Un piccolo cuore
RAIN
La luce mi fa male.
Le palpebre che ho faticosamente provato a sollevare si riabbassano.
«Gesù, Rain, sei sveglia».
«Chi sei?»
«Jade. Jade O’Ryordan. Andavamo nella stessa scuola, cioè, ero allo stesso anno di Duncan».
Jade? Perché sono distesa in un letto con Jade accanto? Sono a scuola?
«Dove siamo?»
«In ospedale».
«Dun…» La gola brucia, ho carta vetrata al posto delle corde vocali.
«Dun… Duncan» lo chiamo, ma lui sta in silenzio. Forse non mi ha sentito.
«Dun?»
Perché non mi risponde?
Provo a mettermi seduta, ma appena irrigidisco i muscoli dell’addome una fitta mi trapassa togliendomi il fiato.
«Non agitarti, il dottore ha detto un paio di giorni qua e starai alla grande». La mano di Jade si posa sulla mia spalla.
Giro la testa verso di lui, ignorando la nausea. Inspiro profondamente dal naso, poi cerco di inumidire la bocca con la saliva.
«Dov’è Duncan?» biascico.
Silenzio.
Mi costringo a sollevare queste dannate palpebre. La luce del neon mi trapassa le pupille, una pioggia di aghi si conficca nei miei occhi. Non riesco a mettere a fuoco. C’è puzza di disinfettante, e qualcosa che mi stringe la vena all’altezza della piega del braccio.
«Jade, aiutami».
Si avvicina per mettermi una mano dietro la schiena. Ha i capelli più lunghi di quando andavamo a scuola ma addosso ha sempre lo stesso odore di fumo. Mi guardo attorno, un’anonima stanza di ospedale, pareti bianche, a destra la porta del bagno, sulla sinistra un tavolino e una sedia, una finestra con la serranda abbassata, venti metri quadri perfettamente sterili. Porto una mano al ventre. La faccia di Jade si fa così dispiaciuta che il mio cuore smette di battere per un istante.
«Jade» dico in un soffio, «ti prego… ti prego, dimmi dov’è Duncan».
Le lacrime cominciano a scorrere lungo le mie guance senza permesso.
«Non fare così, dai… Lui è ok, sei tu che…»
«Dov’è…» La sua mano si posa leggera sulla mia. È così calda. «Dov’è Duncan?»
«Se n’è andato».
«Dove?»
«Non me l’ha detto. Non vuole farsi trovare, credo. Ma mi ha chiesto di restituirti la collana che gli avevi dato».
No. Duncan, no. Perché? Perché?
Non riesco a impedirmi di piangere, anche se a ogni singhiozzo corrisponde una fitta lancinante al ventre.
«Mi dispiace, Rain, giuro… So che non sono un granché come amico, ma ti starò vicino sino a quando non stai meglio, gliel’ho promesso. Smetto anche di andare ai rave, Gesù, lo giuro».
Duncan, Duncan, perché, perché? Il dolore si concentra all’altezza delle costole, stringe il diaframma in una morsa.
Il mio pianto si trasforma in un grido che strazia il silenzio di questa camera di ospedale.
L’infermiera fa uscire Jade e cambia la boccetta della flebo, e io torno a sprofondare.