Torniamo a casa insieme
RAIN
Era venuto il momento di mettersi in viaggio verso l’ovest. I giornali dicevano il vero: c’era neve dappertutto in Irlanda. Neve che cadeva su ogni punto dell’oscura pianura centrale, sulle colline senz’alberi; cadeva piana sulle paludi di Allen e più a occidente sulle fosche onde rabbiose dello Shannon. E anche là, sul cimitero deserto in cima alla collina dov’era sepolto Michael Furey. S’ammucchiava alta sulle croci contorte, sulle tombe, sulle punte del cancello e sui roveti spogli. E l’anima lenta gli svanì nel sonno mentre udiva la neve cadere lieve su tutto l’universo, lieve come la discesa della loro ultima fine su tutti i vivi, su tutti i morti ”.
Chiudo il libro e lo metto in valigia. L’orologio del cellulare segna mezzogiorno e cinquantadue del 3 marzo. L’allerta meteo è rientrata dopo ieri notte.
L’agente immobiliare arriverà attorno alle tre per ritirare le chiavi. Poi andrò in stazione, prenderò la navetta fino all’aeroporto e tornerò a casa da Riona.
Suonano alla porta. Mi avvicino e guardo dallo spioncino. Bagnato dalla testa ai piedi, le mani infilate nelle tasche del giubbotto, il viso pallido e sporco, lo sguardo basso, Duncan aspetta che io apra. Non lo faccio. Resto a guardarlo attraverso la piccola lente, al sicuro dietro la porta. Un istante di troppo. Fa per andarsene. Apro. Si volta e restiamo a fissarci. È come la prima volta in cui i nostri occhi si sono incontrati. Non ho più nove anni né un mazzetto di fiori gialli in mano. Ora ho suo figlio in grembo e nient’altro a parte questo. Non siamo più due bambini, ma la solitudine dietro i nostri occhi è la stessa.
«Non mi fai entrare?»
«Sto partendo. Torno a Howth. Da tua madre».
Resta in silenzio, fermo sulla soglia. Osserva gli scatoloni alle mie spalle. «Non sarei dovuto venire, lo so. Ma ho bisogno di parlarti, Rain. Ti prego».
Mi accorgo che sta tremando. «Vieni» lo invito facendomi da parte. Lui si ferma nell’ingresso, mentre io richiudo la porta. Ha i jeans sporchi di fango.
«Ti prendo un asciugamano, stai tremando».
Scuote la testa, continuando a guardarsi intorno.
«Non ti vuoi asciugare?» Lui torna a guardarmi, ma non dice nulla.
Dio, Duncan, non guardarmi così. Ti prego. «Di cosa volevi parlarmi?»
Tira fuori una mano dalla tasca, sotto le sue unghie c’è del terriccio. Apre il portafogli e mi porge un foglio ripiegato.
«Che cos’è?» domando dopo averlo preso.
«Leggilo».
Mi metto a sedere sul divano e comincio a leggere quella che mi sembra una lettera.
«A Duncan. Mio figlio». Il mio cuore si arresta all’improvviso.
Rialzo la testa e fisso Duncan, ancora in piedi di fronte a me, le mani infilate nelle tasche dei jeans.
«Che cosa è, Dun?»
«Leggi sino alla fine».
La calligrafia svolazzante di papà. Le parole che ha scritto per Duncan. Quando finisco, rialzo la testa. «Perché…»
«Perché cosa, Rain? Perché John non ci ha parlato della sua malattia? Perché non ha fatto quel dannato test prima che io ti conoscessi? Perché mi ha condannato a sentirmi uno schifo ogni volta che pensavo a te in un modo in cui nessun fratello penserebbe mai a sua sorella?» la sua voce si fa più roca.
«Dimmelo, Rain. Era tuo padre, non il mio».
«Dun» mormoro, posando la lettera accanto a me. «Sai che non è così. Papà ti voleva bene come se fossi suo figlio, è per questo che…»
«Ma non lo ero! Non lo ero, Rain! Hai idea di che cosa ha significato questo per me? Hai idea di cosa…»
«Dun…»
«No, fammi finire. Ho bisogno di dirti tutto, o non potrò mai chiudere davvero con il mio passato, non potrò… non potrò chiudere con te». Mi sento completamente svuotata, come se tutto l’ossigeno che sino a qualche momento fa mi riempiva i polmoni fosse stato risucchiato via. «Hai idea di che cosa ho fatto ieri?»
Scuoto la testa, incapace di dire qualunque cosa.
«Sono stato da mio padre. Non ero mai riuscito a dirgli che sono suo figlio. Non ho mai avuto il coraggio, sino a ieri. E lui sai cosa mi ha risposto? “Non sperare che ti dia la roba gratis per questo”. Poi ha cercato di rifilarmi una dose tagliata male, per mandarmi all’altro mondo. Questo è il mio vero padre. Questa è la spazzatura da cui sono venuto fuori io. Ecco perché non potrò mai essere qualcosa di diverso dallo schifo che sono». Trattengo a stento un singhiozzo mentre lui prosegue. «Ho ricominciato a farmi. Ho occupato una vecchia casa e quando ci sono tornato ieri… Brown, Doge, lui… lui mi è sempre stato vicino e io l’ho lasciato da solo, al freddo…» Si fissa le mani. «Lui, lui era così freddo».
«Dun, no…»
Solleva la testa e torna a guardarmi. «E adesso sono di nuovo qui, con te, e aspetto che tu ti decida a buttarmi fuori perché è questo che merito, merito di morire in strada». Una lacrima scivola lungo la sua guancia. «Ma la verità, la verità, Rain, è che sono qui perché non so dove altro andare, non so dove altro andare…»
Non mi importa se sia sbagliato. Non mi importa se mi farò male, né di quello che mi ha detto. Non mi importa più di niente.
Mi alzo e mi lancio tra le sue braccia.
Non sa più di sapone e colori a olio. Non è più Duncan Donovan, non è più la persona che era cinque anni fa. Ma è ancora il ragazzo che amo da tutta la vita. Crolliamo in ginocchio sul tappeto, stretti l’uno all’altra. Gli accarezzo la schiena, incurante del dolore che mi trafigge le mani. Lui si aggrappa a me e si lascia andare a un pianto disperato.
«Non l’ho presa, quella dose, non l’ho presa, non l’ho presa, non voglio più farlo, Rain, aiutami, ti prego». Sentirlo così distrutto mi strazia. Pensare che in questi anni non ho potuto fare nulla per lui mi fa stare male, mi fa sentire ancora più forte il bisogno di tenerlo stretto a me e non lasciarlo andare mai più.
Anche a costo di ritrovarmi a pezzi.
Sollevo una mano e la poso sul suo viso. Lui la stringe e io sussulto per il dolore.
«Ti faccio male?»
«No».
«Bugiarda». Sfrega la bocca sui cerotti che coprono le mie ferite. «Cos’hai fatto?»
Osservo le sue unghie sporche, le nocche spellate. «E tu?»
Non risponde. Stringe la mia mano nella sua, forte, finché sul mio volto non compare una smorfia di dolore.
«Perché non mi allontani? Non ti faccio male? Non te ne ho già fatto abbastanza?»
Mi avvicino alla sua bocca. «Non voglio più lasciarti, Dun».
Lascia andare la mia mano e mi afferra il viso, scostandomi bruscamente.
Ci fissiamo in silenzio, smarriti, poi lui preme le labbra sulle mie.