La fine di ogni cosa
DUNCAN
Ancora tre ore e quaranta. Le sei e ventidue del mattino sulla M6, nevica, il traffico è impazzito, l’autobus della National Express che ho preso stanotte a Londra arriverà a destinazione tra più di un’ora.
Seduto su uno dei sedili in fondo, lontano dal resto dell’umanità, rannicchiato contro il finestrino, mi stringo nel giubbotto impermeabile che ho addosso, in una delle tasche il cuore di granato che ho recuperato dalla spazzatura una manciata di secondi dopo avercelo buttato, il portafogli ormai vuoto in cui ho infilato la lettera che mi ha scritto John e un coltello che ho rubato da quel buco di appartamento. Freddo. Così freddo.
Tiro su col naso e appoggio la fronte sudata contro il vetro mentre aspetto che questo cazzo di autobus si fermi a Manchester.
Il tizio seduto accanto a me sfoglia un quotidiano, butto un occhio alla pagina.
…temperature gelide, caos nei trasporti e pesanti nevicate. Sono attesi 50 cm di neve in alcune parti del Paese mentre il meteo estremo mantiene la sua morsa di ferro. Allerte meteo sono state emanate dal Met Office su tutto il Regno Unito: allerte rosse per Scozia, Devon e Galles del Sud, gialle per neve e ghiaccio nel resto del Paese.
Londra si è svegliata con una temperatura intorno ai -2°C oggi, venerdì 2 marzo, che il gelido Burian fa percepire come -11°C in gran parte dello Stato. Centinaia di automobilisti sono rimasti bloccati durante la notte a causa di venti sempre più forti che hanno innescato condizioni di blizzard e portato le strade al collasso. È stato necessario l’intervento dell’esercito per recuperare le persone intrappolate nelle loro auto in alcune aree del Regno Unito. I meteorologi hanno avvisato che il Paese ‘non è ancora fuori pericolo’, con gli effetti della tempesta Emma che si aggiungono a quelli del gelo siberiano.
Nell’Irlanda del Nord circa 400 scuole sono rimaste chiuse, il traffico sulle strade è stato interrotto, gli aeroporti sono aperti ma i passeggeri sono invitati a contattare le compagnie aeree. Tutte le 279 scuole della Cornovaglia sono chiuse, mentre la contea ha a che fare con neve, ghiaccio e inondazioni. Le auto in Galles sono completamente sommerse dalla neve…
Alle sette e trenta scendo dall’autobus, dopo sei ore e mezza di viaggio.
Percorro la strada buia e semideserta che porta fino a casa di Darren quasi di corsa, se questa patetica camminata sbilanciata in avanti si può definire in questo modo. Non mi importa più di nulla. Non mi importa della neve che mi sta bagnando completamente, né delle scarpe che ci affondano dentro. Sto malissimo. Piccoli aghi ghiacciati mi trafiggono la faccia e si infilano sotto la pelle. Scavano le mie ossa, le articolazioni, le cartilagini. Si impastano con la linfa, il sangue, la saliva, troppa saliva, il muco, le lacrime, non riesco a trattenerle, non riesco, tutto cola e schizza fuori, fuori da ogni singola ghiandola. Spasmi, crampi, qualcosa sfonda le mie viscere, qualcuno mi ha infilato un braccio dentro l’esofago per tirarmi via lo stomaco.
Mentre uscivo di casa ho vomitato sul tappeto. L’ho buttato, quel tappeto schifoso. È stato Brown, non io. Smettere di dare la colpa dei nostri errori agli altri. Una delle regole per tirarsi fuori dallo schifo.
Ma sto tornando da mio padre per affondarci di nuovo. Sarà lui a decidere come. Se aprirà, gli parlerò e metterò fine a tutto. Se non lo farà, l’unica differenza sarà che non potrò trascinarlo con me sottoterra. Stringo il coltello che ho in tasca.
Mi fermo a una manciata di passi dalla sua porta.
Sul vialetto si è accumulato uno strato di neve, bianca, il grigio delle strade inghiottito in un candore gelido, bianca contro il legno scrostato della porta, bianca contro la facciata che cade a pezzi, bianca contro la ruggine delle finestre. Fa freddo. Un passo, tremo. Un altro passo, un’impronta, scomparirà e io con lei. Un verso di Joyce, “Era venuto il momento di mettersi in viaggio, verso l’ovest. I giornali dicevano il vero: c’era neve dappertutto in Irlanda ”.
Leggi sempre Joyce quando hai nostalgia di casa ”.
Non ti resta nient’altro a cui aggrapparti quando hai nostalgia di casa. Eppure avresti potuto tornarci un milione di volte, a casa, trovarci lei ad aspettarti o chiederle di tornarci insieme a te, in quella casa che profumava di cioccolata e sigarette e legna e colori a olio, dirle che la vostra infelicità era una menzogna, invece ti sei ostinato a cercare un uomo da poter chiamare padre, quando un padre già lo avevi avuto.
Un altro passo.
Non eri preparato a quello che ti saresti trovato davanti, la prima volta che l’hai visto, gli somigli, stesso taglio di occhi, stesso colore di capelli, i suoi sono ricci, indossava un maglione beige di lana grezza, con un buco all’altezza dello scollo, pantaloni di velluto nero, di quelli che si possono comprare a Camden per poche sterline, ci sei quasi, affondi nella neve. Ti ha aperto dopo qualche minuto, è rimasto sulla soglia solo per pochi secondi, il tempo di liquidarti con un: “Ho finito la roba”. Ti fermi davanti alla porta. Quelle sono state le prime parole che ti ha rivolto il tuo vero padre e tu non hai avuto il coraggio di dirgli che sei suo figlio. Forse per paura di vedere un sorriso soddisfatto comparirgli in faccia. Eppure hai deciso che se quell’uomo ti ci ha messo, al mondo, ti ci deve pure levare.
Bussi .
Non apre.
Torna indietro, Dunny Boy, torna indietro ora che la valle è bianca e coperta di neve ”.
No, cazzo.
Oh Dunny Boy, ti amo tanto ”.
Bussi più forte .
Non c’è.
Non ti aiuterà a farla finita . Mi allontano. Mi volto.
«Che vuoi?»
Ha aperto. Mi fermo. Non rispondo. Non voltarti .
«I soldi almeno ce li hai?»
Ti volti. Lo vedi. Ti vedi. Diventerai così tra venticinque anni. Vuoi diventare così tra venticinque anni? Lo sono già. «Devo parlarti».
Lui mi fissa scocciato. Poi ride. «Ma sentitelo, lo stronzo. Non ho tempo da perdere, tornatene a casa e…»
Tiro fuori il coltello, glielo punto alla gola. Lui arretra, richiudo la porta dietro di me. «Ho detto che ti devo parlare».
«Ma che cazzo vuoi?» piagnucola.
Allontano il coltello dalla sua gola e lo rimetto in tasca. «Ti ricordi di Riona Ferguson?»
«Non so chi cazzo sia».
«È mia madre».
«Ascolta, se sei l’ennesimo figlio di puttana che viene qui a rompermi le palle perché mi sono sbattuto…»
Il mio pugno impatta contro la sua faccia, e lui urla di dolore.
«Ma che cazzo fai? Grandissimo figlio di puttana! Il mio naso!» continua a gridare, ci tiene una mano premuta sopra. «Me l’hai rotto, me l’hai rotto!»
«Stai zitto e ascoltami. Hai conosciuto Riona Ferguson venticinque anni fa, quando eri solo un patetico venditore di panini che spacciava davanti alle scuole di Dublino».
Lui mi ascolta in silenzio, continuando a tenersi il naso.
«Lei lavorava in un negozio di abbigliamento due traverse più avanti. Una sera l’hai portata fuori a cena, le hai offerto da bere e un po’ della roba che vendevi ai ragazzini. Te la sei scopata e poi sei sparito».
«E quindi?» chiede infastidito.
«E quindi lei è rimasta incinta. Sono tuo figlio». Lui resta in silenzio, studiando la mia espressione. «Sono tuo figlio, brutto pezzo di merda».
«E quindi che cazzo vuoi? Non sperare che ti dia la roba gratis per questo. Ora levati dalle palle».
«Non sono venuto qui per la roba».
«E per cosa, allora?»
«Volevo guardare negli occhi lo stronzo che ha contribuito a mettermi al mondo, per ricordarmi come non voglio essere».
Bugiardo. E lui lo sa. Sorride, un sorriso cattivo, deturpato come la sua pelle e i suoi denti, storto come il naso che gli hai rotto . Lo sa perché è tuo padre e i genitori lo sanno sempre quando i figli stanno dicendo una balla. E tu stai piangendo, sei in astinenza e stai piangendo davanti a tuo padre, piangi perché sai che questi sono gli ultimi inutili momenti della tua vita e li avresti voluti passare tra le braccia di qualcuno che ti ama, non in un buco puzzolente con la carta da parati strappata, non nel puzzo di piscio, alcol e prostitute .
«Quindi se ti dicessi che ti preparo una dose, vuoi farmi credere che non la prenderesti?»
Mancavano solo due ore e mezza e saresti stato libero. E adesso, a due ore e mezza dalla fine, a venticinque anni e dieci giorni, in un Paese che non è il tuo Paese, mentre fuori la neve cade sulla strada, pensi a un giorno d’estate su una scogliera in Irlanda, pensi a te sdraiato accanto a lei e lei che canta con il viso rivolto al sole .
Oh Dunny Boy le cornamuse, le cornamuse stanno chiamando, le senti le cornamuse suonano per te, uno due tre, sono morta e adesso tocca a te, a te, a te ”.
Voltati e vattene. Butta quel cazzo di coltello, lasciati questo schifo alle spalle, vai da lei, chiedile di aiutarti . «Non ho soldi».
Ride. Scoppia a ridermi in faccia e si allontana. Torna quasi subito, con tutto l’occorrente che posa sul tavolo, accanto a un portacenere a forma di cigno bianco. Osserva le mie braccia e sogghigna. Le mani che tengo ficcate dentro le tasche del giubbotto tremano. «Andiamo, me la pagherai un’altra volta. Insomma, pare che il mio seme non sia buono solo a schizzare la tazza del cesso, o il buco di qualche puttana» ride ancora, aspetta che io gli porga il braccio. Non me la darebbe mai gratis. L’ha tagliata male, malissimo. Vuole vedermi crepare.
Stringo forte il coltello che tengo dentro la tasca mentre lui scalda il cucchiaino.
Guardo l’orologio appeso alla parete. Ancora due ore e dieci minuti.