Lieve
EVAN
Tornare in questo ospedale è come essere risucchiato in un buco nero.
Non è cambiato nulla rispetto a due anni fa. Le pareti vuote e i corridoi tristemente silenziosi. Rain che stringe la sua mano nella mia. I nostri passi che scandiscono il ritmo dei nostri respiri.
Mio fratello chiuso in quella stanza, la sua vita che si consuma, una stella senza più la forza di brillare.
E quel senso di angoscia e tremenda solitudine che mi avvolge nonostante tutto, nonostante le dita di Rain che accarezzano le mie mentre ci sediamo in corridoio, nonostante quello che mi ha detto mio padre quando mi ha raggiunto in cortile durante il pranzo.
Fisso la porta davanti a me.
Colpire Adam ha mandato in pezzi la mia vita, pezzi che non credevo di poter rimettere insieme.
Perché è sempre stato lui a tenermi tutto intero, lui che era il riflesso di quello che sono veramente, la parte di me che non ha mai smesso di incantarsi a guardare il cielo, di chiedersi cosa succederebbe se non rimanesse più nemmeno una luce a illuminare il buio.
Adam ha tirato fuori la mia parte peggiore, le mie debolezze, la mia solitudine. L’ha tirata fuori e mi ha costretto a conviverci, e a decidere che, alla fine, non era così che volevo essere.
E ora, lasciarlo andare per sempre… Come posso accettarlo?
Come, senza avere nemmeno la possibilità di dirgli che mi dispiace, che se potessi tornare indietro darei la mia vita per lui, per un altro dei dispetti che ci facevamo, per dare un nome del cavolo a un’altra coppia di stelle, o semplicemente per vedere quella dannata fossetta comparirgli sul viso.
William non è voluto venire. Ha preferito restare a casa, con la nonna e le bambine.
Stringo ancora più forte la mano di Rain.
«Non devi entrare per forza» le dico, anche se sono incapace di lasciarla.
«Non c’è problema, Ev».
Mi alzo e lei mi segue. Entriamo nella stanza.
Mio padre e la mamma sono accanto al letto, lui la tiene stretta mentre lei continua a singhiozzare.
Danielle non è venuta.
So che ha passato qui tutta la notte e credo sia rimasta a casa, oggi, per permetterci di stare soli con Adam. O forse, nemmeno lei riesce a rassegnarsi all’idea di vederlo spegnersi lentamente.
Papà dice qualcosa alla mamma e li vedo allontanarsi. Quando mi passano accanto, lui mi stringe una spalla e mi guarda come non ha mai fatto in ventidue anni.
Li osservo mentre escono, lasciando me e Rain qui da soli, poi torno a guardare mio fratello.
«Adam» gli accarezzo la guancia. Lo hanno sbarbato. «Adam, ti prego…»
Il dolore mi si incastra in gola. Sento qualcosa di caldo scorrere sul viso e bagnarmi le labbra.
«Ti prego, ti prego, non lasciarmi. Non lasciarmi, per favore…» la mia voce incrinata mi suona estranea, innaturale.
«Ev». Sento Rain mormorare il mio nome e trattenere un singhiozzo, mentre lascia scivolare la mano che teneva stretta alla mia. Mi raggiunge il rumore dei suoi passi che percorrono la stanza, poi quello della porta che viene chiusa.
Mi sdraio accanto a mio fratello e lo stringo forte. Mi rannicchio contro il suo corpo esile, come faceva lui da bambino quando papà mi rimproverava troppo aspramente.
E come allora continuo a piangere in silenzio con la faccia affondata nel suo petto, aspettandomi che inizi a farlo anche lui.
Ma non lo fa.
Dicono che le persone in coma possano sentire quello che gli sta attorno e io non voglio che Adam se ne vada circondato dal silenzio, interrotto solo dal ronzio dei macchinari e dal mio pianto soffocato.
Mi alzo a fatica, mi asciugo la faccia con il dorso della mano, vado verso la finestra.
La apro quel tanto che basta perché ci raggiunga il rumore della pioggia.
La senti, Adam?
Riesci a sentire la pioggia che cade sulle auto, sulla strada, sulle persone infagottate nei loro cappotti, sulle foglie degli alberi, sul ponte di Daly, sulla chiesa di St. Paul?
La immagini sul viso, ne stai respirando il profumo?
Ne avverti il ritmo cadenzato, la sensazione di freddo che ti lascia addosso e ti entra dentro?
Torno a sedermi accanto a lui, gli stringo forte la mano. Accarezzo le sue dita. Le unghie, lisce e perfettamente tagliate. E così dannatamente sbagliate. Perché queste non sono le unghie di mio fratello. Le sue sono rosicchiate. E i suoi polpastrelli induriti dalle corde della chitarra. Le sue mani un tempo erano identiche alle mie. Ora sono solo le mie unghie a essere rosicchiate, solo i miei polpastrelli a essere spaccati. Sono solo le mie mani a essere vive, le mie mani sono diventate le sue. Osservo il suo petto alzarsi e abbassarsi, e lo rivedo riempire il diaframma di aria prima di iniziare un vocalizzo. Quello era mio fratello. Mio fratello che si tormentava per il prossimo compito in classe, che si mangiava le unghie. Mio fratello che suonava, respirava, cantava, Dio, cantava e dava vita a qualcosa di meraviglioso, perché questo era lui. Meraviglioso e vivo.
Ma questo, questo non è lui. Questo non è Adam. È solo un corpo steso su un letto, che odora di disinfettante, che è stato riempito di aghi e tubi come se nelle sue vene non scorresse sangue, come se i suoi nervi non trasmettessero più dolore.
Cosa senti, Adam? Cosa hai sentito per tutto questo tempo?
Riconosci il tocco delle mie dita che continuano ad accarezzare le tue?
Lo avverti il mio bisogno disperato di averti vicino, il modo in cui mi aggrappo a te per non farti andare via?
Il mio sguardo va a posarsi su una farfalla nera, immobile sul muro di fronte a me.
Sotto, il monitor del tracciato cardio respiratorio.
Un ritmo cadenzato, un cuore che batte, un flebile soffio di vita che si trascina meccanicamente da quattro anni. Una pausa.
Poi un suono acuto, incessante, una linea che si dipana sullo schermo come un filo teso.
Una promessa che ci legherà per sempre.
La farfalla vola via, esce fuori, nella pioggia.
Danza, finalmente libera.
Lascio andare la mano di Adam.
Le mie dita scivolano via, mi alzo e suono il campanello per chiamare l’infermiera.
Vado alla finestra e metto fuori una mano. La farfalla si posa sul mio palmo.
La senti adesso, Adam?
Riesci a sentire di nuovo la pioggia?
Ora potrà accarezzarti ogni volta che scenderà giù dal cielo, lieve e gelida come certe sere in inverno, o pesante e infuriata, la sentirai su di te, la sentirai calpestarti, prenderti a schiaffi, baciarti e accarezzarti. Farà l’amore con te, ti ubriacherà, canterà e danzerà sopra di te.
Ti renderà terra, erba, albero, fiore, promessa, pioggia, cielo, stella, supernova, infinito.
Tornerai giù con lei, bagnerai l’ultimo battito d’ali di ogni farfalla e scatenerai l’uragano dall’altra parte del mondo.
Ti trascinerà lontano, ti porterà da me quando cadrà in estate, mentre cammino, respiro, sento, odio, amo, vivo.
Vivrai attraverso di lei e attraverso di lei io ti sentirò vicino ogni volta che ne avrò bisogno.
La farfalla vola via, sparendo nel cielo notturno.
«Slàn, Mo dheartháir
».
Un giorno ti incontrerò di nuovo, fratello.