Aspettare
Essere felici non è una condizione, ma una scelta.
Svegliarsi. Alzarsi dal letto. Sciacquare il viso e i denti, sorridere al proprio riflesso. Pensare: “Ho un giorno in più per essere felice”. Intravedere la prima ruga d’espressione sulla fronte, meravigliarsi per il modo strano che ha la vita di misurare le nostre sofferenze. Passare una mano tra i capelli tagliati cortissimi. Infilare le scarpe da ginnastica e la tuta, prendere l’mp3 dal comodino, afferrare le chiavi e infilarle nella tasca della felpa. Uscire di casa e mettere su gli auricolari, far partire una playlist. Correre. E mentre si corre, percepire ogni singolo fiato emesso, ogni battito del cuore, ogni goccia che scende sulla fronte.
Ripensare a quanta strada si è fatta e a quante vite ci si è lasciati dietro, immaginare quanta strada ancora attende di essere percorsa e quante vite aspettano di incrociare la nostra.
Rientrare in un appartamento che per un po’ è stato un rifugio tranquillo, lanciare uno sguardo alla porta chiusa di una stanza vuota, sapere che in cucina sul tavolo non ci sono più né scarpe né piastre per capelli, ma un vecchio barattolo di marmellata che una mattina è stato raccolto dalla spazzatura, ripulito e che ora custodisce una candela sempre accesa. Non preoccuparsi del tempo che la consuma, perché quando una fiamma si estingue ce n’è un’altra pronta a illuminare il buio.
Fare una doccia, mangiare qualcosa, andare a lezione, sorridere nonostante tutto, scambiare qualche battuta con Rebecca, prendere appunti, lasciare il lavoro in libreria e cominciare una collaborazione presso una rivista online.
Uscire con Cadoc per fotografare scorci di vita, imparare a coglierne la bellezza in un dettaglio, leggere manuali di fotografia.
Allenare i propri occhi a vedere la bellezza e il proprio cuore a esserne grato. Lasciare che l’inverno ceda il passo alla primavera, e l’estate all’autunno.
Rinunciare al sole che illumina il cielo sino a tardi, alle gite con gli amici, alle notti in tenda ascoltando il canto dei grilli, al lento cullare delle onde mentre ci si lascia trasportare sulla superficie, gli occhi chiusi, le braccia spalancate e il corpo morbidamente adagiato a pelo d’acqua, ai tiepidi raggi del sole mattutino che lo accarezzano.
Salutare le prime piogge autunnali come una benedizione. Sentirle cadere fuori dalla finestra, uscire e non mettere il cappuccio. Respirare l’odore della terra che lentamente si disseta. Salutare Victor, prendere un caffè insieme, coccolare Xero, guardarlo acciambellarsi sempre sulla stessa sciarpa di lana.
Cercare di rimettere insieme i pezzi, scavare nei propri ricordi, cominciare le sedute con la dottoressa Lloyd, liberarsi dell’ansia ma non del passato. Non riuscire a ricordare cosa sia successo alle scogliere, l’ultima volta in cui si è visto il viso della propria madre. Accettare il fatto che non sia ancora il momento giusto per saperlo.
Vedere i propri capelli crescere.
Trascorrere ore al telefono con Cassidy, ridere mentre racconta della convivenza con Conor. Ringraziarla mentalmente ogni volta per non aver nominato Evan.
Sforzarsi di non pensare a lui, né a Duncan. Tantomeno a Duncan.
Compiere ventuno anni.
Ricevere una chiamata di Cassidy, una sera in cui in cielo non brilla alcuna stella.
«Adam si è aggravato. Un’infezione. Stanotte, o domani, potrebbe… non lo sanno nemmeno i medici. Io e Conor abbiamo prenotato il primo volo disponibile domani mattina. Ma Evan… Torna da lui, Rain, avrà bisogno di te».
Capire che a un certo punto si deve fare un passo indietro.
Lasciare la festa di Halloween in cui Cadoc faceva dj set, correre in stazione portando con sé solo una borsetta, prendere il treno per Holyhead e salire sull’ultimo traghetto. Rivedere la costa irlandese.
Tornare.
Per lui.