Lasciar andare
EVAN
«Ci vieni a casa con me, stanotte?»
«Perché mi fissi i denti?»
«Hai un canino un po’ storto, lo sai? L’ho notato subito, la prima volta che ti ho vista in mensa».
Lei si mette a ridere. «Sei ubriaco». La bretella del vestito di cotone azzurro che indossa le scivola sulla spalla. Gliela sistemo, sarà la centesima volta da quando abbiamo cominciato a ballare. Cassidy e Conor sono ancora seduti al tavolo, lei tiene Jamie tra le braccia, lui guarda la sua ragazza e suo figlio e sorride come se avesse davanti, concentrate in una sola, tutte le occasioni migliori che la vita possa offrire a un uomo. Con loro, le rispettive famiglie. Valerie, la sorella minore di Cassidy, mi lancia qualche occhiata di tanto in tanto. Siamo stati insieme un paio di volte l’anno scorso, ma non è durata. Ho fatto in modo che non durasse. Perché aspettavo Rain. Ogni volta che è tornata, ho aspettato di poterla tenere tra le braccia come sto facendo adesso. Si accorge che sto guardando verso il tavolo e si volta.
«Forse dovresti invitare Valerie a ballare». Fa per lasciare la mia mano. La blocco.
«Ho chiesto a te se vuoi venire a casa con me, non a lei».
«Sì, ma solo perché abbiamo bevuto troppo» dice con una risata.
«Forse» mi avvicino al suo orecchio. «O forse è troppo tempo che ti aspetto».
Prendiamo un taxi, cominciamo a baciarci sul sedile posteriore. Ci lascia davanti a casa, ci spogliamo sulle scale.
«Il tuo coinquilino?» chiede ansimante sul penultimo gradino. Le sfilo gli slip.
«Non c’è, sono solo fino al mese prossimo».
La spingo contro la parete, la bacio, mi premo contro di lei, non ce la faccio più. La prendo di peso, entro in camera e la butto sul mio letto. La mia mano tra le sue gambe, la sua tra i miei capelli, la stessa mano su cui porta l’anello che le ha dato il suo ragazzo. La mia lingua nella sua bocca, il mio sesso che sfrega contro la sua coscia, il mio bisogno di lei. La mia bocca sul suo seno.
La sua voce che mette fine a tutto.
«Non posso farlo, Evan. Mi dispiace». Mi allontana bruscamente e si rimette seduta. «Ho un fidanzato».
Dio, quanto vorrei sbatterla sul letto e ricordarle che il suo fidanzato non è qui adesso, che non è la prima volta che la lascia da sola, che ogni volta che è tornata per stare vicino a Cassidy, durante i mesi della gravidanza, sono stato io a tenerle compagnia, ad ascoltarla mentre mi raccontava dell’idea di trasferirsi a Londra dopo la laurea, di lui che non voleva saperne di seguirla, dei continui litigi. Mi sono chiesto milioni di volte come possa stare con qualcuno che la tratta in quel modo, resistendo alla tentazione di baciarla e fare l’amore con lei. «E lui dov’è, adesso? Perché tu sei qui, con me, nella mia camera. E potrai anche raccontarti che hai accettato di salire su quel taxi con me solo perché abbiamo bevuto troppo, al ricevimento, ma sai che sarebbe solo una bugia. E se adesso te ne vai, se torni da lui, sappi che potrebbe non esserci un’altra occasione».
Continuo a fissarla senza riuscire a muovermi, e piano piano la sua figura comincia a scomparire.
«Evan».
«Evan».
Rain.
«Evan
».
Ma questa non è la sua voce.
Riapro gli occhi e mi ritrovo davanti ai cieli azzurri di Danielle.
Mi rimetto seduto sul divanetto della sala d’attesa. Il collo e le spalle mi fanno malissimo.
«Sono arrivati i tuoi genitori» mi dice, «stanno parlando con i medici».
«Cosa gli stanno dicendo?»
«Ho sentito solo che è fuori pericolo. Ora le faranno degli accertamenti, ma sembra che abbiano bloccato l’emorragia cerebrale in tempo» sorride dolce e mi rendo conto che averla qui, in questo momento, riesce a farmi sentire meno solo e spaventato.
Senza pensarci troppo, mi sporgo verso di lei e la bacio sulle labbra. «Grazie. Per essere qui con me».
Mi guarda dapprima sorpresa, poi ridacchia.
«Vado a prenderti un caffè, Heaven. Mi sa che sei ancora un po’ confuso». Poi si allontana in direzione delle macchinette. Mi sfrego una mano sugli occhi e mi volto verso la vetrata dell’ospedale. Fuori continua a piovere.
Adam.
Dio, quanto vorrei poterti rompere le palle con i miei casini ancora una volta.
Chissà se ti ricordavi di Rain.
Chissà se era per questo che amavi la pioggia.
Quando mamma è venuta a chiamarci per andare via da casa di Dominic, quel giorno, Rain ti ha dato un bacio.
Vi ho visti, quando mi sono girato per dirti di sbrigarti. Papà aveva fretta, come sempre.
Adesso passa tutti i fine settimana con noi, ci crederesti?
È così cambiato.
Il giorno in cui tu ci hai lasciato, lui mi ha chiesto scusa.
Papà che chiede scusa a qualcuno. Che chiede scusa a me. In quel momento, ho capito che il mondo attorno a me stava davvero crollando.
E ora, dopo che tu te ne sei andato…
Non posso perdere anche la nonna. Non voglio, Adam. Perché tutti quelli che amo mi lasciano?
«Evan».
Mi volto in direzione del corridoio e vedo Shannon e sua madre venirmi incontro.
Mi alzo e saluto la zia prima che si allontani per raggiungere i miei genitori, poi torno a sedermi sul divano.
«Come sta?» domanda Shannon prendendo posto accanto a me. Toglie la sciarpa e i guanti e sbottona il cappotto.
«È fuori pericolo» mi massaggio la faccia. «Si è sentita male mentre preparava la cena. Tu come stai?»
«Bene».
Danielle torna con il mio caffè, saluta Shannon e le chiede se vuole qualcosa dal distributore automatico. Lei fruga nella tasca del cappotto in cerca di una moneta. «Un tè, grazie»
Danielle la ferma. «Lascia, te lo offro io».
La guardo allontanarsi mentre prendo un sorso di americano. Ma senza latte condensato è peggio che mandare giù una birra calda.
«Sei tornato con Danielle?» Shannon mi osserva da sotto le ciglia coperte di mascara. Nemmeno il trucco riesce a nascondere del tutto quello che ha passato in questi anni.
«No, siamo solo amici».
«Che fine ha fatto Rain Donovan?»
Butto giù un sorso. «Perché me lo stai chiedendo?»
Si gratta la mano e fissa un quadro appeso alla parete di fronte. «Quando stavo in clinica, ho capito diverse cose».
«Ad esempio?» Faccio oscillare il bicchiere di carta che ho in mano.
«Ad esempio che, se hai attorno le persone giuste, puoi trovare un buon motivo per uscire dalla dipendenza, qualunque sia». Si volta a guardarmi, il viso scavato, gli occhi lucidi. «Sono due anni che non ho notizie di Duncan, l’ultima volta che l’ho visto…» ingoia un singhiozzo. «Non era messo affatto bene, Evan. Credo che lei debba saperlo. È l’unica che può tirarlo fuori da quello schifo, se non è già troppo tardi» prende un respiro. «Sono stata una stronza quando andavamo a scuola. E dopo… Mi dispiace e vorrei fare qualcosa per rimediare».
Shannon. Shannon, Shannon, Shannon. Se non fosse stato per te, probabilmente ora le cose sarebbero migliori per tutti. Ma in fondo noi due non siamo poi così diversi. Abbiamo fatto un mucchio di stronzate, ma le abbiamo fatte per amore. E forse, dopo aver passato tanto tempo a odiarci, ora è arrivato il momento di perdonarci. Mi guarda e tira su col naso. La bambina che una volta mi ha aiutato a ricostruire un castello di sabbia dopo che dei ragazzini avevano distrutto quello che avevo fatto con Adam. L’adolescente con cui ho fatto il primo tiro di sigaretta, a undici anni, di nascosto in camera sua. Le passo un braccio attorno alle spalle e me la tiro contro. Si stringe a me e piange in silenzio, la ragazza che ha capito i propri errori un istante prima che fosse troppo tardi. «Glielo dirai?» domanda sfregando la manica del cappotto sulla guancia. Una striscia di mascara le segna lo zigomo.
«Non lo so. Non credo».
«Perché?»
Mando giù il caffè, mi adagio contro lo schienale. «Una cosa del genere la distruggerebbe».
Danielle ci raggiunge e porge il tè a Shannon, poi si siede accanto a me e mi stringe la mano.
Finisco di bere il caffè, mi alzo e butto il bicchiere nel cestino.
Mi volto verso il divano, osservo Danielle parlare con Shannon. No, non sarò io a raccontare a Rain quello che è successo a Duncan mentre era a Londra. Prendo il telefono e le scrivo un messaggio. Sarà Shannon a farlo.