Su un gradino bagnato
DUNCAN
«Quindi hai rimandato l’appuntamento con Dianne?»
Ashley mi accarezza la schiena mentre finisco di lavare i denti, poi avvicina il viso allo specchio del bagno e comincia a struccarsi.
Sputo il dentifricio nel lavandino. «Non pensavo che sarei arrivato così tardi all’appuntamento, il traffico era più incasinato del solito».
I suoi occhi azzurri mi fissano dallo specchio. «Hai dato il mio numero a Rain?»
Annuisco, anche se si tratta dell’ennesima bugia.
«Potremmo organizzare qualcosa insieme, hai detto che eravate nella stessa scuola. Sarebbe bello fare tipo una rimpatriata tra vecchi compagni».
Apro il rubinetto continuando a fissarla dallo specchio.
«Che c’è?»
«Niente». Lei butta la salvietta struccante nel cestino.
«Credi che potremmo chiamare nostra figlia Rain, se mai ne avremo una?»
La guardo disorientato.
«Sì, cioè, abbiamo deciso che un maschietto lo avremmo potuto chiamare John, come tuo padre…»
«Lo hai deciso tu» la correggo mentre richiudo il rubinetto. Quando sollevo la testa, mi accorgo che ci è rimasta di merda.
«Scusami». Le poso un bacio tra i capelli. «Sai che non mi piace parlare di figli».
Lei prende spazzolino e dentifricio mentre io afferro un asciugamano. «Devi ripetere quel test, Dun».
Mi asciugo la faccia e lo rimetto a posto. «Sì, hai ragione. Lo farò».
«Shecomdo te i genioi shono delipi?»
«Cosa?»
Ashley smette di spazzolarsi i denti e si sciacqua la bocca. Poi rialza la testa. «I genitori di Rain. Secondo te sono degli Hippie? Sembra proprio un nome che sceglierebbero…»
«No» la interrompo. «Il padre era un artista, ma il nome lo ha scelto la madre perché amava la pioggia».
«Te lo ha detto Rain?»
«Cosa?»
«Del nome».
Cristo, non ho collegato il cervello alla lingua. «Sì. Le ho chiesto il perché di un nome così originale, persino per un’irlandese». Che bugiardo pezzo di merda. Sfilo la maglia e la lascio nel cesto della roba sporca.
«Mi è sembrato che andaste d’accordo» Ashley afferra una spazzola dal mobile sotto il lavandino. «Hai detto che il padre era un artista. Non lo è più?» Mi guarda dallo specchio mentre spazzola i capelli.
Scuoto la testa, non voglio parlare di John in questo momento. «È morto».
«Oh, mi dispiace. Forse è per questo che siete entrati subito in sintonia». La spazzola le si impiglia in una ciocca. Tira, strappa via qualche capello, una sfilacciatura di seta dorata contro il nero della plastica. Li stacca e li butta nel water.
«Vi guardavo, mentre parlavate di fronte al tuo quadro. La distanza tra voi era minima, e non avete smesso di fissarvi nemmeno per un istante. Se non sapessi che il tuo tipo sono le bionde come me, avrei potuto ingelosirmi».
«Vieni qui, biondina impicciona». Me la tiro contro e le poso un bacio tra i capelli. «Lo sai che ti adoro, vero?»
Lei annuisce. «Lo so, Dun, ed è proprio questo che mi preoccupa a volte».
«Cosa intendi?»
«Niente» replica con uno sbadiglio. «Cos’hai qui?» domanda toccando un punto sotto la mia clavicola. «Sembra che tu abbia litigato con un gatto».
Sfioro il punto che mi ha indicato, due piccoli graffi sulla pelle. Li tasto, li accarezzo, vorrei cancellarli. Vorrei tenermeli addosso per sempre. «Devo essermi grattato ieri mentre dormivo». Ashley mi fissa preoccupata. «Non è quello che stai pensando». No, non ho ricominciato a farmi. Ma non è comunque qualcosa che ti piacerebbe sapere, amore mio.
«Non stavo pensando a niente…» Si stringe nelle spalle, poi mi posa un bacio veloce sulle labbra. «Ti aspetto a letto».
Quando lei esce dal bagno mi avvicino allo specchio e osservo i graffi sotto la mia clavicola.
Fermami, se non è quello che vuoi.
Come puoi pensare che non lo sia?
Mi prendo la testa tra le mani. Che cosa ho fatto.
La mandibola fuori asse tira come una morsa e una fitta risale fino alla tempia, trapassandomi l’orecchio. Apro l’armadietto dei medicinali e prendo una compressa di paracetamolo. Dolore temporo mandibolare, così lo chiamano questo regalino che mi ha lasciato il caro Harry quando mi ha spaccato la faccia con un sasso, quattro anni fa.
Non fosse stato per lui, per i dolori che hanno continuato a tormentarmi anche dopo essermi ripreso, forse non avrei nemmeno iniziato a bucarmi. O forse sì. In fondo, certe cose ce le portiamo scritte nei geni.
Cosa penseresti di me se mi vedessi adesso, John? Cosa penseresti di quel bambino che hai cresciuto come un figlio senza avere la certezza che lo fosse? Cosa penseresti di questo ragazzo che ha passato la vita a sentirsi uno schifo per quello che provava per tua figlia, per questo ragazzo che stasera ci ha fatto l’amore, con tua figlia?
Sfilo scarpe, calze, jeans e mutande ed entro in doccia.
Tu potresti non essere mio fratello.
Apro la manopola che regola temperatura e getto.
Non lo sono, infatti ”.
Voltarmi non è stato facile. Sarei dovuto salire in macchina e andarmene. Invece non ce l’ho fatta.
Tuo padre mi ha lasciato una lettera.
Rovescio il flacone dello shampoo. Friziono la testa. Chiudo gli occhi.
Rivedo Rain portare una mano alla bocca per soffocare un singhiozzo, accasciarsi sul gradino all’ingresso della casa di sua nonna e piangere con le ginocchia premute contro il petto, l’abitino nero che le si solleva lasciandole scoperte le cosce, i tacchi al posto delle Converse, i capelli fradici e quell’aria smarrita dietro gli occhi grigi, il suo tentativo di sembrare una donna ridotto a niente. Guardarla e restare indifferente è stato impossibile. Avevo di fronte la bambina a cui rompevo i pupazzi solo per ritrovarmela tra le braccia, la ragazza che amo da tutta la vita, la donna che ancora non conoscevo ma sentivo di voler fare mia, lì, su quel gradino bagnato di pioggia, mentre il traffico alle mie spalle continuava a scorrere frenetico nella notte londinese, mentre sul marciapiede passavano madri straniere con figli tenuti per mano, coppie più o meno felici, vecchi con i loro cani, ragazzini con in mano un panino e una bibita. Mentre decine di vite mi sfioravano nel loro incessante fluire, io restavo immobile a osservare la mia, rannicchiata su quel gradino.
Mi sono avvicinato. Mi sono seduto accanto a lei. Ho posato la testa contro la porta di quella casa sconosciuta e ho alzato il viso a guardare il cielo. Quante volte è stato quello il mio tetto? Quante volte ho abitato la strada, solo, dolorante, un’ombra addossata al muro di qualche vicolo, non più umano, non più figlio, fratello, niente, solo uno scarto. Quante volte ho maledetto la vita, senza sapere che mi stavo trascinando in quell’esistenza solo per potermi trovare lì, su quel gradino, con un paio di pantaloni eleganti incollati addosso e lei in lacrime accanto a me, distrutta dai rimpianti, dagli errori, dalle occasioni mancate. Una parte di me l’ha sempre saputo che se non ho mai mollato la presa sulla vita è stato solo per lei. Non per Ashley. Non per me stesso. Ma per lei.
Le ho passato un braccio intorno alle spalle e me la sono tirata addosso, lasciando che posasse la testa sul mio petto e bagnasse di lacrime una camicia di cotone comprata, lavata e stirata in modo impeccabile dalla mia fidanzata. Quando ha rialzato la testa e mi ha guardato negli occhi, nei suoi ci ho visto tutto ciò di cui ho sempre avuto bisogno. Ho ritrovato me stesso e quel bambino che ha scoperto l’amore, in quegli occhi.
Si può chiedere a chi vive nel buio di smettere di desiderare la luce? Si può chiedere a chi ha tremato, tra i vicoli silenziosi in inverno, di smettere di cercare un posto in cui sentirsi a casa?
Su quel gradino ho asciugato le sue lacrime con queste mie dita ruvide, ho avvicinato la mia bocca alla sua e l’ho baciata.
Su quel gradino, mentre le vite degli altri ci passavano davanti, le nostre iniziavano e finivano in quel bacio.
Mi avvolgo i fianchi con un asciugamano ed entro nel mio studio, dove Doge dorme tranquillo sul tappeto. Un orecchio mozzato, due denti in meno, eppure è sempre rimasto al mio fianco, l’unico a starmi vicino quando per il resto del mondo ero poco più di un rifiuto.
Prendo il pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca che ho lasciato appesa alla sedia, mi avvicino alla finestra e comincio a fumare.
«Cosa ci fai qui?»
Mi volto verso Ashley che è entrata e mi fissa dalla soglia. Si stringe nella vestaglia di pile rosa, ai piedi le pantofole e i capelli in disordine. Sul viso la stessa espressione che le ho visto un milione di volte. Qualcosa è fuori posto e va sistemato. «Un altro attacco, sto aspettando che passi».
«Hai preso il paracetamolo?»
Annuisco e butto fuori il fumo.
«Non stare alla finestra, prenderai freddo».
Nella strada sotto di me, un gruppo di ragazzini fa casino con uno stereo. Uno di loro lancia una lattina nel cestino. «Sì, hai ragione» biascico stringendo la sigaretta tra le labbra. Chiudo la finestra, poi scuoto la sigaretta nel posacenere che tengo sulla scrivania, un pezzo rotondo di ceramica bianca, immacolata se non per quel piccolo cerchio grigio e deforme che si è allargato sul fondo. Ci sfrego sopra il dito. Ashley fa per tornare in camera da letto.
«Ash?»
«Mh?»
È stata solo una notte, non rovinare tutto ancora una volta. L’alone grigio resta sul fondo del posacenere. «Niente. Ti amo».
Sorride. Che uomo fortunato. «Anche io ti amo. Non fare tardi».
Chiude la porta. Mi avvicino al cassetto della scrivania, giro la chiave, lo apro e sposto le cartelle con i documenti. Prendo la busta che contiene la lettera che mi ha dato l’avvocato di John dopo la sua morte. Ho trovato il coraggio di aprirla soltanto prima di lasciare l’Irlanda e venire qui. La rileggo ancora una volta e ancora una volta non ho il coraggio di strapparla.
A Duncan,
mio figlio.
Ti prego di perdonarmi se queste parole ti giungeranno soltanto dopo la mia morte. Ho voluto così.
E forse, questo è solo l’ennesimo errore che va ad aggiungersi agli altri.
Quando senti arrivare la fine, ti ritrovi a fare la somma delle scelte che hai fatto nella vita, nel bene e nel male.
E ti rendi conto sempre troppo tardi che hanno avuto delle conseguenze sulle vite delle persone che ami.
Tu sei una di queste.
Ti amo come se fossi mio figlio, e non permetterò a una manciata di geni di decretare il contrario, né di cambiare ciò che sento.
L’amore di un padre va oltre i limiti imposti dalla genetica, perché ciò che ci rende una famiglia non è il sangue, non è un cognome, non è il fatto di somigliarci l’un l’altro. È l’amore che ci rende ciò che siamo, che ci unisce e ci tiene legati anche dopo la morte.
Ho il cancro. Non è la prima volta che combatto contro questo male. Mi conosci, sai che voi, la mia famiglia, venite prima di tutto. Per questo l’ho tenuto nascosto a tua madre, così come feci con Liliam tanti anni fa. Ho sbagliato molte cose anche con loro. Non sono stato in grado di amarle nel modo giusto.
Ma tu, Duncan, puoi evitare di ripetere i miei stessi errori.
Puoi proteggere le persone che ami. So che lo farai. Resta accanto a tua madre e a tua sorella quando io non ci sarò più.
Scegli se parlare con loro di questo test che mi accingo a distruggere. Fai ciò che io non sono stato in grado di fare.
Proteggile.
Ti voglio bene,
Papà ”.
Rimetto la lettera nel cassetto. Prendo il pacchetto di sigarette, me lo rigiro tra le mani. La mia tela, sul cavalletto accanto a Doge, è vuota. È bianca, come le bugie che racconto ad Ashley.
Arte sesso peccato. Non ci sei più tu in questo pacchetto schifoso, John. Non ci sono più le tue mani, le tue parole, la tua vita. Ci sono io. E no, non sono poi così diverso da te, nel modo di tenere la sigaretta, di radermi la faccia partendo sempre dal lato destro. Da te non ho preso il taglio degli occhi né le ginocchia un po’ storte né quel gene infestante e cattivo che mi ha consumato in questi anni, no, e nemmeno l’allergia ai mirtilli. Ashley mi ha quasi ucciso con una crostata ai mirtilli, la prima volta che abbiamo festeggiato il mio compleanno. Perché è questo che più di tutto ho preso da te, John. La totale incapacità a essere sincero, a rivelare parti di me che non voglio far conoscere agli altri. Perché una cosa stupida come un’allergia è qualcosa di simile a una colpa se sai che razza di persona è quella che potrebbe avertela lasciata scritta nei cromosomi.
E sì, ti somiglio, John, nel modo folle impulsivo e irrazionale di amare una ragazza anche se sono legato a un’altra. Nel modo istintivo e quasi brutale di farla mia, mia e di nessun altro, non di chi l’ha già avuta né di chi l’avrà. Di giurarle fedeltà e amore fino alla morte in silenzio, pelle contro pelle, fiato contro fiato, mentre fuori la vita rallentava cominciando ad arrendersi alla notte. Non siamo arrivati nemmeno al divano, la prima volta. L’ho presa contro quella porta che aveva chiuso il resto del mondo fuori e noi là dentro, in una casa ingombra di scatoloni e cellophane, vuota e sterile come me.
Non sono protetta, ho smesso la pillola.
Non importa.
Prendo la cartella blu, la apro, all’interno una serie di fogli infilati dentro buste trasparenti, ricostruzioni ortodontiche, terapie con il metadone, antidepressivi, sedute di psicoterapia. Gli ultimi fogli, le analisi che Ashley mi ha costretto a fare dopo che le ho chiesto di sposarmi, quella sera davanti al Tamigi, sull’Albert Bridge, il suo modo di dire: “Sì, lo voglio, voglio conoscere le tue parti difettose e provare ad aggiustarle”.
Malattie sessualmente trasmissibili: negative. HIV e altre malattie del sangue: negative. Esami della fertilità: oligospermia. Ed eccolo lì, il difetto da sanare, non ora, perché ora di fare figli non se ne parla, come ci si potrebbe anche solo pensare se la nostra intimità non è mai andata oltre i baci e le carezze. Ma più avanti sì, dopo il matrimonio, quando lei lo deciderà, quando sentirà che è arrivato il momento di mettere a posto anche l’ultimo ingranaggio inceppato di questo giocattolo.
La seconda volta siamo finiti sul divano, quello che stamattina ha coperto con il cellophane. Ed è stata lei sopra di me e io con la schiena incollata a quel lenzuolo di plastica, scomodo e appiccicato e indolenzito eppure a posto come non mi sono mai sentito nel letto che divido ogni notte con Ashley.
Rimetto la cartella nel cassetto, lo richiudo. Mi alzo. Entro in camera, Ashley è già sotto le coperte, sta leggendo il libro che ho preso in prestito da Jade. Tolgo l’asciugamano, infilo mutande, calze, jeans e un maglione e mi siedo sul bordo del letto per allacciare le scarpe.
«Non ti è ancora passato?» Non è la prima volta che mi vede uscire durante un attacco. Ma stanotte è diverso. Solo che lei non può saperlo.
«No». No che non mi è passato. Ce l’ho ancora addosso. Il suo odore, i suoi baci, le sue mani, i suoi seni e la sua bocca e le sue unghie e gli occhi allagati di desiderio mentre la facevo mia, ce li avrò ancora addosso domani, e tra un mese, un anno, lei, lei che geme e ansima e chiama il mio nome e ci si aggrappa e io con lei, lei che mi accoglie dentro di sé e io che mi sento finalmente a casa, questa notte, questa notte ce l’avrò sottopelle per tutta la vita.
Ashley mi posa una mano sulla schiena. «Tieni il telefono acceso».
Annuisco senza voltarmi.
Quando esco in strada, mi fermo davanti al cestino dei rifiuti. Frugo nella tasca della giacca che indosso e trovo quello che ci ho infilato prima di uscire.
Allora buttalo. Non mi importa.
Lo stringo tra le dita, trattengo i minuscoli anelli che compongono la catena, il cuore di granato oscilla nel vuoto, sospeso sopra un cestino dei rifiuti. Lascia andare la presa. Non sei più quel ragazzo che l’ha comprato quattro anni fa, una domenica mattina in un mercatino vicino al porto. Hai tagliato i capelli, tolto i piercing, la tua pelle non è più la stessa, il tuo corpo non è più lo stesso, hai perso dieci chili e ventuno grammi, hai ripreso dieci chili faticando in palestra e mangiando sano e gli integratori e la meditazione e le passeggiate al parco e Ashley sempre al tuo fianco, hai ripreso quei fottuti dieci chili ma non quei ventuno grammi. Quelli li hai lasciati a casa del tuo vero padre, tre anni fa.
Eppure ti ostini a tenere sempre lo stesso vecchio, schifoso pacchetto di sigarette. Eppure ti ostini a sognare una casa in cui l’odore di cioccolata calda e biscotti allo zenzero si confonde con quello di pittura e dopobarba al mentolo. Eppure ti ostini a desiderare di essere in Irlanda. Di rivedere i ponti sul Lifey River. Di fermarti sotto le lanterne che pendono dagli archi e chiederlo a lei, di arrivare dall’altra parte con te, di essere la metà che permette a entrambi di diventare un uno, indivisibile se non per se stesso o per zero. Di ricordarle che sei questo, senza di lei, uno zero, un essere incompleto che non può andare avanti.
Apro le dita, la catenina scivola giù, il cuore finisce nella spazzatura. Prendo il pacchetto di sigarette, accendo l’ultima, poi butto anche quello.
La fine di una vita è l’inizio di un’altra.
Non stanotte.
Non senza di lei.
Non per me.