Un’ala ammaccata
«L’ho invitato a bere qualcosa con noi, stasera».
Rebecca, che è rientrata in cucina dopo aver parlato con Chris, armeggia con la spina di corrente dell’albero.
«E lui ha accettato?» domando prendendo la mia confezione di crema di marshmallow dalla credenza.
«Tu che dici? Ovviamente no. È astemio, oltre che asociale». Le lucine si accendono e parte un medley natalizio.
Quando i toast sono pronti, li metto in un piatto e ci spalmo sopra la crema, poi esco dalla cucina e busso alla camera di Chris.
«Ehi» mi saluta con il suo solito sorriso storto.
«Disturbo?»
«No. Entra».
Mi richiudo la porta alle spalle.
La stanza è in penombra come al solito, con le tende a coprire la finestra e una piccola lampada accesa sulla scrivania, accanto al computer. Su un pannello di legno sono attaccate le foto che Chris ha scattato in questi mesi, fiori cresciuti in mezzo alla spazzatura, un raggio di sole che filtra tra le nuvole e illumina le fronde degli alberi, un passerotto sul davanzale di una vecchia casa diroccata. Ha un’ala rotta. Chris mi ha detto di averlo aiutato dopo aver scattato la foto. Lo ha avvolto in un asciugamano e messo in una scatola di scarpe, lo ha portato da un veterinario e lo ha tenuto in camera con sé fino a che non è guarito. È uscito con una serie di piccoli balzi dalla finestra prima che lui potesse togliergli la fasciatura.
Il mio sguardo si posa sul modellino di astronave che Chris tiene accanto al portatile. La prima volta che sono entrata qui dentro è stata la sera della festa di Halloween, dopo aver lasciato il locale.
Io e Chris avevamo appena iniziato a percorrere la salita che porta al campus, quando venni scossa da un brivido.
«Hai freddo?» Chris si tolse la sciarpa e me la avvolse intorno al collo.
Inspirai il suo profumo, una fragranza calda e dolce che si sprigionava dalla lana.
«Ti sta bene. Ti dispiace se… se ti faccio una foto? Te la regalo, ovviamente».
Scossi la testa. «Non sono un granché come modella. Specialmente stasera».
Di nuovo, mi raggiunse il suono sommesso della sua risata.
Prese la sua macchina fotografica dalla custodia e mi scattò un’istantanea, cogliendo il momento in cui accarezzavo il morbido intreccio della sua sciarpa. Osservò soddisfatto la foto e me la porse. Era riuscito a fermare l’attimo esatto in cui avevo sorriso.
Lo ringraziai e infilai la foto nella borsetta che Cassidy e Conor mi avevano regalato qualche settimana prima per il mio ventesimo compleanno. Erano venuti a trovarmi da Bristol e avevamo trascorso la giornata insieme. Rebecca si era unita a noi e la sua presenza aveva scoraggiato qualunque tentativo di Cassidy di portare la conversazione su Evan. Una volta salutati i miei amici in stazione, Rebecca aveva deciso di fare l’alba in camera mia facendo fuori quel che era rimasto della torta di zia Maureen e guardando tutte le stagioni di una sit-com inglese sul mio portatile. Al mio risveglio avevo trovato i piatti vuoti sulla scrivania, le sue scarpe col tacco vicino al mio armadio e il suo posacenere pieno di mozziconi sul comodino, insieme a un paio di unghie finte e una manciata di salviette struccanti.
Il ricordo mi strappò un altro sorriso. «Pensi che potremmo farci una foto insieme?» chiesi poi a Chris.
Il suo volto però si rabbuiò. «Penso che nel campus ci siano modelli migliori di me».
«Per esempio?»
«Il gatto della lavanderia. Credo sia un diretto discendente del gatto della Sicurezza».
«Cosa?» mi misi a ridere di cuore mentre lui riprendeva a camminare.
Il vento mi soffiò in faccia l’odore dell’erba che costeggiava la strada e dei caminetti appena spenti. Era un odore non ancora familiare, anche se così simile a quello che sentivo in Irlanda. Bangor e le persone che mi circondavano mi apparivano ancora estranee e forse per questo ne ero incuriosita. Non avere intorno qualcuno o qualcosa che mi ricordasse continuamente cosa fosse andato storto nella mia vita mi faceva sentire stranamente in pace. Tutto sommato, quell’incontro con Chris mi aveva fatto dimenticare il motivo della mia tristezza.
Quando arrivammo all’interno del nostro appartamento, ci salutammo con un cenno prima di dividerci. Lui si infilò in camera e io andai in cucina per prendere un antidolorifico. Lanciai la borsetta sul tavolo, dove c’erano lo smalto per le unghie e la piastra di Rebecca e il solito paio di scarpe da ginnastica di Chris, e presi la pastiglia dal blister che avevamo nel mobile accanto al frigo. Mi riempii un bicchiere di acqua e buttai giù il paracetamolo, poi controllai il telefono. Rebecca mi aveva scritto per dirmi che non sarebbe rientrata a dormire. Andai in camera, tolsi gli stivali e mi lanciai sul letto. La testa aveva smesso di girare e il caldo dei termosifoni aveva placato i brividi, ma la mia mente non era ancora del tutto lucida. Era come se un velo di nebbia densa e calda stesse soffocando i miei pensieri. La sciarpa di Chris che avevo ancora al collo iniziò a stringermi in modo fastidioso. Mi alzai e la tolsi, decisa a restituirgliela. Ma quando bussai alla sua porta, non ottenni risposta.
Provai di nuovo, stavolta con un po’ più di decisione, ma niente.
Mi ero ormai arresa e stavo per tornare nella mia stanza quando vidi la porta aprirsi.
«Rain?» Chris comparve sulla soglia, non si era ancora messo il pigiama e tirai un silenzioso sospiro di sollievo. Ci mancava solo che lo avessi svegliato.
«Scusami, spero di non averti disturbato».
«Ma no, tranquilla. Tutto a posto?»
«Ho dimenticato di restituirti la sciarpa e…»
Mi rivolse un sorriso gentile. «Puoi tenerla, io ne ho una collezione nell’armadio, mia madre lavora ai ferri».
«Dici davvero?»
Lo vidi annuire e per un attimo mi tornarono alla mente Evan e la sua felpa.
«Grazie, sul serio. Sei stato davvero gentile con me stasera, mentre io non ho fatto altro che metterti a disagio…»
«Non mi hai messo a disagio» mi interruppe. «Cioè… Senti, quando hai tentato di baciarmi…»
«Non so davvero come scusarmi, Chris… Ero confusa, non avrei dovuto» conclusi mortificata, mentre un vago senso di nausea mi assaliva.
«Aspetta, non voglio che ti scusi. Volevo dirti che, sì, insomma, non è che tu non mi piaccia, anzi… Solo che mi sembrava scorretto approfittare della situazione e… non ti senti bene?»
Feci un cenno affermativo mentre venivo colta da un capogiro. «Ti dispiace se… se vado un attimo in bagno?»
Lui capì al volo e mi fece strada all’interno della sua camera. Feci appena in tempo a raggiungere il water prima di ritrovarmi piegata in avanti, mentre i drink che avevo bevuto mi laceravano la gola. Ringraziai il fatto di non aver mangiato nulla, anche se probabilmente il digiuno aveva contribuito ad accrescere il mio malessere.
Non mi accorsi della presenza di Chris accanto a me sino a che non mi tirò indietro i capelli. La sua mano fresca sulla mia fronte fu come ricevere una carezza dopo uno schiaffo. Gli ero grata per essere lì con me, ma allo stesso tempo avrei voluto che mi lasciasse da sola. Provavo vergogna per il risultato di quella serata disastrosa.
Quando i conati cessarono, mi aiutò ad alzarmi e a sciacquarmi la faccia, poi mi diede una bottiglia di collutorio e un asciugamano.
Quando finii, vidi che mi osservava.
«Chi è stato?» domandò piano.
«A fare cosa?» La mia voce era un sibilo rauco.
«A farti questo».
«È solo una sbronza» mentii, ma sembrava che avessi perso la capacità di farlo in modo convincente, perché lui mi rivolse uno sguardo carico di compassione.
«Vuoi sapere qual è la vera ragione per cui mi sono tirato indietro quando hai provato a baciarmi, fuori dal locale?»
Lo guardai confusa mentre si sfilava la maglia dalla testa. Poi finalmente capii.
Mi tornarono alla mente Harry e quello che mi aveva fatto, il modo in cui avevo tentato di tenere tutto nascosto. Il bisogno di aiuto che avevo sentito quando ero scappata di casa, l’abbraccio di Evan che mi aveva tenuto compagnia alla fermata e quello di Duncan che aveva asciugato le mie lacrime. La solitudine che mi aveva spinta verso Chris solo qualche ora prima. Il senso di inadeguatezza. Il ritrarsi di fronte a un contatto troppo intimo. «Posso… Posso abbracciarti?» gli chiesi.
Lui annuì e tornò a coprirsi.
Lo strinsi forte.
Quella sera imparai che ogni dolore è simile solo a se stesso. E non potevo permettere a Chris di continuare a chiudersi nel suo.
***
«Avete fatto pace?» mi siedo sul suo letto e gli porgo il piatto con il toast.
Lui ne addenta uno e me lo rende. «Non c’era della normale marmellata?»
«Qualcuno ha l’abitudine di rubarla durante la notte, e di lasciare il barattolo vuoto sul mio comodino».
Ridacchia e si allontana in direzione della cassettiera, dalla quale tira fuori uno dei suoi golfini. Lo lancia accanto a me e inizia a sfilarsi il pigiama. «Comunque, Rebecca si è scusata e mi ha chiesto se voglio bere qualcosa con voi, stasera».
«Mi ha detto che hai rifiutato». Poggio il piatto sul suo letto. Lui si china accanto a me per afferrare il golfino. «Sai che sono astemio».
Osservo il tatuaggio che ora gli copre il collo e parte della schiena. Quella notte mi ha raccontato che la prima volta in cui ha avuto un rapporto sessuale con una ragazza è stato quando era poco più che un dodicenne. Lei gli ha tolto la maglia scoprendo le sue cicatrici e il giorno seguente tutti a scuola hanno iniziato a trattarlo come un appestato. Dopo si è sentito così sbagliato che si è procurato i segni che ha sui polsi, i primi che ha coperto con dei tatuaggi. Torno a guardare il modellino che tiene sulla scrivania. Un’ala presenta una piccola ammaccatura nella plastica. A un occhio disattento può sfuggire, ma Chris sa che c’è. Come i segni che ha addosso.
La sera di Halloween, dopo avermeli mostrati, mi ha raccontato di suo padre.
Ci eravamo seduti sul suo letto, io a gambe incrociate, lui con il capo reclinato all’indietro e la schiena poggiata al muro, gli occhi chiusi. Respirava profondamente, le mani posate sulle ginocchia fasciate nei jeans.
«I soldi che raccolgo con le foto… li uso per pagare i tatuaggi». Riaprì gli occhi e mi fissò intensamente.
«Chi è stato?» gli chiesi, rivolgendogli la stessa domanda che mi aveva fatto lui qualche minuto prima.
Si alzò dal letto e si avvicinò alla scrivania.
«Vedi questo segno?» Mi mostrò la piccola crepa nell’ala di plastica.
«Anthony, mio… padre» l’ultima parola gli scivolò tra le labbra, «una volta ha usato questa parte per picchiarmi. Avevo nove anni. Lui voleva che in casa ci fosse silenzio. Non tollerava il minimo rumore. Ma a quell’età ero un bambino vivace. Facevo finta che l’astronave fosse vera e imitavo i rumori che sentivo nei film».
Sollevò la testa e i suoi occhi azzurri incontrarono i miei. Non dissi nulla, ma in quello sguardo ritrovai il mio. Fuori, cominciò a piovere.
Mi alzai e mi avvicinai alla finestra. Le gocce che picchiettavano sui vetri facevano lo stesso assordante rumore di un battito d’ali.
Chris mi raggiunse alle spalle e restammo in silenzio davanti alla finestra, a osservare il buio che avvolgeva il campus.
«Ti è caduta questa, prima, in bagno» disse aprendo le dita per mostrarmi la mia collanina.
«Non è la prima volta che la perdo».
«Il gancetto si è allentato. Bisogna stringerlo bene. Posso farlo io, se vuoi».
«No. Lo devo fare io». Afferrai la collanina e strinsi forte la piccola mezza mela d’argento. Avevo tenuto solo quella, il cuore di Duncan lo avevo sepolto nel cassetto del comodino.
«Sei la prima persona a cui racconto di mio padre» mi disse Chris.
«Perché me ne hai parlato? Intendo dire… perché lo hai fatto proprio con me?»
Allungò una mano, mi scostò i capelli dalla fronte e sfiorò la piccola cicatrice che mi ero procurata l’anno prima, quando Harry mi aveva spinta contro il muro nella casa che dividevo con Evan.
«Perché non credo che quella di stasera fosse una semplice sbronza».
Quella notte restammo svegli a parlare, fino a che le prime luci dell’alba cominciarono a rischiarare il cielo.
***
«Cosa significa quella scritta?» Indico il suo polso sinistro su cui si delinea un nuovo tatuaggio.
La sua testa bionda riemerge dal collo della maglia nera che sta infilando. «È un proverbio gallese. Vuol dire che tutto ciò che abbiamo a questo mondo ci è stato dato in prestito per un istante».
« Wow». Il rumore delle prime gocce di un acquazzone ci raggiunge dai vetri della finestra. Mi volto in quella direzione. «Ti dispiace se…»
«No, fai pure». Prende il piatto che ho posato sul letto e ricomincia a mangiare, mentre io mi alzo e apro la tenda. «Hai deciso cosa fare per Natale?» mi chiede mentre osservo la pioggia.
«Credo resterò qui».
«Non vai da tua zia?»
Scuoto la testa. «Maureen andrà in vacanza a Oslo».
Mi volto e lo vedo alzarsi per posare il piatto sulla scrivania. «Quindi resterai qui».
«E tu? Tornerai a casa?»
«No. Mia madre passerà il Natale a casa di un’amica».
«Come mai non vai con lei?»
«Non credo le farebbe piacere avermi tra ai piedi».
«E tuo padre?»
Lui alza le spalle mentre mi si avvicina. Poi mi avvolge la vita con un braccio. Restiamo così per un lungo istante. «Come mai hai scelto di tatuarti un giglio sul polso?»
«Per ricordare mia madre. Si chiamava Liliam». La pioggia continua a cadere sul prato di fronte al nostro palazzo e sui fiori che crescono a bordo strada. «Ho avuto un incidente quando andavo a scuola, e mi sono salvata per miracolo. Ma il mio polso destro si è fratturato». Dall’esterno non si vede, come non si vedono più la cicatrice sul labbro superiore, quella dietro l’orecchio, la costola che si era incrinata. Ma io so che ci sono. So in quanti punti mi sono spezzata. «Credo sia stata lei a proteggermi quel giorno».
Mi volto e lo vedo aprirsi in un mezzo sorriso. «Credi davvero in queste cose?»
«Sì».
«Sei fortunata, allora».
«Tu no?»
«No. Io credo che siamo noi a scegliere se aggrapparci o meno alla vita. Come i fiori che costeggiano la strada. Alcuni domani si saranno spezzati, ma altri, quelli più tenaci, saranno ancora lì ad aspettare un giorno di sole».
Torno a scrutare fuori dalla finestra chiedendomi se abbia ragione. Se un giorno questo cadere incessante si spegnerà finalmente nel silenzio. Se arriverà un giorno di sole anche per noi .