Spegnersi
Arriviamo a Cork a metà mattina.
Durante il viaggio in treno io ed Evan ci siamo limitati a scambiare poche parole. Poi lui ha passato il resto del tempo a sonnecchiare, mentre io sono rimasta a guardarlo in silenzio, chiedendomi più volte se avessi fatto la scelta giusta. Eppure, ogni volta mi sono detta che non avrei potuto agire diversamente. Volevo essere qui con lui.
Ho accarezzato la sua mano e gli ho posato un bacio sui capelli, poi ho guardato il paesaggio scorrermi davanti agli occhi, mentre il nastro della mia vita cominciava a riavvolgersi su se stesso.
Arriviamo a casa dei genitori di Evan verso le undici. Lo accompagno in camera sua, dove lascia i suoi bagagli. Si siede sul letto, immobile, a fissare la finestra.
Mi sistemo accanto a lui e poggio la testa sulla sua spalla.
«Mi dispiace» mormora. Non gli chiedo per cosa. So che si sente in colpa per tutto quello che è successo, per me, per suo fratello.
«Anche a me, Ev. Anche a me».
In cucina troviamo il signor Byrne. È dimagrito rispetto all’ultima volta che l’ho visto e gli occhi portano i segni di innumerevoli notti insonni.
«La mamma… Dove sono la mamma e gli altri?» sento chiedere da Evan.
Il signor Byrne spegne la sigaretta che stava fumando. Tiene lo sguardo basso, fisso sul posacenere.
«Tua madre è in ospedale. Non sono riuscito a convincerla a rientrare. Lizzie e Sophia sono con William e la nonna. Le hanno portate a fare compere».
«Non gliel’avete ancora detto?»
«No».
«Lo farò io. Parlerò io con le bambine, quando rientrano. Ora ho bisogno di fare una doccia».
Evan mi oltrepassa per andare al piano di sopra, lo seguo con lo sguardo mentre sale i gradini con passo incerto. Sto per andargli dietro quando la voce del signor Byrne mi ferma.
«Rain, giusto?»
Mi si avvicina e mi sorprende posandomi una mano sulla spalla.
La sensazione è quella di avere di nuovo di fronte mio padre e mi accorgo solo ora di quanto questo calore mi sia mancato. Non posso fare a meno di chiedermi come debba essere stato per Evan crescere raccogliendo solo briciole di questo affetto.
«Vorrei scusarmi per quello che è successo quando ci siamo conosciuti. Ho ripensato spesso alle tue parole. E sono felice che tu sia qui con mio figlio, oggi» sorride debolmente. «Ti preparo qualcosa di caldo?»
«Un tè va bene, grazie». Lo bevo in silenzio mentre lui fuma un’altra sigaretta.
Quando salgo in camera di Evan, lui è ancora sotto la doccia. Mi avvicino alla finestra per scrutare la pioggia che bagna il vetro.
In questa stanza, i miei ricordi hanno cominciato a riaffiorare mentre donavo a Evan una parte di me che gli appartiene da quando, a scuola, ho intravisto uno scorcio del dolore e del senso di colpa che si porta dentro. Poso una mano sul vetro freddo, poi il mio sguardo si sposta sul telescopio sistemato accanto a me. Cosa accade a una stella quando quella che è nata con lei si spegne? Continua a brillare, o finisce con lo spegnersi lentamente? Cosa farà Evan quando Adam… Prendo un respiro profondo, sentendomi improvvisamente inutile. Forse, tornare non è stata una buona idea. Chiudo gli occhi e mi appoggio con la fronte al vetro.
Il rumore della porta che viene aperta e richiusa delicatamente mi raggiunge alle spalle. Evan mi si avvicina, ha indossato la felpa nera col cappuccio sopra i jeans e i capelli gli ricadono umidi sul viso.
Sposta il telescopio e apre la finestra.
L’aria fredda e umida che invade la stanza mi colpisce la faccia.
«Dovresti asciugarti i capelli». Lui ignora la mia osservazione e prende il pacchetto di sigarette dalla scrivania. Se ne accende una, cominciando a fumare in silenzio.
«Non ti chiedo se ne vuoi». Si appoggia con i gomiti al davanzale.
Mi sistemo accanto a lui.
«I medici hanno detto che ci chiameranno se dovesse…» non finisce la frase, tirando una lunga boccata. «Papà andrà in ospedale dopo pranzo».
«Tu non vai con lui?» Scuote la testa.
«Non ce la faccio. Andare in ospedale e guardarlo mentre… Dovrei starmene lì, impotente, ad aspettare che mio fratello mi lasci per sempre. No».
Poso una mano sulla manica della sua felpa e gli accarezzo il braccio.
«Mi sembra tutto così surreale» dice lanciando il mozzicone di sotto.
«Potresti pentirtene, Ev».
Lui si rimette dritto.
«Potrebbero essere gli ultimi istanti in cui sentire la sua mano calda sotto la tua».
«Cosa cambierebbe ormai? Avrei dovuto stringergliela più spesso quando era ancora vivo».
«Lui è ancora vivo».
«No, Rain. Non lo è. Non ha potuto vivere davvero in questi anni. Per colpa mia, non ha potuto ridere, amare, incazzarsi e ubriacarsi, e fare progetti che non avrebbe mai realizzato. E ora… Ora lui se ne andrà e io vivrò la mia vita senza mio fratello, e senza un briciolo di speranza di poterlo riabbracciare un giorno. Non sono pronto. Non lo sarò mai».
Lo abbraccio, anche se so che questo non basterà a lenire il suo dolore. Nemmeno il mio amore può bastargli, stavolta.
«Perché sei rimasta con me quando ti ho raccontato quello che avevo fatto a Adam? Perché non sei scappata?» domanda cominciando ad accarezzarmi i capelli.
«Non avevo motivo di farlo».
«Avresti dovuto, invece. E non saresti dovuta tornare a Dublino stamattina».
«Tu l’avresti fatto, per me».
«Io ti avevo fatto una promessa».
E io ne farò una a lui, stavolta. Sgancio la collana con la mezza mela, poi la riaggancio dietro il suo collo.
«Quando avrai bisogno di me, io ci sarò».
Si sfrega gli occhi.
«Una promessa può legarti per sempre a un’altra persona, Rain. Sei sicura di voler fare questa promessa proprio a me?»
Il suo sguardo è incredibilmente triste e rassegnato, lo sguardo di un bambino che non si è mai sentito amato da suo padre e ha sempre creduto di non meritare l’affetto di nessuno.
Allungo il pollice per asciugare una lacrima che gli è sfuggita dalle ciglia. «Sì».
Afferra la mia mano prima che io possa allontanarla e se la preme sulla guancia, chiude gli occhi e respira profondamente. Resto a guardarlo in silenzio, chiedendomi come sarebbero state le nostre vite se la sera dell’incidente, dopo che Shannon mi aveva gettato addosso i sospetti di Duncan su nostro padre, Evan non mi avesse lasciata andare. Forse io e lui avremmo potuto costruire qualcosa di bello insieme. Perché non mi hai fermata, Evan? Perché non hai impedito a quella farfalla di danzare?
«Non so come dirlo alle bambine».
Gli accarezzo il dorso della mano con il pollice. «Quando ho perso mia madre, avevo pressappoco la loro età. Fu mia zia a dirmelo».
Lo vedo prendere un’altra sigaretta.
«Cosa ti disse esattamente?»
Mi stringo nelle braccia. «Che era tanto triste qui, e se n’era andata in un posto migliore».
«Deve essere stato terribile».
Scuoto la testa. «A quell’età non hai una concezione molto chiara di quello che comporterà nella tua vita l’assenza di tua madre. La maggior parte dei bambini sperimenta la morte di un animale domestico, o di un nonno. Ma perdere un genitore...»
Evan soffia via una lunga scia di fumo.
Mi volto a guardare giù, verso il giardino, dove la pioggia e il vento scuotono i fiori che tenacemente resistono al freddo.
«Mia zia mi disse che la mamma aveva scelto così». Prendo un profondo respiro. «Ma come sai, non ci ho mai voluto credere». Vedo una macchina parcheggiarsi sul vialetto e la signora McCarty scendere, seguita da William e le bambine, infagottate nelle loro giacchette impermeabili. «Verrò con te. Lo diremo insieme alle tue sorelle».
Evan si allontana dalla finestra e spegne la sigaretta sul davanzale, poi la butta nel cestino della carta accanto alla scrivania.
«Sei sicura di volerlo fare con me?»
Faccio un cenno di assenso e lo seguo fuori dalla camera.
In corridoio incrociamo William. Non appena vede Evan, gli va incontro per stringerlo in un abbraccio.
Li osservo, chiedendomi quanto possa essere forte e importante il legame tra fratelli.
Io non l’ho mai saputo. Verso Duncan non ho mai provato quel tipo di sentimento, ma immagino sia qualcosa di molto vicino a quello che mi lega a Cassidy.
Quando mi passa accanto, William mi posa una mano sulla spalla.
«Stagli vicino, ti prego». Poi mi supera diretto in camera sua.
Io ed Evan proseguiamo sino a raggiungere la stanza delle bambine e quando lui apre la porta le troviamo intente a sfilarsi le giacchette bagnate e a riporle nell’armadio.
«Evan!»
Lizzie e Sophia gli si lanciano addosso non appena lo vedono. Lui le stringe forte, cominciando a baciarle sulle guance.
«Pungi» protesta Lizzie.
Sophia ridacchia e porta la sua attenzione su di me.
«Hai colorato i capelli?»
Scuoto la testa. «Ho i capelli rossi. Prima li coloravo di nero».
«Perché?» interviene Lizzie allontanandosi da Evan.
Io e lui ci scambiamo uno sguardo e lui annuisce.
«Perché avevo perso la mia mamma e il mio papà, ed ero tanto triste».
Loro si imbronciano.
«E adesso non sei più triste?» domanda Lizzie.
«No, perché so che loro sono sempre con me e posso sentirli vicini ogni volta che voglio, anche se non posso vederli».
Evan si avvicina a uno dei due lettini, quello con il piumone azzurro di Frozen.
«Venite qui, c’è una cosa che devo dirvi».
Sophia si lancia verso di lui per farsi prendere in braccio e Lizzie fa lo stesso con me.
Mi avvicino al letto e mi siedo con la bambina in grembo, accanto a Evan.
«Si tratta di Adam» si interrompe quando la voce gli trema sul nome del fratello. Allungo una mano e stringo la sua.
«Si è svegliato?» Sophia posa la sua manina sulle nostre. Lizzie fa lo stesso e ci ritroviamo con una piccola piramide di mani. È così che ho sempre immaginato la mia famiglia, un giorno. Una piccola piramide di mani, con le mie dita intrecciate a quelle di mio marito, a sorreggere quelle dei nostri figli.
«No, non si è svegliato» risponde Evan. «Adam è…»
«È morto? Come il coniglietto di Bromwin?» chiede Sophia.
Evan sta in silenzio e manda giù un singhiozzo.
«Non è morto».
«Allora perché stai piangendo, Ev?» Sophia gli passa una manina sulla guancia per asciugargli le lacrime e lui gliela stringe forte.
«Se ne sta andando».
Lizzie comincia a piangere e nasconde la testa nel mio petto, mentre Sophia la guarda stupita.
«Non piangere, Mary Elizabeth. Non hai sentito quello che ci ha detto Rain? Adam sarà vicino a noi ogni volta che vogliamo».
«Allora perché non è qui adesso?» Accarezzo la testa della bambina e lei la solleva per guardarmi. «Perché se ne sta andando? Non era felice con noi?»
È la stessa domanda che mi sono posta io quando è morta mia madre. Ma non darò a Lizzie la stessa risposta che diedero a me.
«Certo che lo era. E sarà sempre con voi. Se ascoltate in silenzio, potrete sentirlo vicino ogni volta che vorrete».
«Io voglio sentirlo ora».
«Allora chiudete gli occhi e pensate a lui».
Le piccole fanno come gli ho detto e il silenzio invade la stanza. L’unico rumore che ci raggiunge è quello della pioggia che picchietta sul vetro.
Le vedo sorridere e le sento bisbigliare il nome del fratello.
«A Adam piaceva la pioggia» mi spiega Evan. Mi fissa intensamente. «Io invece la odiavo. Ma ho imparato ad amarla».
La sua mano scivola via dalla mia mentre lui si alza dal letto. «Vado a chiamare mia madre per dirle che sono tornato. Ti raggiungo più tardi di sotto».
Quando scendo in cucina, trovo la signora McCarty ai fornelli.
«Ellen?»
La vedo passarsi velocemente una mano sugli occhi e asciugarla sul grembiule a fiori che indossa.
«Rain, bambina mia» dice con un sorriso dolce. So che stava piangendo in silenzio, proprio come sto facendo io ora, mentre lei mi stringe tra le braccia.
«Mi scusi, io… Io non dovrei…»
Ma per quanto mi sforzi, non riesco a smettere.
«Va tutto bene, cara. È tutto a posto».
«Non so cosa mi sia preso…» Lei asciuga le mie lacrime con una mano. «Quando George, il nonno di Evan, ha perso suo fratello, ho avuto la tua stessa reazione. Ho pianto per un’intera notte, non solo perché avevo perso mio cognato, ma perché stavo male per mio marito. Ma noi dobbiamo essere forti, bambina mia, perché se crolliamo, mio nipote non avrà nessuno a cui aggrapparsi».
Annuisco e mi offro di darle una mano con il pranzo. Mentre taglio la cipolla, la signora mi racconta della madre trasferitasi in Irlanda dall’Italia per studiare nel collegio di Kylemore, dove conobbe il signor McCarty che lavorava come giardiniere. Il bisnonno di Evan amava i fiori ed è da lui che la nonna ha ereditato la sua passione. Mentre il profumo del sugo invade la cucina, sono grata alla signora per avermi tirata un po’ su, facendomi dimenticare per qualche momento il motivo per cui mi trovo qui.
Quando ci sediamo a tavola, Evan prende posto accanto a me e resta in silenzio, senza toccare cibo. Continua a fissare una calamita a forma di elefantino azzurro attaccata sul frigo.
«Ho bisogno di uscire un attimo, scusate» dice prima di alzarsi.
Non so se andargli dietro, ma quando mi decido a farlo il signor Byrne mi precede e rientra quando sua madre ha già iniziato a sparecchiare. Mi poggia una mano sulla spalla.
«Credo voglia parlare con te» dice prima di tornare a sedersi.
Lascio la cucina ed esco fuori, dove trovo Evan appoggiato al muro.
Appena mi vede, si sfila la felpa e me la porge.
«Così prenderai freddo, Ev».
Accenna un sorriso. «Non se ti stringerai a me».
Infilo la sua felpa, tiro su la zip e il cappuccio e mi avvicino a lui.
«Ho visto che guardavi la calamita che c’è sul frigo» dico mentre mi tira a sé.
«Ce l’ha messa Adam, quando eravamo bambini».
Gli circondo la vita con le braccia e lo stringo forte.
«Era mia, ma lui aveva trovato un modo più creativo di usarla» fa una pausa, «amava scarabocchiare dappertutto. Letteralmente. Così, un pomeriggio, prese la mia calamita e la usò per tracciare sagome di elefanti sul muro del salotto». Ride piano, una risata dolce e carica di nostalgia, leggera come il cadere della pioggia sul giardino. «Quando mio padre lo scoprì, non la prese bene. Ma dato che la calamita era mia, pensò che fossi stato io a fare quel disastro. Adam provò a convincerlo del contrario, ma lui non volle sentire ragioni. Prese la calamita e la buttò nel cestino».
Faccio scivolare una mano sino al suo petto e la poso sulla sua maglietta, all’altezza del cuore. Lo sento battere veloce.
«Mi chiusi in camera mia a piangere. Adam mi raggiunse e mi abbracciò forte, cominciando a piangere insieme a me. Io smisi di colpo, scioccato. Quel rompiscatole era venuto a rubarmi la scena persino mentre piangevo».
Le mie labbra si piegano in un sorriso. Anche attraverso le sue parole, l’amore che prova per suo fratello riesce a raggiungermi e a investirmi con tutte le sue sfumature. È un sentimento incredibile, puro e innocente.
«La sera, trovai Ralph l’elefante sul mio letto. Aveva ancora qualche pezzetto di carota incastrato tra una zanna e la proboscide. Lo buttai, e di nuovo tornò il giorno dopo e quello dopo, sinché Adam non si arrese e lo attaccò al frigo».
«Ralph l’elefante?»
Annuisce. «Lui aveva Lauren la giraffa, quella che c’è sul frigo di casa nos…» si interrompe. «Quella che c’è sul frigo a Dublino». So che stava per dire casa nostra. E mai come ora, vorrei che lo fosse ancora. Perché all’idea di tornare nella mia stanza a Bangor, provo uno strano senso di vuoto. «Ralph e Lauren erano i nomi che vedevamo sui maglioni di nostro padre».
Poggia una mano su quella che tengo ancora sul suo petto. È fredda.
«Andrò in ospedale. Avevi ragione tu». Accarezza le mie dita.
«Grazie» aggiunge. «Per essere qui con me, oggi. È importante».
Nessuno di noi dice più nulla, lasciando che sia la pioggia che continua a cadere a riempire il nostro silenzio.