IV
Comunicazione della potenza
e potenza della comunicazione

Ogni forma di potenza è pubblica. Un potente solitario non può esistere. L’eremita è potente soltanto sulle cose; non ha ancora fatto o non fa più i conti con gli altri uomini e col dominio da essi esercitato sulle cose. Il potente è tale, solo se la sua potenza è riconosciuta dagli altri – al limite, da tutti. Hegel vede nel “riconoscimento” la condizione che rende gli uni “Signori” e gli altri “Servi”. La dialettica hegeliana del “Signore” e del “Servo” – dove il signore è tale perché viene riconosciuto dal servo – è il commento di Hegel alla sentenza di Eraclito che la guerra (pólemos) rende gli uni Dèi, gli altri uomini; gli uni schiavi, gli altri liberi (fr. 53).

La guerra è una tipica situazione di riconoscimento pubblico della potenza; ma per continuare a vivere l’uomo deve produrre cibo, vesti, armi, utensili, ripari; e il rapporto signore-servo dev’essere sostituito da quello dello scambio dei beni, della compravendita, del mercato. In questi rapporti economici fondamentali la potenza produttiva di chi vende i propri prodotti è riconosciuta pubblicamente da chi li compra, e viceversa, ed esiste solo in quanto così riconosciuta. Un individuo è capace di produrre cibo solo se ciò che egli produce è riconosciuto come cibo anche dagli altri.

Gli Dèi hanno sempre avuto bisogno di mostrare agli uomini la propria potenza. Anche il Dio unico, creando il mondo, crea il luogo del riconoscimento pubblico della sua potenza. Un re la cui forza non sia riconosciuta dai sudditi è imbelle, non è un re. Una scienza e una tecnica, della cui potenza sul mondo nessuno mostri di accorgersi, sono soltanto sogni.

Volendo che la propria potenza sia riconosciuta, l’individuo agisce per farla diventare comune. Non perché egli voglia spartirla con gli altri, ma perché il riconoscimento della sua potenza non sia soltanto una convinzione sua, ma comune, condivisa dagli altri. Per rendere comune il riconoscimento della loro potenza gli uomini devono incontrarsi. Vanno gli uni incontro agli altri, perché gli altri esistono solo in quanto esiste una distanza tra ognuno e gli altri. (E l’incontro è anche scontro.)

Per incontrarsi devono coprire la distanza più o meno grande che li separa. E una distanza è coperta solo se viene tracciata una via, più o meno lunga, visibile, praticabile, duratura, che consente a ognuno di rendere comune il riconoscimento della sua potenza – e che dunque è una “via di comunicazione”. Poiché la via è il mezzo per essere riconosciuti, essa è anche il “mezzo di comunicazione” primario che consente ai “veicoli” – mezzi di comunicazione derivati – di percorrerla. Il sentiero aperto nel bosco, la strada, i segnali sonori e visivi, la scrittura, la rotta marina, le vie dell’anima che uniscono gli uomini agli Dèi (anche dai quali gli uomini aspirano ad essere riconosciuti); e poi il cavallo, il carro, l’imbarcazione, i veicoli prodotti dalla tecnica moderna: sono le vie e i mezzi di comunicazione tradizionali. La loro caratteristica è di distinguersi dal luogo a cui conducono e in cui avviene il riconoscimento della potenza. Stampa, telegrafo, radio, telefono, televisione, reti informatico-telematiche, Internet, tracciano le nuove vie invisibili del riconoscimento, che tendono a far sparire la differenza tra se stesse e il luogo del riconoscimento, a cui conducono. Ormai la rete telematico-informatica non è più soltanto una via (o un incrocio di vie), ma è il luogo dove avviene il pubblico riconoscimento delle forme di potenza dei centri che emettono i messaggi. L’individuo che è spettatore dei messaggi non è più il protagoni- sta del riconoscimento, ma si limita sempre più a prender atto che il riconoscimento è avvenuto. Il riconoscimento primario della potenza non è più un atto di libertà, ma è esso stesso un atto di potenza, che per l’ennesima volta viene imposto all’individuo.

Nell’incontro tra gli individui prevalgono quelli più forti che si fanno riconoscere senza riconoscere la potenza altrui. Poi gli individui cedono il passo alle strutture: Stato, Chiesa, economia capitalistica e pianificata, apparati della tecnica, apparato scientifico-tecnologico planetario. La potenza degli individui resta subordinata a quella delle strutture. Oggi si è imposta sulle altre la struttura capitalistica, che intende servirsi della tecnica per realizzare i propri scopi, e dunque per ottenere quel riconoscimento della propria potenza, che la rende reale.

Anche le vie e i mezzi di comunicazione sono strutture, cioè forme di potenza che intendono essere riconosciute; ma sono le condizioni senza di cui non può esistere alcun riconoscimento pubblico della potenza, e dunque alcuna potenza e alcuna esistenza. La potenza – quindi anche la loro potenza – esiste solo al loro interno. E anche le forme del riconoscimento sono andate evolvendo: il riconoscimento non è più semplicemente operato da individui, ma da strutture e sottostrutture politiche, economico-finanziarie, burocratiche, militari, sanitarie, religiose, scolastiche, culturali – e soprattutto da quelle nuove forme di comunicazione che, come si diceva, sono insieme la via e il luogo del riconoscimento, a cui conduce la via.

Per questa identificazione tra la via di comunicazione e il luogo dove il riconoscimento della potenza diventa comune, la forma più potente di riconoscimento e dunque di conferimento di potenza – la via e il mezzo più potente di comunicazione – sta diventando oggi la rete telematico-informatica planetaria. Essa non riconosce soltanto la potenza che le è esterna: riconosce anche la propria potenza: è il riconoscimento pubblico più potente di essere la forma più potente di riconoscimento pubblico. Si avvia a diventare l’autocoscienza suprema della civiltà della tecnica, la forma attuale dell’autocoscienza divina.

Soprattutto il capitalismo, ma anche la democrazia, il cristianesimo, l’islamismo, il nazionalismo e, ieri, il socialismo reale, sono le forze – le strutture – che guidano il mondo con la persuasione di servirsi della tecnica, e dunque delle tecniche della comunicazione e del riconoscimento della potenza. Tali forze non solo intendono realizzare i loro scopi specifici servendosi delle tecniche della comunicazione, ma devono servirsene e trasmettere i loro messaggi per ottenere quel riconoscimento pubblico senza di cui la produzione dei loro scopi non sarebbe reale. Con la convinzione di potersi indefinitamente servire di tali tecniche per trasmettere e imporre i loro messaggi, tendono a controllarle il più possibile, estromettendo le forze antagoniste. Proprio per questo, come si è già rilevato, ognuna di tali forze è interessata a potenziare il più possibile le tecniche di cui mantiene il controllo; e a potenziare soprattutto le tecniche della comunicazione, perché in tal modo essa potenzia il riconoscimento della propria potenza.

E siamo daccapo al centro della questione. Per realizzare i propri scopi, le forze “ideologiche” devono ottenere, mediante il controllo delle tecniche della comunicazione, il riconoscimento pubblico della propria capacità di realizzarli, e quindi devono potenziare sempre di più tali tecniche. Ma in questo modo lo scopo primario delle forze “ideologiche” è destinato a trasformarsi: cessa di essere lo scopo “ideologico” a cui esse mirano – dove ad esempio il capitalismo intende realizzare un mondo capitalistico, e la democrazia un mondo democratico – e diventa l’aumento indefinito della potenza dello strumento tecnologico che dovrebbe realizzare i loro scopi originari. Questo significa che lo strumento, il mezzo – l’insieme delle tecniche e dei mezzi della comunicazione – è destinato a diventare lo scopo.

Nelle tecniche telematico-informatiche, pertanto, non solo la via assorbe in sé la meta, cioè lo scopo, il luogo del riconoscimento, ma questa stessa unità della via e dello scopo diventa lo scopo primario delle forze “ideologiche” che vorrebbero servirsi di tali tecniche come di semplici mezzi di comunicazione dei loro messaggi, e che invece, abbandonando i loro specifici scopi “ideologici”, abbandonano se stesse, cioè diventano strutture che non si servono più della tecnica ma di cui la tecnica si serve per l’aumento indefinito della propria potenza.

Si sta andando dunque verso un tempo dove il contenuto primario che viene trasmesso dalle tecniche della comunicazione e quindi, innanzitutto, dall’apparato informatico-telematico è sempre meno lo specifico ed escludente messaggio “ideologico” che si intendeva trasmettere, e sempre più l’annuncio della capacità della tecnica di trasmettere qualsiasi messaggio. Tutti i messaggi “ideologici” – tutti i riconoscimenti pubblici della potenza delle forze “ideologiche” – restano cioè svalutati rispetto al messaggio che annuncia e riconosce pubblicamente la capacità della tecnica di trasmettere qualsiasi messaggio, e che quindi rende pubblica – e pertanto reale – la suprema potenza della tecnica.

È quando tramonta il senso che alla verità viene attribuito dalla tradizione filosofico-epistemica dell’Occidente, che per la potenza della scienza e della tecnica diventa indispensabile essere qualcosa di pubblicamente o intersoggettivamente riconosciuta. Per l’epistéme, la verità è il senso assolutamente incontrovertibile del mondo, e proprio per questo è la potenza suprema, a cui ogni altra potenza è necessariamente sottomessa – la suprema potenza alla quale il divenire degli enti è costretto ad adeguarsi: la suprema potenza che annienta ogni prevaricazione mediante la quale il divenire annienterebbe la stabilità e la potenza della verità (cfr. E.S., Oltre il linguaggio, Adelphi, 1992, Parte Terza, II, 1-2).

E tuttavia, per l’epistéme, l’assoluta potenza della verità rimane inalterata anche se a riconoscerla è soltanto l’élite dei filosofi, cioè una minoranza irrilevante rispetto alla totalità degli esseri umani. Indipendentemente dalle differenze del contenuto epistemico, per ogni forma di epistéme l’assoluta e incontrovertibile potenza della verità è ciò che essa è, anche perché è necessario che essa sia riconosciuta da chi riesce a sollevarsi alla perfezione della coscienza, e al limite anche da un solo individuo umano; ma la necessità di questo riconoscimento non ha nulla a che vedere con la necessità di un consensus gentium.

Ciò non significa che la verità dell’epistéme filosofica non abbia dominato, direttamente o indirettamente, la storia dell’Occidente fino al secolo scorso – soprattutto attraverso il cristianesimo, che, della verità dell’epistéme, trasmette alle masse i tratti essenziali. La forma fondamentale di ogni configurazione dell’epistéme è infatti quel carattere di incontrovertibilità, indubitabilità, assolutezza della verità, che la fede cristiana eredita dall’epistéme greca (restando tuttavia priva di quella assoluta libertà della filosofia che è il distacco assoluto da ogni presupposto); e il contenuto fondamentale di ogni configurazione dell’epistéme è la totalità dell’essere, concepita come dimensione in cui il divenire degli enti (il loro uscire e ritornare nel nulla) è governato dall’Ente immutabile, eterno e divino – e, daccapo, il cristianesimo si muove completamente all’interno di questo senso della totalità. Pur non richiedendolo, la verità dell’epistéme ottiene, lungo l’intera tradizione dell’Occidente, quel consensus gentium, che si esprime anche nella circostanza che fino al secolo scorso la stessa scienza moderna continua a concepirsi conformemente al carattere di incontrovertibilità, indubitabilità, assolutezza che è proprio del senso epistemico della verità. Il riconoscimento pubblico della potenza della verità dell’apparato epistemico-metafisico-religioso è dovuto al fatto che, riconoscendo tale potenza, l’uomo occidentale si salva dall’angoscia provocata dall’annientamento, cioè dalla morte e dal dolore (cfr. E.S., Il giogo, Adelphi, 1989; Il nulla e la poesia, Rizzoli, 1990; e il tema è ripreso anche in altri miei scritti).

Ma quando la verità dell’epistéme tramonta – e la scienza moderna si presenta come sapere ipotetico, falsificabile, provvisorio, che tuttavia è l’apparato da cui l’epistéme è sostituita nella lotta contro l’angoscia per l’annientamento –, tramonta con ciò stesso anche la potenza di tale verità, cioè la potenza che garantisce se stessa e che può quindi prescindere dal suo essere pubblicamente e intersoggettivamente riconosciuta. Con questo tramonto, tale riconoscimento diventa quindi indispensabile all’esser potenza della potenza – e dunque anche alla potenza della scienza e della tecnica, la quale è tanto più potente quanto più tale riconoscimento è esteso e costante. Sulla base della fede – giacché di una fede si tratta – che l’uomo sia una convivenza di uomini e che il “comportamento” di ciò che vien chiamato “individuo umano” esprima le sue convinzioni, la potenza è infatti definita dalla sua capacità di trasformare il mondo in modo tale che i conviventi si accorgano della trasformazione e cioè la riconoscano.

Per l’epistéme, affermare e praticare la verità, e quindi riconoscerne la potenza, è il compito e il dovere più alto (la “virtù suprema”, dice il frammento 112 di Eraclito, è «dire cose vere e farle», alēthéia légein kaì poieîn); e dunque è una scelta ed è presente a se stesso come una scelta. Una scelta, non nel senso che sia egualmente legittimo scegliere di non riconoscere tale potenza, ma nel senso che è possibile restare, non riconoscendola, dei «dormienti», dei «sordi», degli «assenti» (ancora nel linguaggio di Eraclito; o restare «tenebre», nel linguaggio del Prologo del Vangelo di Giovanni: et lux in tenebris lucet, et tenebrae eam non comprehenderunt, I, 5-6). Si pensa invece – ed è la scienza stessa o la riflessione scientifica sulla scienza a pensarlo – che il riconoscimento pubblico della potenza della scienza moderna sia un atto che è ed è presente a se stesso come una costrizione. Chi riconosce questa seconda forma di potenza si sente costretto a riconoscerla.

Ma non può trattarsi di quella costrizione assoluta in cui consiste la verità incontrovertibile dell’epistéme; e quindi si tratta di una costrizione relativa, sì che, da ultimo, il motivo per il quale si subisce la costrizione è la fede, cioè la semplice convinzione (priva di un fondamento assoluto) di esser costretti, e dunque è daccapo una decisione, una scelta, che però si presenta a se stessa come una costrizione. Si vuole essere costretti a riconoscere la potenza della scienza – giacché, all’interno del pensiero dell’Occidente, là dove un nesso tra determinazioni diverse (nella fattispecie: tra l’operare della scienza e il riconoscimento pubblico della potenza di tale operare) non è stabilito dalla verità incontrovertibile dell’epistéme, a stabilirlo non può restare altro, in ultima istanza, che la volontà che esso sussista, cioè la decisione, la scelta che esso abbia ad esistere.

In ultima istanza, perché, certamente, le ipotesi scientifiche, sebbene ipotetiche, sono altamente “confermate” (e una di tali ipotesi è appunto il nesso tra l’operare scientifico e il riconoscimento pubblico della sua potenza); ma poiché si tratta pur sempre di una conferma provvisoria che, appunto, non elimina il loro carattere ipotetico, l’essere costretti a riconoscere la potenza della scienza non può essere, in ultima istanza, che un voler essere così costretti, un voler assumere come assoluta una costrizione che invece è relativa – una volontà, peraltro, che non ha nulla a che vedere con la decisione intenzionale, ma in cui ci si trova già da sempre.

Ma, poi, il riconoscimento della potenza della scienza è un evento che va interpretato. E ogni interpretazione è una fede, e cioè, da ultimo, una volontà. Che l’esser uomo sia l’essere una convivenza di uomini è già questa una interpretazione (cioè una fede) di certi eventi che chiamiamo “umanità”. E che un sottoinsieme di tali eventi sia il riconoscimento pubblico della potenza, e della potenza della scienza, è daccapo un’interpretazione, cioè una fede. Quindi, daccapo, è la volontà a stabilire (in modo non intenzionale) i nessi in cui consiste l’interpretazione – nella fattispecie, il nesso tra certi eventi e il loro essere il riconoscimento pubblico della potenza della scienza. Sì che anche la scienza non solo vuole avere potenza sul mondo, ma vuole anche che certi eventi siano la sua potenza sul mondo – vuole che la propria potenza consista in una certa configurazione del mondo (secondo quanto è stato sviluppato in E.S., Legge e caso, cit.; Destino della necessità, cit. XI-XII, XIV-XV; La tendenza fondamentale del nostro tempo, cit., III).