forma e l’altro si distrugge; l’uno tende alla vita e l’altro alla morte. L’attività declinante tende, nel cuore del vecchio, a concentrarsi; in quello del bambino invece è sovrabbondante e si riversa all’esterno; egli sente in sé, per così dire, tanta vita da poter animare tutto ciò che lo circonda. Che il suo sia un fare o un disfare non ha importanza; gli basta mutare lo stato delle cose e ogni mutamento è un’azione. Che se poi sembra avere maggiore inclinazione a distruggere, non è certo per cattiveria, ma perché l’azione costruttiva è sempre lenta, quella che distrugge più rapida e quindi più consona alla sua vivacità.

Se l’Autore della natura infonde nei bambini questo principio attivo, provvede altresì a che sia poco nocivo, lasciando loro esigue forze per esercitarlo. Ma se appena si dà loro la possibilità di considerare le persone che li circondano come docili strumenti, subito se ne servono per seguire la loro inclinazione e supplire così alla propria debolezza. Ecco in che modo divengono fastidiosi, tirannici, imperiosi, cattivi, ribelli; né si pensi che tale trasformazione provenga da un naturale spirito di dominio, ché anzi è proprio essa a farlo nascere; non occorre infatti lunga esperienza per sentire quanto sia piacevole operare con le mani altrui e limitarsi ad agitar la lingua per far muovere l’universo.

Crescendo, il fanciullo acquista maggiori forze, diventa meno inquieto, meno turbolento, si rinchiude maggiormente in se stesso. L’anima e il corpo si mettono, per così dire, in equilibrio e la natura non richiede altro movimento che quello necessario alla conservazione. Ma il desiderio di comandare non si estingue col bisogno che l’ha generato; il potere desta e lusinga l’amor proprio e l’abitudine lo rafforza: è così che al bisogno subentra il capriccio, è così che mettono le prime radici i pregiudizi dell’opinione.

Una volta conosciuto il principio, possiamo scorgere chiaramente il punto esatto in cui si abbandona la via della natura; consideriamo ora ciò che si deve fare per mantenervisi.

Lungi dall’aver forze superflue, i bambini non ne hanno neppure abbastanza per tutto ciò che la natura esige da loro; occorre dunque permettere che adoperino tutte quelle di cui li fornisce e di cui non sono certo in grado di abusare. Prima massima.

Bisogna aiutarli e supplire a quanto manca loro d’intelligenza e di forza in tutto ciò che concerne i bisogni fisici. Seconda massima.

Bisogna, nell’aiuto che si dà loro, limitarsi a quanto è realmente utile, senza nulla concedere al capriccio o al desiderio irragionevole; il capriccio infatti non potrà tormentarli, se si sarà evitato che nasca, poiché non proviene dalla natura. Terza massima.

Bisogna studiare con cura il loro linguaggio e i loro segni, onde poter distinguere, in un’età in cui non sanno ancora dissimulare, ciò che nei loro desideri deriva immediatamente dalla natura e ciò che deriva dall’opinione. Quarta massima.

L’intento di queste regole è concedere di più all’autentica libertà dei bambini e meno al loro arbitrio, indurli a fare di più con le proprie forze e ad esigere meno dagli altri. Avvezzandosi così per tempo a proporzionare i desideri alle forze, sentiranno poco la privazione di ciò che non sia in loro potere.

Ecco dunque una nuova e importantissima ragione per lasciare il corpo e le membra dei bambini assolutamente liberi, con la sola precauzione di tenerli al sicuro dal pericolo di cadute e di toglier loro di mano ogni oggetto che possa ferirli.

Un bambino che abbia liberi il corpo e le mani piangerà sicuramente meno di un altro che sia infagottato nelle fasce. Quello che conosce unicamente i bisogni fisici, piange soltanto quando soffre; ed è un grande vantaggio, perché allora si sa con precisione quando ha bisogno di assistenza e non si deve tardare un momento ad offrirgliela, se è possibile. Ma se non si può recargli sollievo, è meglio restarsene tranquilli, senza ricorrere alle carezze per calmarlo: tanto non saranno esse a guarirlo della sua colica. Egli tuttavia si ricorderà di ciò che bisogna fare per essere accarezzato e, se scopre il modo di farvi interessare a lui a suo piacimento, eccolo diventato il vostro padrone: tutto è perduto.

Meno contrariati nei loro movimenti, i bambini piangeranno di meno; meno importunati dai loro pianti, avremo meno bisogno di arrovellarci per farli tacere; minacciati o vezzeggiati meno spesso, essi diverranno meno facilmente o timidi o testardi e conserveranno meglio il loro stato naturale. D’altro canto, lasciandoli piangere anziché affrettarsi a calmarli, i bambini verranno meno esposti al pericolo dell’ernia; ne sia prova che i più trascurati sono soggetti a questo male meno degli altri. Non voglio dire con ciò che si debba trascurarli, importa al contrario prevenirli e non aspettare che ad avvertirci dei loro bisogni siano gli strilli. Ma non voglio neppure che le cure prestate loro siano male interpretate. Perché mai dovrebbero astenersi dal piangere, quando vedono che il loro pianto può servire a tante cose? Resi edotti del valore che si attribuisce al loro silenzio, si guardano bene dall’esserne prodighi, finiscono anzi per farlo talmente valere che non si può più pagarlo, ed è allora che a furia di piangere senza successo si sforzano, si sfibrano, si uccidono.

I lunghi pianti di un bambino che non sia malato né stretto dalle fasce, e che non manchi di nulla, sono unicamente frutto della abitudine e dell’ostinazione. Non sono affatto opera della natura ma della nutrice che, incapace di sopportarne il fastidio, lo moltiplica, senza pensare che dandosi oggi la pena di far tacere il bambino. lo incita a piangere di più domani.

Il solo modo di guarire o di prevenire questa abitudine è di non prestarvi alcuna attenzione. Nessuno ama fare una fatica inutile, neppure i bambini. Essi sono ostinati nei loro tentativi, ma se la vostra costanza supera la loro ostinazione, si scoraggiano e non ci provano più. In questo modo si risparmiano loro molte lagrime ed essi si abituano a versarne solo quando il dolore li sforza.

Del resto, quando piangono per capriccio o per ostinazione, c’è un mezzo sicuro per impedir loro di continuare: distrarli con qualche oggetto piacevole e curioso in modo che si scordino di voler piangere. La maggior parte delle nutrici eccelle in quest’arte che, se bene adoperata, è utilissima. Ma è di estrema importanza che il bambino non si accorga dell’intenzione di distrarlo e si diverta senza credere che qualcuno pensi a lui: orbene, proprio in ciò le nutrici si dimostrano poco accorte.

Svezzamento, dentizione, nutrimento solido. L’inizio del linguaggio

Tutti i bambini vengono svezzati troppo presto. Il tempo in cui si deve svezzarli è indicato dallo spuntare dei denti, fenomeno comunemente molesto e doloroso. Allora il fanciullo, istintivamente, porta spesso alla bocca tutto ciò che ha in mano, per masticarlo. Si ritiene di facilitare l’operazione dandogli da masticare qualche oggetto duro: avorio, ad esempio, o una zanna di lupo. Credo che sia un errore. Questi oggetti duri, premuti contro le gengive, anziché intenerirle le rendono callose, le induriscono, preparano una lacerazione più difficile e più dolorosa. Ancora una volta sarà meglio prendere esempio dall’istinto naturale. Non accade mai di vedere giovani cuccioli esercitare la nascente dentatura sui ciottoli, sul ferro, sull’osso, ma sul legno, sul cuoio, sul panno, materie molli e cedevoli, ove il dente può lasciare l’impronta.

Non c’è nulla ormai in cui si sappia essere semplici, neppure riguardo ai bambini. Sonagli d’argento, d’oro, di corallo, cristalli sfaccettati, ninnoli di ogni specie e di ogni valore: che apparato inutile e dannoso! Basta con tutto ciò: niente più ninnoli e sonagli, ma piccoli rami d’albero con frutti e foglie, una testa di papavero risonante di granelli, un cannello di liquerizia da succhiare e masticare li divertiranno quanto quei dispendiosi gingilli e non presenteranno l’inconveniente di abituarli al lusso fin dalla nascita.

È stato riconosciuto che la pappa di farina non è nutrimento molto sano. Il latte cotto e la farina cruda formano un impasto poco digeribile e mal si addicono al nostro stomaco. In questo genere di pappa la farina è meno cotta che nel pane e per di più non ha fermentato; il pancotto e la crema di riso mi sembrano preferibili. Se proprio si vuol fare la pappa con la farina, è opportuno che questa venga prima un poco abbrustolita. Al mio paese, con la farina così tostata si prepara una zuppa molto gradevole e sana. Il brodo di carne e la minestra sono anch’essi un mediocre alimento, di cui è bene usare il meno possibile. Importa che i bambini si abituino innanzi tutto a masticare; questo è il vero mezzo per facilitare lo spuntare dei denti; e quando cominciano ad inghiottire, i succhi salivari mescolati agli alimenti ne facilitano la digestione.

Io dunque darei loro da masticare frutta secca e croste di pane e, per trastullarsi, bastoncelli di pane duro o di biscotto simili al pane di Piemonte, che in quel paese chiamano «grissini». A forza di rammollire quel pane nella bocca, finirebbero per inghiottirne un po’: così i loro denti spunterebbero senza sforzo ed essi si troverebbero svezzati prima ancora di accorgersene. I contadini per solito hanno uno stomaco eccellente e per svezzare i loro piccoli non adoperano mezzi più delicati di questi.

I bambini sentono parlare fin dalla nascita; si usa rivolgere loro parole, non solo prima che le comprendano, ma prima che siano in grado di riprodurre le voci che odono. Il loro organo ancora intorpidito si presta solo gradualmente all’imitazione dei suoni che si fanno loro sentire e non è neppure accertato che in un primo tempo questi suoni pervengano al loro orecchio così distintamente come al nostro. Io non disapprovo che la nutrice trastulli il bambino con voci e con canti assai vari e festevoli. Disapprovo però che lo stordisca senza tregua con una folla di parole di cui nulla comprende se non il tono con cui ella le pronunzia. Vorrei che le prime articolazioni che gli si fanno sentire fossero rare, facili, distinte, spesso ripetute, e che le parole così espresse concernessero solo oggetti sensibili, da poter mostrare precedentemente al fanciullo. L’incresciosa facilità con cui ci appaghiamo di parole che non comprendiamo comincia più presto di quanto si pensi. Lo scolaro ascolta in classe gli sproloqui del maestro così come ascoltava in fasce le ciance della nutrice. Credo che sarebbe un ottimo insegnamento abituarlo a non capirci niente.

Tutta una folla di riflessioni si presenta alla mente, quando uno voglia occuparsi della formazione del linguaggio e dei primi discorsi dei bambini. Qualunque cosa si faccia, impareranno sempre a parlare alla stessa maniera e tutte le speculazioni filosofiche riescono in questa circostanza completamente inutili.

In primo luogo essi hanno, per così dire, una grammatica della loro età, la cui sintassi ha regole più generali della nostra; e se vi si prestasse attenzione, si sarebbe stupiti dell’esattezza con cui seguono certe analogie, difettose indubbiamente, ma regolarissime e che riescono fastidiose solo per la loro durezza o perché l’uso non le ammette. Mi è accaduto, or non è molto, di vedere un bambino aspramente rimproverato dal padre per avergli detto: Mon père irai-je-t-y?w Ma è chiaro che quel fanciullo seguiva l’analogia meglio dei nostri grammatici, infatti, se a lui si diceva Va-s-y,x perché non avrebbe potuto dire Irai-je-t-y? Notate per di più con che abilità evitava lo iato di irai-je-y o di y irai-je? È forse colpa del povero bambino se abbiamo inopportunamente eliminato dalla frase questo avverbio determinativo y, perché non sapevamo come sistemarcelo? È una pedanteria insopportabile e una sollecitudine delle più superflue ostinarsi a correggere nei bambini tutte queste piccole deviazioni dall’uso, delle quali non mancano mai di liberarsi spontaneamente col tempo. Parlate sempre correttamente dinanzi a loro, fate in modo che preferiscano sempre la vostra compagnia a quella degli altri e state certi che a poco a poco il loro linguaggio si purificherà modellandosi sul vostro, senza che li abbiate mai rimproverati.

Ma un abuso di ben altra importanza e non meno facile a prevenire è l’eccessiva fretta di farli parlare, quasi per timore che non imparino a farlo spontaneamente. Questa indiscreta sollecitazione produce un effetto esattamente contrario a quello voluto. Cominciano a parlare più tardi e più confusamente: l’estrema attenzione che si presta a tutto quello che dicono li dispensa dall’articolare con chiarezza; e siccome si degnano a malapena di aprire la bocca, parecchi di loro conservano per tutta la vita un difetto di pronunzia e un parlar confuso che li rende quasi inintelligibili.

Ho vissuto molto tra i contadini e non ho mai udito alcuno pronunciare la erre con l’ugola, né uomini né donne, né giovanette né ragazzi. Per quale ragione? Gli organi vocali dei contadini sono fatti diversamente dai nostri? Certamente no, ma sono diversamente esercitati. Di fronte alla mia finestra sorge una collinetta su cui si radunano, per giocare, i bambini del luogo. Benché piuttosto lontani da me, distinguo perfettamente ciò che dicono e ne traggo spesso buoni spunti per queste pagine. Tutti i giorni l’orecchio m’inganna sulla loro età, sento voci di fanciulli di dieci anni, guardo, e vedo stature e fisionomie di tre o quattro anni. E non sono il solo a fare questa esperienza; i conoscenti di città che vengono a farmi visita, e che consulto in proposito, cadono tutti nello stesso errore.

Ciò accade perché, fino a cinque o sei anni, ai bambini di città, allevati in una stanza e sotto le tenere ali di una governante, basta un confuso mormorio per farsi intendere: appena muovono le labbra, qualcuno si dà la pena di ascoltarli; si suggeriscono loro parole che non sanno pronunziare e le persone che vivono accanto a loro, sempre le stesse, a forza di esercitare l’attenzione, finiscono per indovinare, non già ciò che hanno detto, bensì ciò che hanno voluto dire.

In campagna è ben diverso. Una contadina non passa il giorno intero a covare il suo bambino e questi deve per necessità imparare a dire con molta chiarezza e a voce alta ciò che ha bisogno di farle capire. Nei campi poi, sparsi qua e là, lontani dal padre, dalla madre e dai coetanei, i bambini si avvezzano a farsi capire a distanza e a misurare la voce sullo spazio che li separa da coloro cui vogliono farsi intendere. È così che s’impara davvero a pronunciare le parole, e non balbettando qualche vocale all’orecchio di una attenta governante. Quando si rivolge una domanda a un contadinello, può anche accadere che la timidezza gl’impedisca di rispondere, ma quello che dice è chiarissimo; invece al bambino di città occorre che la governante faccia da interprete, altrimenti non si capisce niente di quel che borbotta tra i denti.y

Crescendo, i fanciulli dovrebbero correggere questo difetto nei collegi, e le fanciulle nei conventi. In verità, gli uni e le altre parlano in genere con voce più netta a paragone di quelli che vengono allevati esclusivamente nella casa paterna. Ma ciò che impedisce loro definitivamente di acquisire una pronuncia chiara quanto quella dei contadini è la necessità di imparare molto a memoria e di ripetere a voce alta quello che hanno imparato; studiando, infatti, si abituano a barbugliare, a pronunciare svogliatamente e male; e quando recitano i brani appresi, è ancora peggio: ricercano con sforzo le parole, strascicano e allungano le sillabe; è impossibile che, quando la memoria vacilla, la lingua non balbetti a sua volta. Così si contraggono o si conservano i difetti di pronunzia. Si vedrà nelle pagine che seguono che il mio Emilio sarà esente da tali difetti o, almeno, che li avrà contratti per ragioni diverse.

Riconosco che la gente del popolo e quella dei campi cadono in un eccesso opposto: parlano quasi sempre più forte di quanto occorra, pronunciano con esagerata meticolosità tutte le sillabe, sì che il loro articolare riesce rozzo e pesante, il tono del loro discorso è troppo colorito, la scelta dei termini non buona, ecc.

Ma, in primo luogo, questo eccesso mi pare meno riprovevole dell’altro: atteso che la prima legge del discorso è quella di farsi capire, l’errore più grave che si possa commettere è di parlare senza essere capiti. Compiacersi poi nel discorso di un tono assolutamente neutro e incolore, significa compiacersi di togliere alle frasi grazia ed energia. Il tono è l’anima del discorso, gli dà il sentimento e la verità. Il tono è meno menzognero della parola; e forse proprio per questo le persone per bene ne hanno tanta paura. È dall’uso di dire tutto sullo stesso tono che è nato quello di schernire il prossimo senza che se ne accorga. Messa al bando la schietta intonazione, subentrano modi di pronunciare ridicoli, affettati e soggetti alla moda, quali si notano soprattutto nella gioventù che vive a corte. È questa affettazione di parola e di atteggiamento che rende quasi sempre scoraggiante e spiacevole agli altri popoli il contatto con il Francese. Nelle sue parole, anziché schiettezza di tono, mette sussiego. Non è certo il mezzo più adatto a produrre una buona impressione.

Tutti quei piccoli difetti di linguaggio, cui tanto si teme che i bambini, se lasciati a se stessi, possano assuefarsi, non sono gran cosa; si possono prevenire o correggere con la più grande facilità; ma quelli che si fanno contrarre loro, rendendone la pronunzia sorda, confusa e timida, criticando senza posa la loro intonazione, scrutinando pedantescamente tutte le loro parole, non si correggono più. Un uomo che ha imparato a parlare unicamente alle persone ricevute in camera da letto mal si farà comprendere alla testa di un battaglione, né avrà presa alcuna sul popolo in occasione di una sommossa. Insegnate ai bambini a parlare innanzi tutto agli uomini, ché alle donne sapranno ben parlare quando sarà l’ora.

Allevati in campagna, in un’atmosfera genuinamente rustica, i bambini acquisteranno una voce più squillante, senza avvezzarsi al confuso balbettio di quelli di città, e senza neppure assumere espressioni e intonazioni contadinesche, che in ogni caso abbandoneranno agevolmente quando il maestro, che vive con loro fin dalla nascita, e in maniera via via più esclusiva, preverrà o eliminerà con la correttezza del proprio linguaggio ogni traccia di quello contadino. Emilio parlerà il più puro francese che io sarò capace di insegnargli, ma lo parlerà più distintamente e lo articolerà molto meglio di me.

Il bambino che vuol parlare deve ascoltare solo le parole che può intendere, e pronunziare solo quelle che può articolare. Gli sforzi che compie a tale scopo lo portano a replicare la stessa sillaba, come per esercitarsi a pronunciarla più distintamente. Quando comincia a balbettare, non arrovellatevi troppo a indovinare ciò che dice. Pretendere di essere sempre ascoltato è una forma di tirannia e il bambino non deve esercitarne alcuna. Vi basti provvedere diligentemente a ciò che è necessario; è affar suo cercare di farvi intendere ciò che necessario non è. Ancor meno opportuno è affrettarsi ad esigere che parli; saprà farlo certamente da sé man mano che ne sentirà l’utilità.

Si osserva, ed è vero, che quelli che cominciano a parlare molto tardi non parlano mai con la stessa chiarezza degli altri; ma non si creda che il loro organo vocale resti impacciato per il fatto che hanno parlato più tardi; al contrario, proprio perché tale organo era impacciato fin dalla nascita, ne risulta il lamentato ritardo; altrimenti perché indugerebbero? Hanno forse meno degli altri occasione di parlare? Sono stati meno sollecitati a farlo? Anzi, l’inquietudine provocata dal ritardo, non appena scoperto, li condanna a subire ogni sorta di pressione, perché si decidano, come che sia, a balbettare, ben più di quanto accada agli altri, che hanno parlato più presto. E questa malintesa sollecitudine può molto contribuire a rendere confusa la loro favella, laddove, con minore precipitazione, avrebbero avuto il tempo di perfezionarla maggiormente.

I bambini stimolati a parlare precocemente non hanno il tempo né di imparare a pronunciare bene, né di ben comprendere che cosa si fa loro dire; viceversa, quando si lascia che procedano a modo loro, si esercitano dapprima con le sillabe più facili a pronunciarsi e, aggiungendovi a poco a poco qualche significato precisato dai loro gesti, ci rivolgono le loro parole prima di aver ricevuto le nostre: ciò significa che accolgono queste ultime solo dopo averle comprese. Non costretti a servirsene anzi tempo, cominciano con l’osservare bene quale senso diamo loro; e, quando se ne sono accertati, le adottano.

L’effetto più grave della precipitazione con cui si inducono i bambini a parlare anzi tempo non è che i primi discorsi rivolti loro e le prime parole da loro dette non abbiano per essi alcun senso, ma che ne abbiano uno diverso dal nostro, senza che a noi sia dato accorgercene; di guisa che, pur sembrando risponderci con molta esattezza, ci parlano senza comprenderci e senza essere compresi da noi. E a siffatti equivoci è dovuta per solito la sorpresa che suscitano in noi certi loro discorsi cui attribuiamo sensi che quelli non avevano affatto. Questa nostra disattenzione al vero significato che le parole hanno per i bambini mi sembra essere la causa dei loro primi errori; e questi errori, anche quando ne sono guariti, influiscono sulla loro fisionomia mentale per il resto della vita. Avrò più volte occasione in seguito di chiarire questo punto con esempi.

Riducete dunque quanto più potete il vocabolario del bambino. È un inconveniente gravissimo che egli abbia più parole che idee e che sappia dire più cose di quante possa pensarne. Credo che una delle ragioni per cui il contadino, a confronto dell’uomo di città, ha in genere una mente più solida e più precisaz risieda nella minore estensione del suo vocabolario. Possiede poche idee, ma sa connetterle benissimo.

I primi progressi dell’infanzia hanno luogo quasi simultaneamente. Il bambino impara a parlare, a mangiare, a camminare pressappoco nello stesso tempo. E in verità è proprio questa la prima epoca della sua vita. Precedentemente, egli non è nulla di più di ciò che era nel seno materno; non ha sentimenti, non ha idee, ma solo qualche sensazione; e non avverte neppure la propria esistenza:

Vivit, et est vitae nescius ipse suae.29

a. La prima educazione è quella più importante e questa educazione appartiene incontestabilmente alle donne: se il Creatore avesse voluto confidarla agli uomini, avrebbe dato loro anche il latte per nutrire i fanciulli. Parlate dunque soprattutto alle donne nei trattati sull’educazione; non solo infatti sono più degli uomini in grado di seguirla da presso e sempre vi esercitano maggiore influenza, ma sono anche più interessate alla sua felice riuscita, poiché la maggior parte delle vedove si trovano quasi alla mercè dei loro figlioli e allora avvertono direttamente, in bene o in male, l’effetto del modo in cui li hanno educati. Le leggi, sempre così sollecite dei beni materiali e così poco delle persone, perché hanno di mira la pace e non la virtù, non attribuiscono abbastanza autorità alle madri. Tuttavia la loro condizione è più certa di quella dei padri, i loro doveri sono più faticosi, l’opera loro più necessaria al buon ordine della famiglia; di solito, nutrono un più vivo affetto per i fanciulli. Vi sono circostanze in cui un figlio che manchi di rispetto al padre può in qualche modo esserne scusato; ma se, in qualsiasi occasione, un fanciullo fosse tanto snaturato da offendere la madre, colei che lo ha portato nel suo seno, che lo ha nutrito del suo latte, che per anni ha dimenticato se stessa per occuparsi di lui, si dovrebbe immediatamente soffocare questo miserabile come un mostro indegno di vedere la luce. Si dice che le madri siano solite viziare i loro bambini. In questo hanno torto, senza dubbio, ma meno di voi che, forse, li inducete alla depravazione. La madre vuole che il suo bambino sia felice e che lo sia subito. In questo ha ragione: quando s’inganna sui mezzi da impiegare, bisogna illuminarla. L’ambizione, l’avarizia, la tirannia, la falsa previdenza dei padri, la loro negligenza, la loro dura insensibilità, sono cento volte più funeste ai fanciulli che non la cieca tenerezza delle madri. Del resto, bisogna spiegare quale senso io dia al nome di madre, ed è ciò che verrà fatto tra poco.

b. grande route (Emile, p. 6). Preferiamo «strada battuta da tutti» invece di «via maestra» (De Anna, p. 5) o «strada maestra» (Roggerone, p. 8), che pure esprimono il significato normale dell’espressione francese. Ma in questo contesto grande route ha evidentemente un’accezione negativa, critica: indica la strada facile e convenzionale che tutti percorrono, come ha ben visto, ad esempio, il Visalberghi (p. 48), che traduce «via comune». (NdT)

c. Il signor Formey, a quanto mi assicurano, ha creduto che io volessi parlare qui di mia madre e lo ha detto in qualche suo scritto. Ciò significa burlarsi crudelmente del Formey o di me.

Formey, pastore protestante tedesco, aveva pubblicato già nel 1763 un Anti-Emilio. L’editore di Rousseau, Néaulme, temendo di essere condannato a una multa per certe affermazioni contenute nell’opera di Jean-Jacques, chiese a Formey di rivederla e di «purgarla di tutto ciò che potesse costituire materia di scandalo». Formey, per compiacerlo, compose un Emilio cristiano, che Rousseau non gli perdonò, trattandolo da «sfrontato saccheggiatore». Donde gli attacchi che moltiplica nelle sue note. (Note al testo di François e Pierre Richard)

d. Esteriormente simile agli altri, ma sprovvisto della parola e delle idee che in essa si esprimono, gli sarebbe impossibile far loro intendere che ha bisogno di aiuto e nulla in lui renderebbe loro manifesto tale bisogno.

e. Il Formey ci assicura che non è esattamente così che si dice. Eppure mi sembra che proprio così dica questo verso, al quale mi proponevo di replicare:

La natura, credi a me, non è che l’abitudine.

Il Formey, non volendo che i suoi simili abbiano a peccare di eccessivo orgoglio, ci presenta modestamente la misura del suo cervello come quella dell’intelletto umano.

f. Accade così che le guerre delle repubbliche siano più crudeli di quelle delle monarchie. Ma se la guerra dei re è moderata, la loro pace è terribile: meglio essere loro nemico che loro suddito.

g. il aimait la patrie exclusivement à lui (Emile, p. 9). L’espressione appare, a tutta prima, un po’ oscura. E tale oscurità resta nelle due ultime traduzioni italiane: «amava… la patria come esclusivamente sua» (De Anna, p. 9), «amava la patria esclusivamente sua» (Roggerone, p. 12). Ma il significato si chiarisce attribuendo al nesso exclusivement à lui il valore etimologico di “con esclusione di sé”, cioè, “prescindendo completamente dal proprio interesse personale”, che è l’atteggiamento di chi pone la patria al di sopra di se stesso. Ce ne danno conferma la traduzione tedesca dell’Esterhues (p. 15): auch mit Ausschliessung seiner selbst, e quella inglese della Foxley (p. 7): he ever loved his country better than his life. (NdT)

h. In molte scuole, e soprattutto nell’Università di Parigi, vi sono professori che amo e stimo molto e che ritengo pienamente capaci di istruire a dovere la gioventù, se non fossero costretti a seguire l’uso corrente. Esorto uno di loro a pubblicare il progetto di riforma che ha concepito. Forse prevarrà finalmente l’idea di guarire il male, risultando chiaro come esso non sia senza rimedio.

i. vocation des parents (Emile, p. 12). L’espressione è compendiosa, perciò proponiamo una traduzione esplicativa: «scelta della professione operata dai genitori». In verità il termine “professione” non ha lo stesso valore di “vocazione”, ma che il Rousseau intenda parlare di scelta professionale è confermato da ciò che dice poco dopo: «che il mio alunno sia destinato alle armi, alla Chiesa o alla toga, poco m’importa». D’altra parte l’italiano non ha un termine unico che accolga in sé entrambe le accezioni, come l’inglese vocation e il tedesco Beruf, che permettono al Boyd (p. 15) di tradurre vocation determined by his parents e all’Esterhues (p. 17) Berufswahl der Eltern. (NdT)

j. L’alleanza delle donne e dei medici mi è sempre parsa una delle più divertenti singolarità di Parigi. È grazie alle donne che i medici si fanno un nome ed è grazie ai medici che le donne fanno il proprio comodo. È facile immaginare, perciò, quale specie di abilità occorra a un medico di Parigi per diventare celebre.

k. Quando si legge in Plutarco che Catone il Censore, che governò tanto gloriosamente Roma, allevò lui stesso il proprio figlio nella culla, e con tale sollecitudine che abbandonava ogni occupazione per essere presente quando la nutrice, cioè la madre, lo prendeva e lo allattava; quando si legge in Svetonio che Augusto, padrone del mondo, che di suo pugno aveva conquistato e governava, insegnava personalmente ai nipotini a scrivere, a nuotare, ad imparare gli elementi delle scienze, e che li aveva continuamente intorno a sé, vien fatto di ridere di questa cara e semplicetta umanità del buon tempo antico, che si coccolava in simili scempiaggini, troppo limitata, senza dubbio, per saper attendere ai grandi affari dei grandi uomini dei nostri giorni.

Plutarco, Vita di Catone, 41. (Note al testo di François e Pierre Richard)

Svetonio, Vita d’Augusto, LXVI. (Note al testo di François e Pierre Richard)

l. gouverneur (Emile, p. 23). Non è facile trovare un preciso equivalente di questo termine. I traduttori italiani lo rendono comunemente con «precettore». Ma il Rousseau gli attribuisce esplicitamente un senso più ampio: il precettorato è per lui solo una parte dei compiti spettanti al gouverneur. Dopo molte riflessioni, abbiamo optato per il termine «pedagogo», poiché il gouverneur è l’accompagnatore permanente di Emilio e il responsabile della sua formazione morale, come l’antico pedagogo. Dice infatti H. Marrou (Storia dell’educazione nell’antichità, Roma 1950, p. 197): «… tutta l’educazione morale è confidata al pedagogo… La lingua rispecchia questa importanza di fatto; nel greco ellenistico paidagogós perde abbastanza frequentemente il significato etimologico di schiavo “accompagnatore” per prendere l’accezione moderna di pedagogo, l’educatore in senso pieno». S’intende però che adoperiamo anche noi il termine “precettore” ogni qual volta lo stesso Rousseau lo adoperi, trascurando la distinzione ormai chiarita e quindi non più necessaria. (NdT)

m. Ecco un esempio tratto dai giornali inglesi, che non posso fare a meno di riferire, tante sono le riflessioni che suggerisce intorno al mio argomento.

«Un privato cittadino che risponde al nome di Patrice Oneil, nato nel 1647, si è recentemente sposato nel 1760 per la settima volta. Prestò servizio nei dragoni durante il diciassettesimo anno del regno di Carlo II, e in diversi corpi fino al 1740, quando ottenne il congedo. Ha partecipato a tutte le campagne del re Guglielmo e del duca di Marlborough. Quest’uomo ha bevuto sempre ed esclusivamente birra ordinaria, si è sempre nutrito di vegetali e non ha mai mangiato carne, se non in qualche pranzo offerto alla famiglia. È sempre stata sua costante abitudine andare a letto ed alzarsi col sole, tranne quando i suoi doveri glielo abbiano impedito. Egli conta attualmente centotredici anni: ci sente bene, gode buona salute e cammina senza bastone. Malgrado la sua eccezionale età, non resta inoperoso un solo momento; e tutte le domeniche si reca alla sua parrocchia, accompagnato da figli, nipoti e pronipoti.»

n. Le donne mangiano pane, verdure, latticini; anche le cagne e le gatte ne mangiano; persino le lupe pascolano. Di qui vengono i succhi vegetali per il loro latte. Resta da esaminare quello delle specie che non possono nutrirsi d’altro che di carne, ammesso che ve ne siano, ed io ne dubito.

o. Benché i succhi che ci nutrono siano liquidi, debbono essere tratti da alimenti solidi. Un uomo attivo che vivesse di solo brodo deperirebbe immediatamente. Sarebbe molto meglio sostentato dal latte, perché questo caglia.

p. Coloro che vorranno discutere più a lungo i vantaggi e gli inconvenienti della dieta pitagorica potranno consultare i trattati che il dottor Cocchi e il suo avversario Bianchi hanno scritto su questo importante argomento.

q. Nelle città i bambini vengono soffocati a furia di tenerli tappati in casa e coperti dalla testa ai piedi. Quelli che li allevano ancora non sanno che l’aria fredda, lungi dal far loro del male, li irrobustisce, mentre l’aria calda dà loro la febbre e li uccide.

r. Dico «culla», per adoperare una parola d’uso corrente, in mancanza di altre; sono però persuaso che non sia mai necessario cullare i bambini e che questa abitudine riesca loro spesso perniciosa.

s. «Gli antichi Peruviani lasciavano ai bambini le braccia libere mediante un’infasciatura molto larga; quando lo sbarazzavano delle fasce, lo mettevano in libertà in una buca scavata per terra e imbottita di pannolini, dove li calavano fino a metà del corpo; in questo modo avevano le braccia libere, potevano muovere la testa e piegare il corpo a loro piacimento, senza cadere e senza ferirsi. Appena erano in grado di fare i primi passi, si offriva loro la mammella da una certa distanza, come un’esca per indurli a camminare. I piccoli negri si trovano talora in una situazione molto più faticosa per poppare: si avvinghiano con le gambe e coi piedi alle anche della madre e le stringono così forte da poter restare appesi senza l’aiuto delle braccia materne. Si aggrappano alla mammella con le mani e la succhiano in continuazione, senza scomporsi e senza cadere, nonostante i vari movimenti della madre che, nel frattempo, lavora come al solito. Questi bambini cominciano a camminare dal secondo mese, o piuttosto a trascinarsi sulle ginocchia e sulle mani. Tale esercizio consente loro in seguito di correre, in questa posizione, con la stessa facilità che se fossero ritti in piedi» (Buffon, Storia naturale, vol. IV, in 12º, p. 192).

A questi esempi il Buffon avrebbe potuto aggiungere quello dell’Inghilterra, dove la stravagante e barbara usanza delle fasce va di giorno in giorno sparendo. Si vedano anche La Loubère, Viaggio nel Siam; Sieur Le Beau, Viaggio in Canadà, ecc. Potrei riempire venti pagine di citazioni, se avessi bisogno di confermare coi fatti il mio assunto.

t. L’odorato è, tra tutti i sensi, quello che si sviluppa più tardi nei bambini: fino all’età di due o tre anni non sembra che siano sensibili né ai buoni né ai cattivi odori; hanno, a questo riguardo, la stessa indifferenza o piuttosto insensibilità che si nota in parecchi animali.

u. Toutes nos langues sont des ouvrages de l’art (Emile, p. 45). Tradurre «tutte le lingue sono opere d’arte» (De Anna, p. 37; Roggerone, p. 50) ci sembra poco felice, considerato il senso corrente dell’espressione “opere d’arte”. Preferiamo tradurre «creazioni artificiali», per meglio rendere l’antitesi qui posta dal Rousseau con la lingua naturale, che è quella dei bambini. (NdT)

v. Moins sa manière d’être est à sa disposition (Emile, p. 46). Una traduzione puramente letterale: «quanto meno il suo modo di essere è a sua disposizione» (Roggerone, p. 51) ci sembra poco perspicua. L’Esterhues (p. 47) interpreta (trasponendo in italiano la sua traduzione): «quanto meno la sua condizione corrisponde al bisogno del momento». Ma il Rousseau, a nostro avviso, vuole dar rilievo in questo passo alla debolezza e all’imperfezione del neonato, che non ha altro mezzo per soddisfare i suoi bisogni se non il pianto, con cui richiama su di essi l’attenzione degli adulti. Pertanto il nesso à sa disposition ci sembra indicare la capacità di disporre da sé del proprio stato; di qui la nostra traduzione: «quanto meno è in grado di modificare da sé la sua condizione». Si confronti in proposito la nota a) in appendice al Libro secondo. (NdT)

w. Padre mio, ci andrò? (NdT)

x. Vacci. Abbiamo preferito lasciare intatto l’esempio francese, per l’impossibilità di tradurlo o di sostituirlo con altro perfettamente analogo. (NdT)

y. Non mancano tuttavia le eccezioni: spesso quei bambini che all’inizio meno si fanno sentire diventano in seguito i più assordanti, quando hanno cominciato ad alzare la voce. Ma se dovessi entrare in tutti questi minuti particolari, non ne verrei mai a capo. Ogni lettore di buon senso deve capire che l’eccesso e il difetto, derivanti dal medesimo abuso, sono egualmente corretti dal mio metodo. Io considero inseparabili queste due massime: “Sempre abbastanza” e “mai troppo”. Applicata a dovere la prima, l’altra ne consegue di necessità.

z. l’esprit plus juste (Emile, p. 52). Traduciamo «mente più solida e più precisa», evitando il puro calco: «spirito più giusto» (De Anna, p. 48), generico, perché qui esprit significa “mente”, e poco chiaro, per l’ambiguità dell’aggettivo “giusto”, e rifiutando l’interpretazione del Roggerone (p. 64): «mente più limitata», poco aderente al contesto, in cui si esprime un giudizio positivo sulle capacità mentali del contadino, che ha poche idee, ma chiare e ben collegate. Si confrontino la Foxley (p. 40): peasants are generally shrewder, e l’Esterhues (p. 58): man bei den Bauersleuten im allgemein mehr gesunden, natürlichen Verstand findet. (NdT)