VIII
Lo Stato, l’azienda, l’imprenditore planetario

«Lo Stato è un’azienda. Chi è capace di risanare e rafforzare una grande azienda sa anche guidare lo Stato. Anzi, è il solo veramente capace di guidarlo.» Un discorso, questo, che ha acquistato credito nel mondo industrializzato. Anche in Italia – dove è uno dei punti qualificanti delle campagne elettorali del centro-destra. Alla sua base si trova l’immagine tradizionale dell’imprenditore, che per personalità, energia, audacia, abilità, scaltrezza, spirito di iniziativa, prontezza di riflessi e sangue freddo è capace di quello che la maggior parte delle persone non è in grado di fare.

Un’immagine tradizionale, di cui già agli inizi degli anni Quaranta un economista come Joseph A. Schumpeter intravedeva l’eclissi; ma che negli ultimi decenni si è rifatta viva – anche perché nell’onnipotente messaggio televisivo la personalità dell’uomo politico ha ormai un peso determinante e la personalità dell’imprenditore di successo è ancora tra le più idonee a colpire l’immaginazione del pubblico. L’“uomo forte” di cui si parla è per molti versi l’imprenditore capace, che decide di utilizzare la propria esperienza per risolvere i problemi dello Stato.

Ma se si fa rivivere l’immagine tradizionale dell’imprenditore, non si può dimenticare quel tratto essenziale dell’intrapresa capitalistica che è il rischio. L’imprenditore mette a rischio il proprio capitale. Se non rischia, fa dell’ordinaria amministrazione, non esce da una routine che per la sua prevedibilità e calcolabilità può essere praticata da gran parte della concorrenza e che quindi fa tendere a zero il profitto. Il profitto cresce dove cresce il rischio. Rischio, azzardo, scommessa, avventura formano il terreno in cui si muove l’iniziativa imprenditoriale. Un imprenditore che non rischi è fallito in partenza. E dunque è capace solo se, insieme ai requisiti summenzionati, ha anche quello di essere fortunato. Se si affronta il rischio con competenza ma senza fortuna, non si è imprenditori capaci.

D’altra parte, se l’intrapresa è liberata dal rischio (e dalla connessa fortuna e sfortuna) ed è resa totalmente calcolabile e prevedibile, cioè razionale, l’azienda si trasforma in un laboratorio scientifico, ossia in un’organizzazione della routine che rende superflua la presenza dell’imprenditore: la razionalità scientifica non controlla più soltanto le tecniche utilizzate per la produzione del profitto, ma finisce col controllare e infine sostituire anche il volume di decisioni in cui si esprime la personalità dell’imprenditore e da cui dipendono infine le sorti dell’azienda. La presenza dell’imprenditore (capace) richiede che l’intrapresa economica non divenga un calcolo scientifico accessibile a tutti in linea di principio e quindi tale da dissolvere ogni opportunità di investimento.

Ma se l’intrapresa capitalistica è costretta a muoversi nell’elemento del rischio, che cosa accade quando si concepisce lo Stato come un’azienda e lo si mette nelle mani dell’imprenditore? Se questa operazione è compiuta per davvero e non è uno slogan elettorale, è inevitabile che si dia vita a uno Stato a rischio, come è sempre a rischio anche l’azienda che vada mietendo i più lusinghieri successi. O l’azienda si ferma, oppure è sempre messa a repentaglio. E il successo sarà tanto maggiore quanto più la si sarà messa in pericolo. Sono ben note le analogie (ovviamente inscindibili dalle differenze) tra l’intrapresa capitalistica e il gioco d’azzardo.

L’azzardo economico è consentito perché l’imprenditore, quando è corretto, mette a repentaglio la propria ricchezza e se stesso. Ma se l’azienda è lo Stato, il capitale messo a repentaglio è la ricchezza di tutti i cittadini. Essi sono costretti a rischiare il proprio capitale e devono augurarsi che l’imprenditore alla guida dello Stato continui ad avere fortuna. Possono vincere molto, ma possono anche perdere tutto. Sembra che lo Stato moderno abbia il compito di evitare questi due casi estremi praticando una via mediana, che lasci peraltro aperta la possibilità di quei casi nell’ambito dell’iniziativa privata. Lo Stato è la dimensione pubblica che non può mettere a repentaglio la sicurezza dei cittadini e che dunque non può essere un’azienda privata, la quale si muove per essenza nell’ambito del rischio.

Certo, in democrazia i cittadini sono pur sempre liberi di scegliersi uno Stato-azienda e uno Stato a rischio, sperando nella fortuna di chi lo guida e loro. Sembra inoltre che il modello da noi considerato sia molto astratto, perché l’imprenditore capace alla guida dello Stato sarà circondato da un team di tecnici e di scienziati con il compito di ridurre il più possibile l’aleatorietà delle decisioni, i rischi dell’azienda statale e la connessa possibilità di esiti sfortunati.

Tuttavia rimane vero che una maggioranza che voglia uno Stato a rischio impone il rischio alla minoranza, la costringe all’azzardo in modo affine a quello con cui in uno Stato democratico la maggioranza decide, attraverso gli organi di governo, di entrare in guerra. Tutto questo può essere lecito, ma non può essere nascosto, cioè va detto come va detto che uno Stato-azienda è uno Stato a rischio. Si tratta poi di vedere se il team di tecnici-scienziati che assiste il politico-imprenditore alla guida dello Stato gli lascia o no spazio. Se sì, la guida dello Stato viene affidata da ultimo a chi opera in condizioni di rischio sperando nella fortuna. Se no, lo Stato si trasforma in un apparato tecnologico che si propone metodicamente l’eliminazione del rischio e della fortuna dall’amministrazione della cosa pubblica. Cioè si propone di non essere un’azienda. È quanto sta in effetti accadendo su scala planetaria, nonostante la reviviscenza dell’immagine tradizionale dell’imprenditore e dell’“uomo forte”.

È noto che il capitalismo si esprime in una molteplicità pressoché indefinita di configurazioni, si dà invece minor risalto alla circostanza che, dall’ultima guerra mondiale, la forma primaria dell’iniziativa imprenditoriale non solo non è più esercitata dagli individui, ma dai trusts, ma quest’ultimi l’hanno a loro volta ceduta ai grandi Stati che dominano il mondo e che dunque, ma in un senso diverso da quello a cui pensava John M. Keynes, sono i veri imprenditori planetari del nostro tempo. L’organizzazione della guerra fredda è stata infatti – all’Ovest come all’Est – il maggiore investimento di capitale che ha attivato l’intera economia mondiale.

Con la fine del socialismo reale e della guerra fredda sono venute meno certe opportunità di investimento planetario; ma la Russia rimane tuttora, come gli Stati Uniti, e nonostante la crisi economica, l’unico Stato che può distruggere il mondo; e mostra sempre più chiaramente di non voler rinunciare ai privilegi che questa sua straordinaria potenza le conferisce. In un mondo sempre più pericoloso, Stati Uniti e Russia hanno distanziato tutti gli altri popoli e si sono assicurati la sopravvivenza. Sono certamente esposti a insuccessi in conflitti locali e nella lotta contro il terrorismo, ma sono anche gli unici ad avere la possibilità di distruggere le radici di tali insuccessi, attivando il loro potenziale militare – fino all’uso dell’armamento atomico – contro gli Stati che ai loro occhi si rivelassero come i responsabili ultimi delle loro sconfitte e del loro indebolimento sul fronte esterno e interno.

Se la fine del socialismo reale e della guerra fredda ha dissolto certe opportunità di investimento planetario, altre dunque ne compaiono in relazione alla volontà dei due superstati di mantenere la distanza che sono riusciti a porre tra sé e il resto del mondo e di non alterare sensibilmente il sostanziale equilibrio che, nonostante la crisi economica della Russia e della Csi, tuttora sussiste tra i loro arsenali militari. Inoltre, come durante la guerra fredda gli Stati Uniti non avrebbero mai consentito che il potenziale economico dell’Europa e del Giappone cadesse nelle mani dell’Unione Sovietica, così ora non possono lasciarlo indifeso di fronte alla pressione crescente del Sud del Pianeta. Anche la Russia ha tutto l’interesse a salvaguardare l’economia europea e giapponese, di cui ha bisogno per avviare il processo di attivazione delle proprie enormi risorse. Per la loro ricchezza economica Europa e Giappone (un discorso analogo si può fare per il Canada e i Paesi del Sud Est asiatico) appartengono quindi anch’essi al Club dei privilegiati che si sono assicurati la sopravvivenza.

Tutto ciò significa – vado osservandolo da tempo – che il tramonto del comunismo mondiale e la crisi economica dell’ex Urss non impediscono che nel Club dei privilegiati l’imprenditorialità continui ad essere esercitata in forma primaria dalle grandi strutture statali: in misura maggiore negli Stati Uniti, consapevoli di essere il centro e il polo di attrazione dell’intero Pianeta; in misura minore in Russia, che, per riassumere in pieno i propri impegni mondiali, deve innanzitutto risolvere, mediante un’imprenditorialità di tipo tradizionale, i propri problemi economici; e in misura ancora minore in Europa e in Giappone che ancora sviluppano le proprie economie lasciando ad altri (Stati Uniti, Russia) il compito di difenderle (più o meno direttamente), ma che dovranno sempre di più far gravare sulle proprie spalle questo carico, favorendo quindi a loro volta il processo in cui lo Stato diventa l’imprenditore primario. Un processo analogo si sta verificando anche in Cina.

La tesi qui sopra richiamata, che nella seconda metà del nostro secolo la forma primaria dell’imprenditorialità sia esercitata dagli Stati che dominano il mondo, sembra smentita dall’impossibilità di identificare lo Stato e l’azienda capitalistica. Tale identificazione è certo, uno degli elementi qualificanti della destra mondiale; ma, anche se si stenta a riconoscerlo, è insostenibile, già dal punto di vista del concetto moderno di Stato.

L’azienda capitalistica, si è visto, produce e incrementa il profitto solo se il suo ciclo produttivo non è una routine, ossia qualcosa di calcolabile e quindi di accessibile alla concorrenza. Routine e profitto sono inversamente proporzionali. La prosperità dell’azienda è direttamente proporzionale, da un lato, all’innovazione resa possibile da certe qualità umane dell’imprenditore, tra le quali va annoverata la capacità di sfruttare rapidamente ed efficacemente la stessa innovazione tecnologica; dall’altro lato, al rischio che l’imprenditore deve correre quando adotta scelte non calcolabili e non prevedibili, e che rimane un rischio anche se non è cieco.

E si è osservato anche che le qualità più positive dell’imprenditore sono irrilevanti se egli, rischiando, è sfortunato. Il più audace, il più lungimirante, il più astuto degli imprenditori è un cattivo imprenditore se è sfortunato oltre un certo limite. Se per ridurre la sfortuna si affida alla previsione scientifico-tecnologica, finisce per ripristinare quella routine che, notava Joseph A. Schumpeter, è il fallimento stesso dell’intrapresa capitalistica. L’azienda è essenzialmente una operazione a rischio. Se si trasforma lo Stato in un’azienda – abbiamo detto – lo si trasforma in uno Stato a rischio.

Ma proprio perché nell’età moderna ci si rende conto che lo Stato è inventato e costruito per ridurre il più possibile ogni forma di rischio nella vita dei cittadini, ne viene che lo Stato moderno non può essere un’azienda.

Tutto questo rimane fermo. Ma tutto questo non smentisce in alcun modo quanto si è detto sopra intorno alla forma primaria dell’imprenditorialità nel nostro tempo; bensì mostra che l’imprenditorialità è una dimensione più ampia della imprenditorialità capitalistica e di quella che si è espressa nell’economia pianificata.

Ogni intrapresa che raggiunga i propri scopi è un aumento della potenza di cui l’imprenditore inizialmente dispone. L’aumento di denaro, che è lo scopo fondamentale dell’intrapresa capitalistica, è un aumento di potenza. Ma anche l’imprenditorialità degli Stati che oggi prevalgono nel mondo ha come risultato un aumento costante della loro potenza: quello che consente loro di mantenere la distanza che sono riusciti a porre tra sé e i popoli non privilegiati. Certamente, essi investono denaro ottenuto dall’investimento capitalistico a rischio; ma la forma specifica della loro imprenditorialità non è di tipo capitalistico, ma scientifico-tecnologico, dove si tende a ridurre al minimo il rischio e la fortuna-sfortuna, ma si raggiunge anche un incremento di potenza essenzialmente superiore a quello puramente industriale-finanziario, giacché esso produce, mantiene ed ac- cresce le condizioni stesse del benessere economico, cioè accresce la potenza che assicura la sopravvivenza. Una ricchezza che non sappia difendersi e imporsi sui propri avversari è illusoria, e forse in misura maggiore di quanto lo sia un forte apparato difensivo-offensivo sostenuto (come oggi avviene in Russia) da una debole base economica.

Nei superstati avviene cioè in forma più radicale ed esplicita quanto sta avvenendo ovunque nel mondo capitalistico: che la tecnica – ossia la capacità di realizzare scopi in generale e quindi di aumentare indefinitamente la potenza iniziale – diventa, da mezzo per l’incremento del profitto, lo scopo primario dell’intrapresa; mentre l’incremento del profitto diventa, da scopo primario, il mezzo per incrementare la potenza dell’apparato scientifico-tecnologico di cui si dispone. In questo modo, l’imprenditorialità si allontana dalla sua forma capitalistica e si avvicina sempre più alla sua forma tecnologica – come appunto sta accadendo nei superstati, dove tutto viene subordinato all’apparato che garantisce la loro sopravvivenza.

Qui non è più l’imprevedibilità del rischio e della fortuna a determinare l’incremento della potenza, ma quella forma superiore di imprevedibilità che accompagna la più rigorosa delle previsioni scientifiche (e che è anche l’imprevedibilità della capacità scientifico-tecnologica di previsione). Qui domina la grande ed enigmatica routine della scienza e della tecnica. All’interno del Club dei privilegiati essa tende, sia pure lentamente, a distribuirsi in modo uniforme; ma è estremamente improbabile che i privilegiati si rassegnino a spartirla con i non privilegiati (e la questione non è innanzitutto razziale, ma strutturale, relativa cioè alla diversa struttura sociale dei due gruppi contrapposti).

La dominazione del capitalismo moderno non ha nulla a che vedere con lo Stato-azienda. Un’azienda può essere economicamente forte; ma uno Stato-azienda, fondato sul rischio e la fortuna, è debole rispetto ai nemici interni ed esterni, che sviluppano la loro ostilità al di fuori delle regole della concorrenza capitalistica. E non è mai esistito. La capacità di dominio del capitalismo non consiste nella trasformazione dello Stato in un’azienda, ma nel riuscire a organizzare la potenza politica dello Stato – ossia «il monopolio legittimo della forza» (Max Weber) – in modo che esso favorisca al massimo l’incremento del profitto. Oggi la forza suprema è la tecnica; e nelle sue forme preminenti lo Stato è il monopolio legittimo della forza sviluppata dall’apparato scientifico-tecnologico.

Il capitalismo si avvia al tramonto (insieme a tutte le altre grandi forme della tradizione occidentale), appunto perché la potenza della tecnica, che assicura la sopravvivenza degli Stati (e del capitale), può essere salvaguardata e accresciuta solo se essa non assume come scopo primario qualcosa che le sia esterno, come la tutela e la promozione del profitto – secondo quanto accade nella forma capitalistica dell’imprenditorialità. Sino a che la tecnica si rapporta a uno scopo di questo tipo, essa è un semplice mezzo, ossia qualcosa di subordinato e di limitato, la cui potenza rimane dunque frenata e impedita. Nella forma tecnologica dell’imprenditorialità, la potenza della tecnica – che assicurando la sopravvivenza degli Stati è il bene più prezioso – può essere salvaguardata e accresciuta solo se essa assume se stessa come scopo primario, cioè la propria salvaguardia e la propria crescita, l’incremento indefinito della propria capacità di realizzare scopi.