Neve
EVAN
«Non piangere, Adam».
Osservo la mano di mio fratello su cui giace una farfalla nera.
Non capisco perché le sue dita siano così piccole. Lui è piccolo. Un bambino.
«Volevo catturarla per te, ma Cian e suo fratello le hanno lanciato i sassi ed è morta».
«Mi dispiace» bisbiglio. Dio, che voglia di abbracciarlo. Lui tira su con il naso.
«Perché hai lasciato che la uccidessero?»
«Non volevo! Ma Cian ha tirato un sasso anche addosso a me».
«Avresti dovuto riempirlo di botte».
Lui scuote la testa. «Erano in due».
«Anche noi».
Mi avvicino per stringerlo, e mi ritrovo improvvisamente alla sua stessa altezza. «Quando avrai bisogno di me, io ci sarò» la mia voce è diventata quella di un bambino. Mi allontano e vedo Adam sorridere. «Vieni, seppelliamo la farfalla».
Mi dirigo verso il terreno che confina con la casa al mare di Shannon, dove la nonna pianterà il melo. Mi giro per dire a mio fratello di darsi una mossa, ma quando lo faccio lui non c’è. Non sono più in giardino.
Sono in camera mia, ma non ci sono né il telescopio né la lampada a forma di pianeta.
Sento Adam tossire nella stanza accanto e mi precipito fuori dalla mia per raggiungerlo.
Quando entro, lo trovo a letto febbricitante. È poco più di un adolescente.
«Ehi» lo chiamo sedendomi accanto a lui. «Hai una faccia che fa spavento».
«Ovvio, è uguale alla tua. Sto da schifo, Ev. E la cosa peggiore è che non potrò partecipare allo spettacolo».
Frequentiamo ancora il Junior Cycle. Lui è stato scelto per interpretare Romeo.
So quanto ci tenga a quella stupida recita, e un po’ mi sento in colpa per aver preso il suo posto.
«Beh, almeno non dovrai baciare Alice».
«A me piace».
«Cosa?! Stai delirando per la febbre? È una sfigata».
«Pensala come vuoi».
Lui si imbroncia e chiude gli occhi.
«Eddai, se ci tieni tanto, dopo averla slinguazzata per bene verrò da te e ti stamperò un bel bacio in bocca, così riceverai un limone indiretto».
«Che schifo» dice disgustato tornando a guardarmi.
«Oh Adam, Adam, perché sei tu Adam? Rinnega tuo padre, rinuncia al tuo nome, e in cambio ti darò tutta me stessa» cantileno imitando la voce di Alice, mentre mi avvicino alla faccia di mio fratello per dargli un bacio. «Ti darò anche la mia fes…» Lui mi schiaffa la mano aperta sulla bocca e fa forza per respingermi, mentre io me la rido e continuo ad avanzare.
«Piantala, Ev!»
«Eddai» farfuglio con le labbra premute contro il suo palmo. Adoro infastidirlo. «Lasciami controllare come stanno le tue tonsille» sghignazzo agitando la lingua sulla sua mano. Lui la ritrae di scatto con un’imprecazione e cado in avanti, ma non su mio fratello. Al suo posto, la mia faccia incontra il cotone fresco del cuscino.
Riapro gli occhi.
Non riesco a capire subito dove mi trovo, ma sento un braccio posato sulla mia spalla. La sveglia sul comodino segna le cinque e trentadue del mattino. Mi volto e vedo Danielle addormentata accanto a me. La scosto senza svegliarla e lascio la stanza per raggiungere il bagno, dove mi butto sotto la doccia.
Mi vesto e scendo in cucina per prepararmi un caffè.
«Buongiorno» Danielle sbadiglia senza pudore, con indosso solo una camicia. Una delle mie camicie. Ecco che accidenti di fine aveva fatto. Afferro la tazza fumante e mi avvicino per darle un bacio.
«Non volevo svegliarti, scusa».
«No problem, ero già mezzo sveglia. Russi».
Resto interdetto. Anche Adam me lo diceva, ma ero convinto che scherzasse. Per un attimo mi torna alla mente il sogno che ho fatto stanotte.
«Stai già uscendo?» mi chiede mentre attacca il bollitore.
«Ho il colloquio alle nove, non voglio fare tardi».
Bevo il mio caffè mentre lei si prepara un toast, poi lascio la tazza nel lavandino.
Faccio per uscire dalla cucina, ma sulla soglia mi blocco. «Dani?»
«Mh?»
«Pensi a lui, quando sei con me?»
Il suo sguardo si fa triste. «All’inizio sì. Ho provato a immaginare che ci fosse lui al tuo posto, ma non è servito a nulla. Semplicemente, non penso a niente. E tu?»
«Anche io» sospiro. «Ti chiamo appena arrivo a Limerick, ok?»
«Sì. Stai attento, Ev. Siamo in allerta per neve. Le strade ghiacciano».
Annuisco, poi la saluto con un veloce bacio sulle labbra.
Salgo in macchina, che freddo fottuto, accendo il riscaldamento e allaccio la cintura. Mentre esco dal parcheggio l’occhio mi cade sul ciondolo che mi ha dato Rain, ancora appeso allo specchietto. Dovrò decidermi a restituirglielo. Dovrò decidermi a fare sul serio con Danielle. Se oggi otterrò quel posto come insegnante di Fisica, tra qualche mese le comprerò un anello. Mi immetto sulla strada. Il mio telefono squilla. È la mamma. Attivo subito il vivavoce.
«Mamma…»
«Evan, sei ancora in città?»
Ha la voce stanca e roca, e la cosa non mi piace affatto. «Sì. È successo qualcosa alla nonna?»
«No, tua nonna è stabile. Hanno ricoverato tuo padre».
«Cosa… Papà?» domando incredulo. Prendo una svolta per raggiungere l’ospedale.
«Ha avuto un malore mentre faceva colazione. Ora sta bene, ma ci siamo spaventati…»
«Sto arrivando».
In pochi minuti sono di nuovo all’interno di questo dannato ospedale.
Raggiungo la mamma, ferma davanti al distributore del caffè.
La saluto con un bacio. «Dov’è?» le chiedo.
«Gli stanno facendo le ultime analisi. Ha avuto uno sbalzo di pressione». La seguo lungo il corridoio, dove ci sono anche William e le mie sorelle.
«È ancora dentro?» chiede la mamma. William fa un cenno affermativo, poi mi rivolge un mezzo sorriso. È cresciuto tantissimo in questo ultimo anno e da quando ha iniziato a fare curling si è irrobustito. Ha quasi vent’anni ormai, ma sembra già un uomo.
Papà ci raggiunge scortato da un’infermiera, la mamma gli si avvicina e gli posa una mano sul braccio. Lui ricambia con uno sguardo riconoscente e pieno d’amore.
Uno sguardo che io sono stato capace di rivolgere a una sola persona nella mia vita. E quella persona non è Danielle.
«È stato solo un po’ di stress» dice alla mamma. L’infermiera gli porge una cartelletta, con la raccomandazione di tornare per ulteriori accertamenti tra un mese.
Quando mi vede, papà mi sorride.
«Emily, riporta tu a casa i ragazzi, io non sono nelle condizioni adatte a guidare».
«Non vieni con noi?»
«Se a Evan non dispiace, preferirei rientrare con lui».
Capisco che vuole restare da solo con me e accetto senza problemi.
Una volta saliti in macchina, allacciamo le cinture e mi metto alla guida.
«Di cosa vuoi parlarmi, papà?» gli chiedo azionando i tergicristalli. C’è del ghiaccio sul vetro.
Lo sento sospirare pesantemente.
«Me la sono vista brutta oggi. I medici mi hanno consigliato di ridurre i ritmi di lavoro».
«Non hanno tutti i torti. Da quando ti conosco, hai sempre messo il lavoro prima di tutto».
Lui non ribatte e mi rendo conto di essere stato inopportuno. «Scusa, non intendevo…»
«No, hai ragione» mi interrompe. «Ho sempre messo il lavoro prima di ogni altra cosa, anche prima di voi. E credimi, arrivi a un certo punto in cui senti di avere sprecato la tua vita dietro cose stupide e inutili, perdendoti il meglio che la vita stessa poteva offrirti».
«Il lavoro è importante, papà. Non ci hai mai fatto mancare nulla, e stiamo parlando di cinque figli».
C’è un momento di silenzio. Entrambi stiamo pensando che la mia frase è vera solo per metà. Perché qualcosa ci è mancato in questi anni. E ora che finalmente mio padre ha capito le proprie mancanze, saremo solo in quattro a goderne.
«Adam meritava un padre migliore di me. Tutti voi lo meritate».
Prendo un profondo respiro, senza credere a quello che sto per dire.
«Non essere troppo duro con te stesso, papà. Eri molto giovane quando siamo nati io e Adam, e se crescere un figlio è difficile, posso solo immaginare come debba essere stato trovarsi improvvisamente con due neonati da accudire».
Lo vedo aprirsi in un mezzo sorriso. «Adam era sempre tranquillo, non piangeva quasi mai. Eri tu che strillavi in continuazione e non ci lasciavi chiudere occhio».
«Ero una rottura di scatole già allora» affermo con una risata che lui ricambia.
«Già. La mattina dovevo alzarmi presto per andare allo studio di architettura in cui ero stato assunto da poco. Non potevo permettermi di saltare neanche un giorno. Tua madre provava in tutti i modi a farti dormire, ma non c’era verso».
«Credo che al tuo posto sarei impazzito».
È strano parlare in questo modo con papà, senza alcun attrito, senza che nessuno di noi spari giudizi sull’altro.
«Ci sono andato vicino, una notte. Non l’ho mai raccontato a nessuno, nemmeno a tua madre».
Mi volto un istante a guardarlo. Il suo è uno sguardo complice, uno sguardo che lo rende vicino come non l’avevo mai sentito.
«Tu non smettevi di piangere, e io ero in debito di sonno. Era settembre, avevi poco più di un mese. Tua madre mi pregò di portarti a fare un giro in giardino, con alcuni bambini funziona. Ti ho avvolto nella tua coperta e ti ho preso con me. Siamo usciti fuori, l’aria era piacevolmente fresca, almeno per me. Avevo bisogno di restare sveglio. Ho iniziato a cullarti e a cantare una canzone. Con tuo fratello funzionava, ma non con te».
Prendo la svolta che ci riporterà a casa e attendo che prosegua.
«Sono salito in macchina e ho pensato di lasciarti davanti a qualche casa».
«Cosa?» chiedo incredulo.
Lui ridacchia. «L’ho pensato solo per un secondo. Alla fine ho guidato per un bel po’, sino a lasciarmi alle spalle il centro abitato. Sono sceso dalla macchina, ho fumato una sigaretta e sono tornato indietro».
«Non ci posso credere» dico scuotendo la testa.
«Aspetta, non ti ho detto come ti sei addormentato».
«Hai aperto il gas in cucina?»
«Non dire sciocchezze» mi rimprovera, ma sotto sotto è divertito. Ultimamente ha iniziato a capire e apprezzare la mia ironia.
«Ho preso la chitarra e ho cominciato a suonare, seduto sul divano con te accanto. Non suonavo per te, ma perché ero io ad averne bisogno. Era meglio di qualunque sigaretta, e Dio, se mi mancava farlo. Dato che non potevo dormire mi sono detto: “Ma sì, almeno passerò il tempo in modo piacevole”. E tu ti sei calmato, ascoltando la mia musica sino a che non sei crollato».
«Wow, quindi alla fine è toccato a te farmi addormentare ogni notte?»
«Sì».
Il suo racconto mi fa sentire tremendamente ingrato nei confronti di quel ragazzo che restava sveglio ogni notte aspettando che io prendessi sonno.
«Sono stato una delusione per te, vero?»
«Siamo stati entrambi una delusione l’uno per l’altro, Evan».
Accosto fuori da casa. Slacciamo le cinture e restiamo un istante a scrutarci, prima di salutarci. Lui posa una mano sulla mia spalla.
«Se dovesse succedermi qualcosa, so che lascerei tua madre e i tuoi fratelli in ottime mani. Sei diventato un uomo e io sono fiero di te».
Lo abbraccio, e lui mi stringe a sé.
«Grazie, papà».
«Guida con prudenza, mi raccomando. E in bocca al lupo per il colloquio».
Annuisco e lo guardo scendere. Quando rientra in casa mi rimetto alla guida.
Accendo la radio, su Cork 96 FM stanno trasmettendo il notiziario.
«…un po’ di confusione riguardo alla giornata di domani. Irish Rail, Dublin Bus e Luas saranno fuori servizio venerdì, e sono in molti a chiedersi se andrà avanti per tutto il giorno.
L’allerta meteo rossa continuerà fino alle 12 pm di domani… »
Aumento il volume e abbasso il riscaldamento.
Forse mi sarei dovuto fermare dai miei per un caffè prima di ripartire. Le palpebre si stanno facendo pesanti. La strada è buia e prosegue dritta per chilometri. Do un’accelerata prima che ricominci a nevicare.
«Secondo Met Éireann si verificheranno forti tormente durante la sera e la notte. Con queste violente nevicate ci si aspettano condizioni molto pericolose… »
Il ciondolo di Rain che ho appeso allo specchietto oscilla come un minuscolo pendolo. Ripenso al sogno di stanotte. Alla farfalla morta. A mio fratello.
«La popolazione è invitata a restare a casa… »
Sintonizzo la radio su una stazione musicale.
«…I cieli azzurri stanno diventando grigi come il mio amore.
Ho cercato di sostenerti e di completarti ma non era mai abbastanza.
Come puoi amare qualcuno e non te stessa? »
Sento di nuovo la voce di Adam che canta questa canzone. Chiudo gli occhi per un secondo.
«Chi allevierà il tuo dolore? »
Un caffè non è stato sufficiente, alla prima piazzola mi fermo.
«E quando me ne sarò andato chi fermerà la tua caduta? »
Fai attenzione. Guida con prudenza.
«Chi ti darà forza quando non sarai forte? »
Le strade ghiacciano.
Riapro gli occhi e l’ultima cosa che vedo sono i fari di una macchina.
Poi uno schianto.
«La neve è a terra, l’inverno è arrivato, cerchi di sentire la mia voce, ma me ne sono andato ».