Non sono come lei
RAIN
Mi sveglio sudata, il cuore sembra volermi uscire fuori dal petto. E per un attimo, desidero che lo faccia sul serio. Mia madre avrebbe voluto che io non fossi mai nata.
Mi sfrego una mano sugli occhi, mi rimetto faticosamente in piedi e raggiungo il lavandino per sciacquarmi la faccia. Dei flash dal sogno continuano ad apparirmi davanti agli occhi.
Ora capisco il significato di quella storia. Questa piccola mezza mela che stringo ancora tra le dita… È stato il dottor Cavanagh a donarla a mia madre. Lui era il suo fidanzato prima che lei conoscesse mio padre ed è stato il suo amante prima che lei decidesse che non c’era più nulla per cui valesse la pena vivere.
Anche la mamma si sentiva come questo ciondolo. Divisa tra un principe che non c’era mai e uno che avrebbe potuto renderla felice se solo lei lo avesse voluto.
E io sono proprio uguale a lei.
«Fatela smettere, disse la ragazza che non voleva diventare madre. Questa bambina non fa altro che piangere» bisbiglio alla mia immagine riflessa nello specchio rotto. «Mi ha rovinato la vita».
Lascio il ciondolo sul bordo del lavandino e poso una mano sul ventre. Uno scricchiolio proviene dall’anima della colonna in marmo. Qualcosa si sta sradicando, qualcosa sta percorrendo le mie gambe, il mio torace, le mie braccia, le mie mani. Scattano in avanti e colpiscono lo specchio, la crepa si allarga e distorce la superficie, rimandandomi un’immagine abominevole. Il vetro affilato mi taglia. Il sangue gocciola caldo sui palmi e macchia il lavandino, il portasapone, il bicchiere con lo spazzolino. Apro la manopola del rubinetto, gli incisivi affondano nella pelle screpolata delle labbra. Butto le mani sotto l’acqua fredda, la sensazione è quella di un limone sfregato su una bruciatura. L’acqua viene risucchiata giù nello scarico trascinandosi dietro qualche scheggia di vetro che gratta il tubo. Soffoco un urlo. Il dolore dai palmi si irradia lungo i polsi e risale sino alla spalla, arrampicandosi dentro i nervi. Mi accascio sul lavandino, espiro con un’imprecazione il fiato che stavo trattenendo. Inspiro espiro inspiro espiro. Sudo. La fronte e il viso e il collo vengono investiti da una vampata calda. Espiro.
Chiudo l’acqua e afferro un asciugamano per tamponare i tagli. La pelle si apre come una buccia.
Premo forte l’asciugamano sino a che la macchia scura smette di spandersi sul cotone bianco. Apro l’armadietto e tiro fuori una scatola di cerotti.
La lascio sul lavandino e la apro. Afferro il primo cerotto, lo scarto con i denti e lo applico sulla mano sinistra. La destra mi fa male e le dita tremano; la garza va a finire oltre la ferita. Sono costretta a staccare un lembo di cerotto che si è attaccato alla pelle sfilacciata del taglio. Quando si strappa, una fitta mi mozza il respiro.
La vista si offusca per un momento e lampi colorati mi compaiono davanti agli occhi, mentre qualcosa mi raschia la gola.
Mi piego ma tossisco fuori solo un po’ di saliva.
Vengo scossa dai singhiozzi. Il ciondolo mi fissa dal bordo bagnato del lavandino e per un attimo sono tentata di gettarlo. Ma mi è rimasto solo questo, a ricordarmi chi sono e chi non voglio più essere.
Non voglio essere come mia madre. E stavolta non farò una cosa stupida come tingere i capelli per smettere di assomigliarle.
Mi rimetto dritta e finisco di medicare entrambe le mani. Non appena il dolore si fa meno pulsante e riprendo sensibilità, raccolgo le schegge dal lavandino e la spazzatura dal pavimento. Afferro il test di gravidanza riverso contro una piastrella. Incinta. Lo terrai? Ora lo so. So cosa voglio fare e so chi è l’unica persona in grado di aiutarmi. Torno in salotto e scrivo un messaggio, poi riprendo a svuotare la camera della nonna. È notte fonda quando finisco. Faccio una doccia, i cerotti si staccano, mi asciugo e ne applico di nuovi, non mangio nulla, metto il pigiama e mi infilo a letto.
Controllo il cellulare, ho ricevuto la risposta al mio messaggio.
Ti aspetto ”.
Si torna a casa.