Un figlio
DUNCAN
La bacio.
Ed è il primo giorno di sole dopo un lungo inverno. C’è l’odore del vento, dell’erba che cresce sulla scogliera, della pioggia che accarezza le onde sugli scogli.
C’è questo ragazzo sdraiato pigramente al sole, nessun pensiero per la testa tranne lo Squash, le patatine e la ragazza che si è stesa accanto a lui. E lui che la guarda, e non ha mai visto niente di più bello.
C’è questa ragazza che è l’amore della sua vita. C’è la minuscola lentiggine a forma di fragola che lei ha sul naso, c’è lui che vorrebbe baciarla e farci l’amore. Ci sono gli occhi grigi di questa ragazza che osservano una farfalla posata su un fiore. E ci sono le mani di questo ragazzo, mani che la intrappolano, che potrebbero farle del male. Mani che alla fine decidono di lasciarla.
Ci sono questo ragazzo e questa ragazza e tutta la vita che non hanno vissuto. E ci sono quelle mani bagnate dalle loro lacrime.
«
Ná bì ag caoineadh, buachaill beag
[4]
».
Mani ancora capaci di amare, nonostante tutto. Nonostante gli errori, i rimpianti, le occasioni mancate. «
Tá mo chroí istigh ionat
» sussurro contro la sua bocca. «
Mo Anam Cara, Mo shíorghrá
[5]
.
Non ho mai amato nessuna come amo te»
.
Mi scosto, continuando ad accarezzarle il viso. Lei ha chiuso gli occhi.
«Ti faccio schifo?»
«No».
«Allora perché non mi guardi, Rain? Vuoi che me ne vada?»
«No».
«Che cosa vuoi, allora?»
«Che tu… che tu sia felice».
Riavvicino la bocca alla sua.
«Starò male. Molto. Non sarà facile».
«Ti aiuterò io, Dun. Ti starò vicino».
Osservo le sue ferite. La mia farfalla a cui ho spezzato le ali. E non ce la faccio.
La lascio andare e mi sdraio supino sul pavimento, gli occhi chiusi e una mano sul petto. Sono passate più di settantadue ore e mi ritrovo di nuovo sdraiato a terra. Ma i dolori stanno passando. Questo male che mi ha divorato sta passando.
Rain si rannicchia su di me.
Le passo un braccio sulle spalle e me la tiro contro.
«Sono qui» mormora ingoiando un singhiozzo. «Non ti lascerò da solo. Ti amo».
«Ti amo anch’io, Rain». Torno a guardarla. «Per questo non mi vedrai più dopo stanotte. Te lo giuro. Me ne andrò da qui, non so dove, ma tu non mi vedrai mai più».
Ti lascio libera. Libera di amare ed essere amata. E alla fine, alla fine di ogni cosa, capisco che questo è l’unico modo in cui posso renderla felice.
«Aspetto un bambino».
Smetto di respirare. «Cosa?»
«Sono alla sesta settimana». Un figlio. Una ragione per ricominciare. «Torniamo a casa insieme, Dun».
Tornare a casa. Con lei. Farmi aiutare. Per lei. Per il nostro bambino, per un figlio che non avrei mai immaginato di poter avere, un giorno.
L’oligospermia non è una condizione di sterilità permanente, ma le possibilità di procreare sono infinitamente basse.
“Sei sicura di volere al tuo fianco uno come me?
”
“Metteremo a posto anche questo, quando sarà il momento, Duncan
”.
Mettere a posto. Per Ashley tutto si riduceva a questo. Tirare fuori dalla spazzatura quello che le serviva, ripulirlo e metterlo in mostra.
Stringo la mano di Rain. Stringo la mano dell’unica ragazza con cui non mi sento difettoso. Stringo la sua mano e sento di aver ritrovato quei ventuno grammi. Sento di poter tornare a casa, con lei. Posso attraversare quel ponte e sentirmi finalmente intero. Smettere di essere uno zero. Ritrovare la mia interezza nella vita che abbiamo generato.
«Sì».
Si solleva, mi guarda negli occhi. Miss Strawberry e le sue sorelle, i capelli ramati, il suo sorriso e io sdraiato sul pavimento, qui, adesso, a Londra, domani sulla scogliera, in Irlanda. «Sì. Torniamo a casa».
Sorride, sorrido, piange, piango. La bacio, mi bacia. «Sì?»
«Sì».
«Giuramelo, Dun, giuramelo».
«Sì, sì, sì. Vieni qua, ragazzino. Sei tutta la mia vita, sei la ragione per cui non ho mai mollato la presa, sulla vita».
Le sue mani sul mio viso, le mie a stringere le sue, la madre di mio figlio, mia moglie, sì, attraverseremo l’Ha Penny Bridge, glielo chiederò lì, davanti all’Ana Lifey, sotto le lanterne che pendono dal soffitto. Il suo viso si contrae in una smorfia di dolore.
«Ti ho fatto male?»
Scuote la testa e si tocca il ventre.
Si piega, il dolore le irrigidisce i lineamenti.
Mi rimetto faticosamente a sedere. «Rain? Che cosa…»
Si fissa i jeans. Una macchia scura si sta allargando sulla sua coscia.
«Dun…»
Torna a guardarmi, paonazza. Poi sbianca e si accascia su di me.
“Oh Dunny Boy, oh Dunny Boy, tutti i fiori stanno morendo. E tu devi andare, ma torna indietro e io sarò nell’ombra. Oh Dunny Boy, ti amo tanto. E io sarò morta, e troverai il posto dove giaccio, e inginocchiati, inginocchiati e io ti sentirò, e ti sentirò se mi dirai che mi ami, ti sentirò mentre vado giù giù giù
”.
Giù.
Giù.
Giù.