Estranei
RAIN
A volte una frase è sufficiente a racchiudere la storia di una vita.
«Non si possono toccare i quadri».
La o scivola verso una u, la lingua va ad accarezzare il palato nella t e i denti nella c, toccare, non si possono toccare, eppure lo fanno. La mia mano tocca il suo quadro e la sua si posa sulla mia spalla. Mi volto. Un gruppo di persone si lascia andare a una risata, una bottiglia tintinna contro un bicchiere, un rumore di tacchi si avvicina, fuori, in strada, il suono di una sirena passa davanti alla galleria. Poi sparisce. Spariscono le bottiglie e i bicchieri e le persone e le loro risate, le loro voci, le loro vite. Sparisce il tempo, quello che è trascorso mentre eravamo lontani, quello che abbiamo passato a chiederci chi fossimo, a cercarci senza mai trovarci, quello che ha scandito silenzi, respiri, baci negati e carezze furtive. Restiamo solo noi, io e lui, uno di fronte all’altra, smarriti, increduli, bagnati di pioggia. Lui fa scivolare via la mano dalla mia spalla.
«Eccoti!» Ashley ci raggiunge, affianca Duncan. «Ma dove eri… Oh, vi siete già trovati?»
Lui non si volta, io nemmeno. Sì, ci siamo trovati, dopo una vita passata a cercarci.
«Buachaill beag ». Lo sento bisbigliare.
«Cosa?» La voce di Ashley mi giunge lontana. Non riesco a distogliere lo sguardo da quello di Duncan nemmeno mentre le rispondo. «È gaelico. Significa…»
«Benvenuta» mi interrompe lui. «Significa benvenuta».
«Credevo si dicesse failté » interviene Ashley.
«Ci sono diversi modi per dire la stessa cosa, in gaelico». Duncan si volta verso di lei. «A chuisle mo chroi , battito del mio cuore, ad esempio, è un modo per chiamare la persona amata». Torna a guardarmi. «Ma anche mo Anam Cara , Mo shíorghrá ». Ricambio il suo sguardo. Ho riconosciuto le parole che mi bisbigliava la notte, mentre credeva che dormissi. «Significano rispettivamente anima gemella e amore della mia vita».
«Wow, non sapevo conoscessi delle frasi così romantiche». Ashley gli sorride. «Bene, allora immagino andrete d’accordo, o almeno spero. Non ci capisco molto di ostilità tra irlandesi. Cioè non che siate noti per questo, per carità, si sa che siete forti con la musica, la birra e…».
«Ashley, forse è il caso che mi presenti alla nostra ospite, che ne dici?» Duncan la interrompe con un mezzo sorriso.
«Hai ragione, scusatemi. Rain, lui è Duncan Ferguson, il miglior artista che la galleria Simmons abbia mai avuto la fortuna di ospitare», gli posa una mano sul braccio «nonché il mio fidanzato e futuro sposo».
«Ashley, è arrivato il signor Thompson».
La brunetta dell’accoglienza la richiama alle spalle.
«Ok Tess, arrivo. Scusate, devo andare a parlare con un amico di famiglia. Duncan, potresti prendere il mio posto come guida personale della mia ospite? Spiegale pure tutto in gaelico, se vuoi».
Ashley si allontana, lasciandoci da soli.
«Così hai preso il cognome di tua madre».
Duncan annuisce.
«Cos’hai fatto ai capelli?» chiedo osservando la sua testa rasata. Ha anche tolto il piercing dal sopracciglio. E il suo viso… Non è più lo stesso. I tratti sono più marcati e la pelle mostra qualche piccola cicatrice.
«Siamo di nuovo a questo punto?» ribatte con un mezzo sorriso. «La prima cosa a cui pensiamo dopo tanto tempo che non ci vediamo sono i capelli?»
Mi sforzo di ricambiare. «Ti stanno bene. Tu… tu sembri stare bene».
«È così».
«Ne sono felice». Non riesco a dire altro. Vorrei urlargli contro, prenderlo a schiaffi, stringerlo forte e baciarlo. Vorrei andarmene il più lontano possibile da lui, ma sono paralizzata, incollata al suolo. Ho paura che se muoverò anche un solo muscolo, questo momento finirà. E non voglio che finisca. Mai. Voglio imprimermi sottopelle questo istante, perché non mi basti una vita intera per dimenticarlo. Restiamo a scrutarci per un tempo interminabile, poi è lui a rompere il silenzio.
«Cosa fai qui a Londra?»
Lo sai. Sono qui per te. E per me. Sono qui per quel noi che non è mai esistito.
«Vivo qui, mi sono trasferita questa estate. Mia nonna è morta. Mi ha lasciato la sua casa».
«Mi dispiace».
«Vorrei poter dire lo stesso, ma come sai non l’ho mai conosciuta». Tra noi cala un silenzio pesante.
«Così… stai per sposarti?»
Annuisce. «Rain…» Porta una mano sul viso e si massaggia gli occhi. «Ashley non sa quasi nulla della mia vita in Irlanda…»
«Ho capito, non hai nulla di cui preoccuparti» lo interrompo. «Lo dirai a tua madre? Del matrimonio, intendo».
«No. Io e mia madre non ci parliamo più da…»
«Me lo ha detto». Mi osserva stupito. «Io e lei stiamo ricucendo il nostro rapporto. È molto cambiata, Dun. Forse dovresti…»
«Scusatemi, credevo di liberarmi prima. Ma cosa ci fate ancora fermi qui?» Ashley posa una mano sul braccio di Duncan, lui mi lancia uno sguardo fugace.
«Io e Rain abbiamo scoperto di aver frequentato la stessa scuola e stavamo parlando di quando…» si interrompe per tornare a guardarmi. «Di quando eravamo due ragazzini ingenui, innamorati dei nostri sogni».
«È mai stato un ragazzino ingenuo?» interviene Ashley. Gli accarezza il braccio e io non riesco a sopportarlo.
«Non saprei, non abbiamo mai parlato prima». Devo andarmene da qui. «Io devo rientrare, ho del materiale che devo consegnare entro domani mattina».
«Del materiale?» mi chiede lei curiosa.
Annuisco. «Sto lavorando per una rivista online».
«Posso chiederti di cosa ti occupi esattamente?»
«Contenuti multimediali».
«Wow, allora io e te dobbiamo assolutamente restare in contatto! Ho proprio bisogno di qualcuno che mi dia una mano con i contenuti del sito».
«Non so se…» cerco di smorzare il suo entusiasmo, notando che Duncan si è irrigidito, ma lei mi ignora. Infila una mano nella tasca dei jeans e tira fuori il cellulare.
«Mi dai il tuo numero?» La accontento. «Fatti lasciare il mio da Duncan. Io ora devo tornare di là, ho lasciato il signor Thompson sul più bello mentre mi raccontava di quanto sia brava sua figlia Dorotea, che ha conseguito un master a Firenze e ora lavora agli Uffizi e… E sarà meglio che vada, ti sto trattenendo mentre hai del lavoro che ti aspetta. Dun, tesoro, tu hai intenzione di startene qui impalato tutta la sera?»
«Devo assentarmi un attimo, ma rientrerò presto».
«Cosa?»
«Te ne ho parlato ieri al telefono, ricordi? Devo vedermi con Dianne, la tipa del catering».
«Ma certo. Allora ti aspetto qui. Cerca di sbrigartela in fretta». Gli dà un veloce bacio sulle labbra, saluta me con un cenno e si allontana.
«Ti accompagno» mi dice Duncan una volta rimasti soli.
Mi precede all’uscita e prende un piccolo ombrello rosso dal portaombrelli. Sta ancora piovendo.
«Dove abiti?» chiede mentre varchiamo la soglia. Mi affianca, offrendomi riparo.
«Vicino alla stazione Victoria».
«Ti do uno strappo in macchina». Infila una mano nella tasca dei pantaloni e tira fuori un piccolo mazzo di chiavi da cui pende un cuoricino di stoffa.
«Prenderò la metro, non è necessario».
«Sei già fradicia, rischi di prenderti un malanno».
«Sono abituata a camminare sotto la pioggia, lo sai».
«E tu sai che non mi do per vinto tanto facilmente».
Lo seguo in silenzio sino a una Porsche grigia.
«È tua?»
«No». Mi apre lo sportello e sale al posto di guida. Allacciamo le cinture. «È del padre di Ashley. Il mio futuro suocero me la lascia usare ogni tanto, soprattutto quando si tratta di fare bella figura a qualche ricevimento». Butta l’ombrello sul sedile posteriore e parte.
«Stai bene» mi dice all’improvviso, spezzando il silenzio teso che si era creato. «Il colore dei tuoi capelli… mi è sempre piaciuto. E il vestito…»
Tiene gli occhi fissi sulla strada e sul volto ha un’espressione seria e distaccata, come se quella che mi ha appena detto fosse solo una frase di circostanza.
«Duncan Donovan che si lascia sfuggire un complimento del genere?»
«Duncan Donovan non esiste più». Cinque mesi avevano creato una distanza incolmabile tra noi, la prima volta in cui ho dovuto rinunciare a lui. Ma ora, dopo più di quattro anni, è come se fossi tornata a casa dopo tanto tempo e ci avessi trovato dentro degli estranei.
La pioggia batte sul finestrino e scandisce un ritmo lento che pian piano si spegne.
«Svolta lì» gli dico con un cenno in direzione della via in cui abito.
Segue le mie indicazioni e si parcheggia poco distante da casa della nonna.
«Allora è qui che vivi ora?» mi chiede quando scendiamo dall’auto. Ha smesso di piovere.
«Sì. Ma ho deciso di metterla in vendita».
Lui sfila un pacchetto di sigarette dalla tasca e fa per accendersene una. Resto sorpresa nel vedere che è il pacchetto di papà.
Si accorge del mio sguardo e accenna un sorriso. Stringe la sigaretta tra le labbra e aspira una lunga boccata.
«Fumi?»
Scuoto la testa. Rimette il pacchetto in tasca e si appoggia alla portiera dell’auto.
«Sei da sola o…»
«Da sola».
Mi fissa. Il mio tono deve avergli rivelato più di quanto volessi.
«Avevo un ragazzo a Bangor, ma le cose non sono andate come avrei voluto».
Tira un’altra boccata.
«Cosa è andato storto?»
«Non sono mai riuscita ad aprirmi davvero, con lui».
Resta in silenzio, fissando i suoi occhi nei miei. «Non è mai una buona idea avere dei segreti con le persone che amiamo, Dun. Nemmeno quando lo facciamo per proteggerle».
Lo vedo accennare un mezzo sorriso.
«Ti riferisci ad Ashley o a noi?»
La sua schiettezza mi spiazza. «A entrambi».
«Penso tu sappia perché l’ho fatto».
«Ti riferisci ad Ashley o a noi?»
«A entrambi».
«Tu sposerai quella ragazza». Mi impongo di mantenere la voce ferma. «Avresti dovuto dirle che sono…»
«Che sei cosa, Rain?»
«Avresti dovuto dirle la verità. Sembra una brava ragazza. Non farla soffrire come…»
Lui butta la sigaretta per terra.
«Come ho fatto con te?»
Mi stringo nelle spalle. «Come abbiamo fatto l’uno con l’altra. Io, tu ed Evan. Abbiamo tutti la nostra parte di colpa in questa storia. Nessuno di noi è mai stato del tutto sincero».
Resta in silenzio per un istante.
«Che fine ha fatto?»
«È a Dublino». Fisso un punto oltre le sue spalle, dall’altra parte della strada una coppia con due bambini sta scendendo da un’auto parcheggiata. «Ci siamo rivisti quando è morto suo fratello».
«Mi dispiace. Shannon mi aveva parlato del suo gemello…»
«Shannon mi ha detto quello che ti è successo». Lui continua a fissarmi in silenzio. Dì qualcosa, dannazione.
Toglie una mano dalla tasca, tira su una manica della giacca.
Ha una cicatrice sul braccio, all’altezza della piega del gomito.
«Cos’è?»
«Un’infezione da buco».
Sollevo gli occhi dal braccio che sta ricoprendo e li porto sul suo viso.
«È così che ho conosciuto Ashley. La sua famiglia è molto cattolica, e lei e la madre si occupano di gestire un’associazione di recupero per tossicodipendenti».
«Ma perché, Dun?» la mia voce muore sul suo nome.
«Ho iniziato a Dublino, durante l’ultimo anno di scuola. Allora non mi facevo, ma frequentavo già Shannon, anche se non te l’ho mai detto. Eravamo amici di letto».
«Era lei allora».
Lui mi guarda interrogativo.
«Ho ricordato i dieci mesi prima dell’incidente. Mi avevi parlato di una ragazza con cui uscivi, ma non hai mai voluto ammettere che si trattasse di lei».
Lo vedo annuire. «In quel periodo, Shannon aveva iniziato a sperimentare droghe più o meno pesanti. Io ho cominciato quell’anno con l’ecstasy, ma dopo il tuo incidente ero intenzionato a smettere. E l’ho fatto, fino a quando mia madre non mi ha rivelato la verità su John».
Sollevo una mano per sfiorargli il braccio, ma mi blocco poco prima che le mie dita si posino sulla sua giacca.
«Stavo morendo, quando Ashley mi ha salvato. Volevo farla finita perché non avevo più nulla per cui valesse la pena vivere. Nemmeno l’arte era più una buona ragione per aprire gli occhi la mattina. Odiavo la vita, odiavo le persone, ma soprattutto provavo odio e disgusto per me stesso. Lei ha visto qualcosa di buono in me, qualcosa che valeva la pena salvare, e lo ha fatto. Per questo non posso essere sincero con lei. Non voglio che conosca sino in fondo lo schifo che mi porto dentro».
Ci fissiamo in silenzio per un momento.
«Sarà meglio che vada, ora, o la tipa del catering se ne andrà senza di me».
Annuisco.
«Resto qui sino a che non entri».
Gli do le spalle mentre infilo la chiave nella porta d’ingresso e apro, ma mi fermo sulla soglia e mi volto prima che possa salire in macchina. «Tua madre non è stata sincera con te, Dun. Tu… tu potresti non essere mio fratello».
Sorride amaramente. Poi mi trafigge con quelle dannate iridi verdi. «Non lo sono, infatti».