Le cose rotte
«Perché fai così? Non vuoi più bene alla tua mamma?»
Mamma. Perché mi chiedi una cosa del genere? Certo che ti voglio bene.
«Non voglio berlo! Non mi piace, ha un sapore cattivo!»
La mia voce di bambina risponde alle mie spalle. Mi volto e mi rivedo seduta al tavolo di cucina, nella casa dei miei genitori; giocherello con un biscotto allo zenzero.
«Questo latte ci farà venire il mal di pancia».
Il biscotto percorre il bordo della tazza, poi si tuffa dentro.
«Quando torna papà?»
La cucina scompare.
Sono seduta in macchina con mia madre. Lei ha parcheggiato vicino alla scogliera, tiene gli occhi chiusi e le mani strette sul volante. Attorno alle sue unghie la pelle è arrossata e gonfia. Io sto giocando con una calamita a forma di scimmietta.
«Corriamo veloce veloce, vero Madam?»
La scimmietta percorre il cruscotto mentre la mamma slaccia le nostre cinture.
«Perché papà non è venuto con noi dal tuo amico?»
Lei non risponde. Mi guarda, è così triste. Mi dà un bacio sulla fronte, poi sgancia la sua collana e la chiude dietro al mio collo. La mezza mela d’argento brilla contro la giacchetta a vento che indosso. Vorrei chiederle dov’è l’altra metà, ma non mi esce alcun suono. Mi fa scendere dall’auto e mi prende l’altra mano. «Facciamo un gioco» dice.
Perché piangi, mamma? Perché non riesco a dire nulla?
«Sei pronta, tesoro? Corri dritta fino a casa e non voltarti mai indietro».
All’improvviso mi colpisce un odore. Pungente. Solvente per unghie.
Sono tornata sul mio letto, a Bangor. Sulle mani ho lo smalto rosso di Rebecca e accanto a me c’è un batuffolo di cotone imbevuto di solvente.
Tolgo lo smalto dalla mano, ma quando finisco con una ricompare sull’altra. Lo tolgo, ricompare, una, due, tre, infinite volte. La pelle attorno alle mie unghie si gonfia e si spacca. Esco dalla mia camera e vado verso quella di Chris, ma lui non c’è. Salgo sino al tetto del palazzo e lo trovo lì.
«Chris» lo chiamo. «Chris!»
Qualcosa mi comprime il petto. «Chris!» Mi avvicino, non si volta, sale sul parapetto. Mi lancio verso di lui per afferrarlo, ma si getta di sotto scomparendo nella notte.
«Chris!»
«Rain! Rain! Sono qui».
Riapro gli occhi e lo vedo, inginocchiato accanto a me, mi fissa preoccupato. I capelli gli gocciolano sul viso e sulle spalle nude. Ha il respiro affannoso, indossa solo i jeans ed è completamente fradicio. Gli getto le braccia al collo e lo stringo forte mentre vengo scossa dai singhiozzi.
«Ehi, va tutto bene, sono qui» sussurra accarezzandomi i capelli.
«Scusami» dico tra le lacrime.
«Per cosa?»
Continuo a stringermi a lui. «Non riesco a lasciarti andare».
«Beh, prima o poi dovrai farlo».
Allontano le braccia dal suo collo e mi tocco la fronte. Mi fa male. «Che cosa è successo?»
«Sei caduta in piscina».
Intorno a noi, la festa continua e nessuno sembra essersi accorto di quello che mi è successo.
«Dove sono la tua maglia e la macchina fotografica?» gli chiedo.
«La maglia temo sia andata persa insieme alle mie scarpe. L’avevo lanciata qui a terra» dice con un’occhiata veloce dietro di sé. «La macchina fotografica e il cellulare li ho lasciati a un tipo che avevo a fianco prima di tuffarmi in piscina». Osserva la mia fronte. «Come ti senti?»
«Bene. Per quanto tempo sono rimasta svenuta?»
«Una manciata di secondi. Se sei sicura di stare bene vado a riprendere le mie cose, sperando che non siano già su eBay».
«Certo, stai tranquillo. Ti aspetterò qui».
«Sicura?»
Annuisco e lui fa per alzarsi, poi ci ripensa e mi sfiora le labbra con un bacio. «Buon anno nuovo» sussurra prima di allontanarsi. Una volta che lui è sparito tra la folla, io chiudo gli occhi cercando di isolarmi dal casino di voci e musica che ho attorno e mi concentro su quello che è successo. Primo: quando Chris tornerà dovremo parlare di quello che sta succedendo, perché non ci capisco più nulla: insomma, prima mi bacia e poi sparisce.
Secondo: lo strano sogno che ho fatto mentre ero priva di sensi. La calamita a forma di scimmietta. Le parole di mia madre.
Cosa è successo quel giorno?
Ho un gran mal di testa.
Porto una mano al collo, ma sfioro solo la mia pelle bagnata. Riapro gli occhi di scatto. La mia collanina. Mi rimetto in piedi e comincio a cercarla con lo sguardo. Il panico si insinua tra il cuore e i polmoni e non riesco a fermarlo.
L’ho persa. Non riuscirò mai a trovarla in mezzo a questo casino. Merda. Sposto senza troppa delicatezza gruppi di ragazzi e ragazze troppo su di giri per protestare. Trovo la mia ciabattina, o quel che ne rimane, in un angolo vicino a un tavolo. Mi chino e la raccolgo.
Una mano mi tocca una spalla. «Rain, tutto a posto?» Cadoc mi fissa preoccupato.
«A meraviglia».
«Che cosa ti è successo?»
«Sono caduta in piscina. Ho battuto la fronte e perso i sensi, se Chris non mi avesse tirata fuori…»
«Dovresti andare in ospedale» mi interrompe.
«Non è necessario…»
«Forse no, ma è meglio stare tranquilli, non credi?» Mi afferra la mano.
«Aspetta, Cadoc, devo cercare la mia…»
“Devo cercare la mia scimmietta
”.
Sono sulla scogliera, ho indosso la giacchetta impermeabile, piove e tira un forte vento. C’è buio. Devo correre fino a casa senza voltarmi, ma lo faccio e…
«Rain?» la voce di Cadoc mi riscuote. Vengo colta da un capogiro. Lui mi prende tra le braccia. Mi appoggio contro il suo petto e respiro.
«Ce la fai a camminare?»
«Credo… credo di sì».
Mi accompagna in camera e mi aspetta fuori. Lascio la ciabatta e infilo scarpe e vestiti asciutti. Scendiamo giù in reception dove lascio le chiavi e riprendo il cellulare. Raggiungiamo i parcheggi sotterranei e Cadoc mi fa entrare nella sua auto. Ho ancora i capelli umidi e vengo scossa da un brivido. Avrei dovuto prendere il cappotto. Accende il riscaldamento e afferra una felpa che tiene sul sedile posteriore.
«Mettiti questa» mi dice porgendomela.
“Tieni, mettiti questa. Vado ai parcheggi a fumare
”.
Le parole di Cadoc risvegliano un ricordo dei mesi che avevo dimenticato. La festa a Bray, la sera della partita contro il St. Fintan’s. Io ed Evan nella macchina di Conor. La prima volta in cui mi ha prestato la sua felpa. Lui che mi lascia avvicinare per un attimo, poi mi allontana di nuovo.
«Ho scritto a Rebecca per dirle che stiamo andando in ospedale». La voce di Cadoc mi riporta al presente. «Dice che ha incontrato Chris, ti cercava per darti la tua collanina».
Mi volto verso di lui. «Ti dispiace se la chiamo?»
«No, tranquilla».
Rebecca risponde con una voce strascicata. «Buon anno!»
«Becca, Chris è con te?»
«Chi cerca Chris a Capodanno lo cercherà per tutto l’anno» ridacchia. «No, mi ha dato la tua collana ed è sparito».
«Sai dov’è andato?»
«No. Era al telefono quando mi ha incontrato. Aveva i jeans bagnati e… Sai che ha proprio un fisico niente male? E quei tatuaggi… Credevo fosse uno strambo, invece è un figo… Ora capisco perché gli vai dietro, sei una pervertita…»
«Becca, ascoltami attentamente. Hai sentito cosa stava dicendo alla persona con cui era al telefono?»
«No».
Mi adagio contro il sedile. «Va bene, se lo vedi digli di chiamarmi».
Mi raggiunge il suono di una trombetta. «Sarà fatto! Buon anno nuovo!»
«Sì, buon anno anche a te».
In ospedale attendiamo diversi minuti seduti nella sala d’aspetto, poi vengo fatta accomodare in un piccolo ambulatorio dove una dottoressa mi rivolge diverse domande e mi visita.
Vengo dimessa con la raccomandazione di tornare immediatamente se dovessero presentarsi vomiti o sensazione di intorpidimento. Quando ci rimettiamo in viaggio è già molto tardi. Probabilmente gli altri saranno già andati a letto. Ai parcheggi, restituisco la felpa a Cadoc.
«È passato qualcuno a prendere la chiave della 207?» domando alla receptionist.
«Un attimo…» Si volta per controllare tra i mazzi di chiavi appesi dietro il bancone. «Sì, la chiave è stata consegnata al signor Banes».
«Ok» dico sollevata. Chris è in camera.
La receptionist augura a me e Cadoc una buonanotte e un felice anno nuovo. Ricambiamo e ci allontaniamo in direzione dell’ascensore. Premo il pulsante del secondo piano e provo a chiamare Rebecca, ma non risponde. Mi farò dare la collanina domani mattina.
«Spero che Chris sia ancora sveglio» dico sfregandomi una mano sugli occhi. «Muoio di sonno». E ci sono un paio di cose di cui vorrei parlare. Possibilmente a distanza di sicurezza dalla sua bocca.
«Hai paura di restare chiusa fuori?» Cadoc ridacchia mentre usciamo dall’ascensore.
«Un po’». Passiamo accanto a due ragazzi in boxer che stanno cantando e bevendo, non troppo lontano dalla camera che divido con Chris.
«We started drinking at seven and finished at half past ten and all the stars in heaven said go back and drink again!
»
Fanno sbattere le bottiglie l’una contro l’altra e si lasciano andare a un apprezzamento che ignoro. Proseguo fino alla 207 e busso. Non credo che Chris stia dormendo, considerando il casino che stanno facendo quei due.
«Chris!» lo chiamo.
Provo di nuovo ma non ottengo risposta. Abbasso la maniglia, ma la porta è chiusa a chiave.
«Forse è in bagno» sento dire da Cadoc.
«Spero non sia sotto la doccia o non aprirà prima di domani mattina».
Mi volto e mi appoggio alla porta. «Aspetterò qualche minuto, poi riproverò. Tu puoi andare, se vuoi».
«No, ti faccio compagnia».
«Ti ringrazio. Per tutto. Sei stato gentile a portarmi in ospedale».
Mi sorride. «Ma figurati, per così…»
Il baccano che fanno i tizi in boxer aumenta sino a coprire la sua voce e ci voltiamo in quella direzione.
«Credi andranno avanti ancora per molto?» gli chiedo.
«Spero di no, la mia stanza non è molto lontana. E… a proposito, se Chris non dovesse aprire, c’è posto anche per te».
Lo osservo con un sopracciglio alzato. «Non ti facevo così intraprendente».
«Ho molte qualità nascoste» risponde con un una risata. Non mi è difficile crederlo. «Senti, Rain, non voglio essere indiscreto, ma… che tipo di rapporto hai con Chris? Voglio dire…»
«You must eat when you are hungry, you must drink when you are dry...
»
«Siete amici di letto?»
«You must rest when you are weary…
»
Lancio un’occhiataccia in direzione dei due ragazzi. «Don’t stop breathing, or you’ll die
».
Sospiro e torno a rivolgere la mia attenzione a Cadoc. «Abbiamo un rapporto complicato. Diciamo che siamo molto legati ma… Non siamo amici di letto e non stiamo insieme».
«Posso chiederti come mai, se non sono indiscreto?»
Alzo le spalle. «Ci vogliamo bene, ma le nostre vite sono troppo incasinate per complicarcele ulteriormente». Almeno credo.
«Quindi non ho speranze?» mi chiede con un mezzo sorriso.
«Sono stata bene con te, stasera, Cadoc. Ma non voglio impegnarmi con nessuno».
«Ok, capisco» si schiarisce la voce. «Vuoi riprovare a bussare?»
Annuisco e mi volto verso la porta.
«Chris!»
Cadoc mi viene in aiuto, bussando con molta più energia di me.
«Chris!» lo chiama. «Apri, siamo noi».
Mi unisco a lui. «Chris!»
«Chris, Chris, Chris!»
I due ragazzi in boxer hanno iniziato a incoraggiarci come se fossimo a un concerto.
Faccio partire la chiamata al suo numero e sento il suo cellulare squillare nella stanza.
Io e Cadoc ci scambiamo un’occhiata preoccupata.
«Ok, questa storia non mi piace per niente» dice.
«Nemmeno a me».
«Potrebbe essersi sentito male».
L’ansia inizia a montarmi dentro.
Provo nuovamente ad abbassare la maniglia, ma senza risultato. Inizio a tempestare la porta di pugni e continuo a chiamare Chris.
Cadoc fa un cenno ai ragazzi in boxer.
«Ehi, venite, ci serve una mano».
I due smettono di canticchiare e si guardano un istante, poi si avvicinano barcollando. Sono piuttosto alti e ben piazzati.
«Siamo rimasti chiusi fuori» gli spiega.
I due ridacchiano, poi ci fanno segno di indietreggiare.
Il più alto, quello con i capelli rasati, lascia la sua bottiglia all’amico e si piazza di fronte alla porta. «Uno, due…»
Con una spallata riesce ad aprirla. Resta fermo sulla soglia, poi si volta verso di noi.
«Il vostro amico deve essere proprio cotto» esclama con una risata. «Non si è mosso nemmeno di un millimetro».
Le sue spalle coprono la mia visuale, ma intuisco che qualcosa non va.
«Chris è astemio». Il ragazzo mi guarda confuso, poi torna a voltarsi verso l’interno della stanza. «Oh porca troia!» Si precipita dentro.
Faccio per andargli dietro, ma Cadoc mi ferma. «Aspetta qui, ci penso io». Entra e si richiude la porta alle spalle.
C’è un istante di silenzio. Poi la voce del ragazzo in boxer. «Cazzo, chiamate un’ambulanza. Ryan, muovi il culo!»
Cadoc esce dalla stanza mentre io cerco di entrare. «Ryan, giusto? Stai con lei, non farla entrare».
«Cosa? Cadoc, cosa sta…» Ryan si mette davanti a me mentre Cadoc prende il cellulare e rientra dentro. «Sì, sono Cadoc Stephens, chiamo dall’hotel…» Poi richiude la porta alle proprie spalle.
Cerco di entrare, ma Ryan mi si piazza davanti, impedendomi di passare. «Chris!» Un sibilo strozzato mi raschia la gola.
“Credi che le cose rotte si possano sempre aggiustare?
”
«Fammi passare!» grido. «Fammi passare, cazzo!»
«Mi spiace, ma il tuo amico ha ragione, è meglio se resti qui».
Mi avvento contro di lui, ma mi allontana con l’avambraccio destro.
«Fammi passare! Fammi passare! Chris! Chris!»
«Rain» sento la voce di Rebecca chiamarmi dal corridoio. Mi volto e la vedo venirmi incontro in camicia da notte insieme a Matt.
«Che cavolo sta succedendo?» domanda preoccupata.
«Chris… Chris è… è là dentro e…» Tiro su con il naso e mi sfrego una mano sugli occhi. «Non mi lasciano entrare, Becca, non mi fanno andare da lui…»
«Ma cosa gli è successo?»
Mi guarda disorientata, poi si volta verso Ryan. «Tu chi sei? Perché non la lasci entrare?»
«Credimi, io non c’entro nulla. È stato il vostro amico, il dj, a chiedermi di non farla passare».
«Io devo entrare! Devo entrare, non capisci!»
«Rain, calmati». Cadoc è uscito dalla stanza e mi viene vicino.
«Voglio entrare! È la mia camera! È… è Chris, è…» lo imploro con uno sguardo, ma lui si limita a posarmi una mano sulla spalla.
«Ma cosa è successo?» sento chiedere da Rebecca. «Si è sentito male?»
Vedo Cadoc scuotere la testa, mentre il ragazzo rasato che era nella stanza con lui ci raggiunge, richiudendo la porta dietro di sé. Il suo viso è pallido e tirato e tiene gli occhi bassi.
«Mi dispiace» mormora, senza rivolgersi a nessuno di noi in particolare. Trattiene a stento un singhiozzo e l’amico lo guarda smarrito. «È… è morto».
Cadoc si passa una mano sugli occhi e Rebecca porta una mano alla bocca. Il bisbiglio dei due ragazzi mi raggiunge frammentato.
«…tardi… benzodiazepine…»
No. No, no, no, ti prego, ti prego. Resisti, resisti.
Mi precipito verso la porta, la apro ed entro.
«Rain! No!»
Cadoc tenta di fermarmi, ma ormai sono dentro. Mi avvicino al letto.
Il mio sguardo percorre il bordo del piumone sino a posarsi sui piedi di Chris, sui suoi jeans, sulla sua schiena coperta di tatuaggi ancora incompleti.
Sulla sua mano che è ricaduta oltre il bordo del materasso. Mi avvicino e la stringo nella mia. È fredda. Mi siedo accanto a lui, la avvicino alle labbra e bacio piano le sue dita.
«Rain. Stanno arrivando i paramedici».
La voce di Cadoc è gentile come sempre, eppure mi suona terribilmente fredda e incolore.
«Rain».
Lascio andare la mano di Chris. Gli accarezzo il viso e scosto una ciocca di capelli ancora umida dalla sua fronte, sfioro le palpebre che celano quegli occhi malinconici, capaci di vedere la bellezza di ogni cosa ma non la propria. L’hai fatto davvero, Chris? Te ne sei andato così, mentre il mondo salutava il nuovo anno. Bacio la sua guancia e poso la testa sulla sua spalla. Forse mi addormento. Una mano mi scuote.
«Rain, devi lasciarlo andare».
Cadoc mi aiuta a rialzarmi. Lo guardo senza vederlo davvero. Il mio corpo risponde alla sua richiesta e mi alzo, ma quando lo faccio sento la nausea soffocarmi. Mi precipito in bagno, mi accascio sul water e do di stomaco. Cadoc mi raggiunge.
«Sarà meglio che torni in ospedale» dice preoccupato. «Ti accompagno…»
«No, sto bene». Mi sciacquo la faccia e lo seguo fuori. Sulla moquette della camera, la ciabattina che avevo perso giace riversa, un insetto senza più la forza di battere le ali, la suola spaccata, centinaia di scarpe l’hanno calpestata senza curarsi di raccoglierla.
Alcune cose rotte non si possono aggiustare.
Cadoc mi passa un braccio intorno alle spalle e mi stringe a sé, impedendomi di tornare a guardare Chris.
Rebecca mi viene incontro e mi abbraccia. Quando si allontana, mi porge la collanina che avevo smarrito.
Altre continueranno a portare con sé un’incrinatura.
I paramedici arrivano con una barella vuota. Chiudo gli occhi mentre entrano nella stanza e li riapro solo quando se ne sono andati.
Mi avvicino alla porta della camera che è stata lasciata aperta. Il letto è vuoto. Lancio un’occhiata alla finestra.
Altre, invece, proveranno a riempire le proprie crepe sino a tornare tutte intere.
Rebecca mi posa una mano sulla spalla. «Rientriamo a Bangor».
Annuisco.
Tra poco sorgerà il sole.