IX
Quaerite primum regnum Dei

A un primo sguardo, sembra che le grandi forze delle attuali società democratico-capitalistiche tendano ad accordarsi e ad assimilarsi. È difficile, oggi, che la democrazia non riconosca la necessità dell’economia di mercato e non lasci spazio ai valori cristiani; o che il capitalismo non tenga conto dei principi fondamentali della democrazia e del cristianesimo. Anche la Chiesa cattolica vede nel capitalismo uno strumento di produzione della ricchezza, che si è rivelato incomparabilmente superiore all’economia pianificata del socialismo reale; ed esorta i fedeli a non smarrire la strada della democrazia.

Questo, per stare a tre grandi forze protagoniste della vita sociale nel Nord del Pianeta. Ognuna delle quali intende anche accordarsi con la crescente potenza che oggi la tecnica, guidata dalla scienza moderna, mette a disposizione dell’uomo. E accordarsi con la tecnica significa, per tali forze, servirsene – giacché, si dice, la tecnica è di per se stessa neutrale, e diventa buona o cattiva a seconda che la si usi bene o male. A loro volta, i promotori e gli amministratori della tecnica, solitamente, intendono mettersi “al servizio della società” – il che significa, nel nostro tipo di società, al servizio dei valori democratici e religiosi e del libero scambio economico.

Ma questo accordo, questa indolore mescolanza di valori diversi o li altera oppure è apparente e si risolve nella dominazione di uno sugli altri. Una mescolanza reale che non li alteri, e dove uno di essi non finisca col soffocare gli altri, è un’illusione. La politica di vista corta può certo convincersi che non si tratti affatto di illusione, ma di sano realismo e di vera concretezza. Ma il tatticismo politico ha anche vita corta, perché è soltanto una ragnatela l’azione politica che considera compatibili, accordabili e mescolabili forze che invece – questa, al di là delle apparenze, è la situazione effettiva – sono incompatibili e conflittuali.

Il capitalismo, infatti, che ha come scopo primario il profitto, intende liberare il più possibile il mercato dai controlli e dai limiti a cui vorrebbero sottoporlo le istanze e i principi democratici, la fede cristiana e la dottrina sociale della Chiesa. La democrazia, d’altra parte, non solo vede in ogni forma di deregulation della produzione capitalistica un potenziale attentato alla libertà e all’uguaglianza dei cittadini, ma esclude anche che una qualsiasi concezione della vita (quella cristiana, comunista, capitalistica) possa pretendere di valere come una verità assoluta avente il diritto di diventare legge permanente dello Stato; e affida unicamente alla competizione elettorale il compito di decidere che cosa debba e che cosa non debba essere legge dello Stato.

A sua volta, la Chiesa cattolica riconosce i meriti del capitalismo e della democrazia; ma al primo prescrive di avere come scopo primario il “bene comune” della società e non il profitto privato; alla seconda proibisce di separare la libertà dalla “verità” – dalla verità che per la Chiesa non può essere altro, da ultimo, che verità cristiana, e anzi cattolica. La tecnica, infine, di cui tutte queste forze vorrebbero servirsi per realizzare i propri scopi, e che dunque tutte sono interessate a rafforzare, è destinata a salire di rango, cioè a non essere più semplicemente il loro strumento e a diventare anzi il loro scopo supremo. Dalla tecnica dipende ormai la salvezza dell’umanità; e nessuna forza può avere il diritto di limitarne o arrestarne la crescita in nome dei valori della nostra tradizione.

Quando si sappia guardare a fondo, si scorge cioè che ognuna di queste forze – capitalismo, democrazia, cristianesimo, tecnica – chiede alle altre o di non essere più quello che sono, o di non diventare quello che potrebbero essere. Al di là del loro apparente accordarsi e mescolarsi, ognuna di esse chiede, né più né meno, il suicidio delle altre e agisce attivamente per toglierle di mezzo. Agisce per togliere al loro scopo il carattere di scopo primario, riducendo tale scopo a mezzo di ciò che, secondo ognuna di esse, dovrebbe essere l’autentico scopo primario.

Per ognuna vale il detto evangelico: Quaerite primum regnum Dei («Cercate per primo il regno di Dio»). Solo che per ognuna Dio è qualcosa di molto diverso da ciò che è per le altre. Ogni Dio vuole assoggettare a sé gli altri. Assoggettati, gli altri diventano, nel migliore dei casi, un “Cesare” – al quale è giusto dare «quel che è di Cesare». (E la democrazia, ad esempio, ritenendosi il vero Dio, darà al capitalismo «quel che è del capitalismo»; e viceversa.) Ma quando gli altri Dei non si lasciano spodestare e assoggettare al “vero” Dio, allora, per quest’ultimo, essi diventano Mammona, a cui non è giusto dare alcunché. Non assoggettati, essi sono infatti altri padroni. Gesù sapeva che non si possono servire due padroni. Cioè non si possono avere due scopi supremi; non si possono avere due scopi unici.

Se ogni azione umana è quello che è, solo in quanto ha lo scopo che ha, e se il suo scopo è trasformato in mezzo per la realizzazione di un altro scopo, l’azione illanguidisce e muore. Se dovesse avere come scopo il “bene comune” e non il profitto, il capitalismo illanguidirebbe e morirebbe. E non sarebbe più democrazia una libertà unita alla verità cristiana. Sergio Ricossa mi ha obbiettato che il capitalista, oltre a mirare al profitto, tende a innumerevoli altri scopi (mangia, fa beneficenza, si sposa, sente musica, ecc.). (E lo stesso discorso si può fare per il cristiano, il democratico e il tecnico.) Credo di saperlo anch’io. Rispondo (avvalendomi di Aristotele) che, quando il capitalista mangia, non compie un’azione capitalistica. (Anche a un poveraccio può capitare di mangiar bene.) Non è in quanto capitalista che egli mangia o fa beneficenza. Quando mangia, lo fa in quanto organismo vivente; quando fa beneficenza lo fa in quanto uomo morale. Voglio dire che il capitalista, in quanto capitalista (lo stesso si dica degli altri), non solo non ha innumerevoli scopi, ma non ne ha nemmeno due: ne ha uno solo, primario, supremo, un solo padrone, al quale, nel suo agire capitalistico, subordina tutti gli altri. E quest’unico scopo è il profitto. Egli, in quanto capitalista, non serve due padroni – anche se, certamente, l’uomo, vivendo, passa continuamente da un padrone all’altro. Ma intanto rimane fermo che se al capitalismo si prescrive di non aver più come scopo e padrone il profitto, ma, ad esempio, i valori democratici o il “bene comune” del cristianesimo, il capitalismo illanguidisce e muore. E lo stesso si dica per le altre grandi forze del nostro tempo. Rimane ferma cioè quella conflittualità, che le pone le une contro le altre e che invece le politiche di basso profilo vorrebbero spensieratamente risolvere e comporre.

* Recentemente sul «Corriere» è stata riportata questa dichiarazione del presidente della Fiat, Cesare Romiti, intorno al confronto con il mondo ecclesiale sull’impresa e il profitto: «Ne ho discusso molte volte con illustri sacerdoti e ribadisco che non si può dire a un capitalista “limita il tuo guadagno”. Un imprenditore deve produrre ricchezza e quanto più fa, più opera per il bene della società, compresi i credenti».

Propriamente, la Chiesa non dice al capitalista di limitare il suo guadagno, ma lo sollecita ad assumere come scopo il bene della società, non l’incremento del profitto. Si tratta però di comprendere che questa sollecitazione equivale in effetti alla proposta di limitare il guadagno. Anzi, equivale a qualcosa di molto più grave, come ora vedremo.

Il capitalismo è quello che è, perché ha come scopo l’incremento del profitto. Lo scopo di una certa azione definisce infatti l’essenza stessa di tale azione. Che cosa accade, dunque se si distoglie il capitalismo (l’azione capitalistica) dal suo scopo e lo si fa diventare – come appunto propone la Chiesa – un semplice mezzo per promuovere il bene della società? Accade che non solo il guadagno viene limitato (giacché il mezzo è subordinato allo scopo e quindi è sempre limitato dalla necessità di non limitare lo scopo), ma, addirittura, che il capitalismo non è più capitalismo. Muore. Sollecitando il capitalismo ad avere come scopo (s’intende come scopo primario) il bene della società e non il profitto, la Chiesa propone al capitalismo di morire. È inevitabile e comprensibile che il capitalista non ci stia (come è inevitabile e comprensibile che la Chiesa non voglia che lo scopo della società sia il profitto. Una società di questo genere non è una società cristiana).

Vado da tempo sostenendo questo teorema. Può darsi che Romiti se ne sia accorto. Ma anche in lui continua ad esser presente, sia pure in forma rovesciata, l’equivoco in cui incorre la dottrina sociale della Chiesa.

Tale dottrina crede che il capitalismo, ridotto a mezzo per la promozione del bene della società, sia ancora capitalismo.

A sua volta Romiti crede che quel “bene” della società, che è favorito dalla produzione capitalistica della ricchezza, sia ancora bene, e comunque sia ancora il bene che la Chiesa vuole promuovere. Dicendo che quanta più ricchezza il capitalismo produce, tanto più «opera per il bene della società», egli non vede – e anzi ritiene di poter parlare di “capitalismo etico” – che, per incrementare il più possibile la produzione della ricchezza, il capitalismo non deve avere come scopo primario il bene della società, e dunque, avendo come scopo il profitto, deve limitare la realizzazione del bene sociale – visto che tutto ciò che è subordinato allo scopo è in qualche modo limitato.

Nemmeno Romiti, dunque, si rende conto che il capitalismo è essenzialmente inconciliabile con la dottrina sociale della Chiesa e ancor più con il messaggio cristiano. Che è appunto quanto nemmeno la Chiesa riesce a vedere quando propone al capitalismo di diventare il mezzo per la realizzazione del bene sociale. L’instabilità della situazione politica italiana è in buona parte dovuta a questo equivoco, dove gli interlocutori intendono in modo del tutto diverso le stesse parole – «capitalismo», «bene della società».

Tale equivoco sta infatti alla base della convinzione che i movimenti politici cattolici possano allearsi alle forze capitalistiche. Onde accade, ad esempio, che Forza Italia voglia essere erede dei voti cattolici e, insieme, una forza capitalistica; e che movimenti cattolici si siano uniti a Forza Italia. L’intiepidirsi dei rapporti tra capitalismo italiano e governo Prodi ha alla propria radice quell’equivoco. A loro volta, il Pds e la sinistra italiana, pur intendendo il “bene della società” in modo diverso da come lo intende la Chiesa, vogliono che la società abbia come scopo primario il proprio bene, e non il profitto; e quindi ogni loro convergenza verso il capitalismo è un malinteso, un semplice flirt.

Nel “capitalismo etico” che oggi si vuole difendere, il bene della società – l’etica – diventa pertanto un sottoprodotto del profitto, che è il prodotto autentico. Se sono veramente tali, il capitalismo e il cattolicesimo non possono proporsi come scopo il profitto e insieme l’etica (l’efficienza e la solidarietà). Non si possono servire due padroni. Più prosaicamente, se uno che ama una donna (il profitto) incomincia ad amarne anche un’altra (l’etica) e dice di amarle tutte e due nello stesso modo, cioè come amava la prima, sbaglia; perché l’amore che provava per la prima si è alterato, è diventato un’altra cosa. Amato insieme all’etica, il “profitto” diventa qualcosa di diverso dal profitto capitalistico. E il capitalismo non è più capitalismo. Così come, amata insieme al profitto, l’“etica” (il bene della società) diventa qualcosa di diverso dall’etica vera e propria (quella che non ha rivali). E il cattolicesimo o i movimenti di sinistra non sono più cattolicesimo e movimenti di sinistra.

Dimodoché, quando i capitalisti vogliono un capitalismo etico, a volere che il capitalismo non sia più capitalismo non è più soltanto la Chiesa (o i movimenti di sinistra), ma anche i capitalisti. E quando i cattolici vogliono un cattolicesimo capitalistico, a volere che il cattolicesimo non sia più cattolicesimo non sono più soltanto i capitalisti, ma anche i cattolici. Bisogna difendere il capitalismo dai capitalisti, e il cattolicesimo dai cattolici.

* Sul «Corriere» di mercoledì scorso, 15 gennaio, ho riproposto la mia tesi dell’incompatibilità tra capitalismo e dottrina sociale della Chiesa. Il primo, infatti, ha come scopo primario il profitto; la seconda, invece, ritiene che il perseguimento del profitto sia solo un mezzo per promuovere il “bene comune” della società – il bene che dunque deve essere lo scopo primario dell’attività economica. Molte delle reazioni suscitate dal mio articolo (ad esempio quelle su «Avvenire», su «Il Sole-24 Ore» e su «la Repubblica») hanno una base comune: la tendenza dell’economia “moderna” ad affermare – a partire dalla teoria walrasiana dell’equilibrio, e a differenza di quella “classica” (Smith, Ricardo, Marx) – che lo scopo della produzione non è il profitto, ma il consumo, la soddisfazione dei bisogni (ma la cosa sembra rimessa in discussione da economisti come Schumpeter, von Neumann, Sraffa).

E in effetti è quanto accade nelle economie primitive, dove il produttore consuma il proprio prodotto. Ma si vuol forse sostenere, con questa tesi, che lo scopo primario degli imprenditori moderni che fabbricano vestiti, cibi e bevande sia quello di vestire gli ignudi, dar da mangiare agli affamati e da bere agli assetati? Che l’impresa capitalistica sia un’opera pia? Che il capitalista sia, in quanto capitalista, un buon Samaritano? Non penso che l’economia moderna sostenga queste facezie.

Lo so che alcuni capitalisti sono anche buoni Samaritani e altri anime prave. Così come alcuni di essi sono giocatori di golf e coniugati. Si tratta però di capire che non è per il fatto di essere capitalisti, non è in quanto sono capitalisti che essi sono buoni Samaritani, anime prave, giocatori di golf, o altro. Come un medico che va a pescare, va a pesca non in quanto egli sia un medico, ma in quanto egli è pescatore. In quanto capitalista, dunque, il capitalista ha come scopo primario il profitto. Come il pescatore la cattura dei pesci, il medico la guarigione dei malati, il buon Samaritano le opere pie. Lo scopo di un’azione, dicevo nel mio articolo, definisce l’azione. (Ma vedo che i miei critici replicano senza prendere in considerazione gli argomenti che adduco.)

Perseguendo il profitto – assumendolo cioè come scopo primario –, la produzione capitalistica soddisfa di certo i bisogni. (E molto di più dell’economia comunista.) Se il produttore non porta al mercato merci che soddisfano i bisogni della gente, è difficile che la gente le compri.

Ma, appunto, il venditore, in quanto venditore, non vende per soddisfare i bisogni del prossimo, ma soddisfa i bisogni del prossimo per vendere. Nel primo caso (dove non c’è un venditore, ma un benefattore), lo scopo è la soddisfazione dei bisogni; nel secondo è la vendita e il profitto.

Se si vuole, si può dire che anche nel secondo caso ci sia una “cooperazione” tra imprenditori e consumatori (come mi ricorda il solito sciocco di turno, che – questa volta su «Il Sole-24 Ore» – invece di discutere insulta). Ma i due casi sono essenzialmente diversi; anzi opposti. La tesi che lo scopo della produzione economica sia il consumo o la soddisfazione dei bisogni è dunque un infelice modo di dire che tale soddisfazione – e dunque il “bene comune” o la morale – è una conseguenza, un sottoprodotto della produzione del profitto – come la concimazione del terreno è il sottoprodotto della defecazione animale (non sembrando che gli animali defechino per concimare).

Il teologo ed economista americano J.R. Neuhaus, i proff. Cova e Lunati, il teologo G. Angelini, Baget Bozzo mi ricordano l’esistenza di numerose forme di produzione economica ispirate ai principi della morale cristiana. Lo sapevo anch’io. Se sono quello che dicono di essere e hanno come scopo il “bene comune”, non sono dunque intraprese capitalistiche, ma si servono del capitalismo. Come non è cristiana la produzione economica che si serva della morale cristiana per migliorare la produttività dell’azienda. (Aggiungo che il capitalismo di cui parlo non è un’“essenza” astratta, separata dalla storia, come mi obbietta G. Angelini, ma è un fenomeno storico.)

La scienza economica si serve continuamente dei concetti di “mezzo” e “fine” (o “scopo”), ma fatica a comprendere il senso autentico del loro rapporto. Accade quindi che alcuni economisti chiamino “acrobazie dialettiche” le mie argomentazioni – che certamente non coincidono con le ovvietà da essi frequentate relativamente a quel rapporto. Molte cose, mi ripete Giancarlo Lunati («la Repubblica», 19 gennaio 1998), esistono tra cielo e terra che i filosofi non riescono a immaginare – ma che lui conosce naturalmente benissimo (e che sono appunto le ovvietà di cui sopra).

Ad esempio mi ricorda che esistono tante forme di capitalismo. Ma – gli osservo – se ognuna di esse è chiamata (anche da lui) “capitalismo”, è perché hanno tutte qualcosa in comune – che è presente anche nel discorso di questo mio critico, quando ad esempio egli scrive tranquillamente: «Il sistema capitalistico ha in sé un’etica profonda»; oppure: «Il profitto non va demonizzato».

Comunque, non sono io a demonizzarlo, ma è la Chiesa, e nel modo più esplicito: qualora esso sia assunto come scopo della produzione economica e non come mezzo per realizzare il “bene comune”.

Oltre a certi economisti, sono anche certi teologi a non capire quello che la Chiesa intende sostenere. Il capitalismo, per la Chiesa, è “etico”, solo se è mezzo per realizzare il “bene comune”. Quindi è “etico” quando non ha più come scopo il profitto, cioè quando non è più capitalismo.

Giacché, ripeto, se a un’azione viene assegnato uno scopo diverso da quello a cui era ordinata, l’azione cambia senso, natura, costituzione; e un’impresa che produca per distribuire equamente o cristianamente ricchezze agisce in modo essenzialmente diverso da un’impresa che produca per l’incremento del profitto: anche se apparentemente essa sembra mettere in atto le stesse procedure tecnologiche, amministrative e organizzative di questo secondo tipo d’impresa. Invito a riflettere con attenzione questa struttura concettuale – che indubbiamente può risultare dura per certi denti.

Infine, mi si obbietta («Il Sole-24 Ore») che mentre nel saccheggio il bottino è «lo scopo immediato dell’azione», «nel mercato, il profitto non è lo scopo immediato dell’imprenditore». Ma, suvvia, non sto parlando di “scopo immediato”, ma di “scopo primario” dell’azione; quello cioè che “sta in cima” ai pensieri di chi agisce, e per realizzare il quale bisogna realizzare molti e molti scopi intermedi; e che dunque non è “immediato”, ma è il più mediato degli scopi che chi agisce si propone di realizzare.

Anche la Chiesa, come la tecnica, usa mezzi per realizzare scopi. Vuole anche usare la ricchezza del capitalismo per sfamare i poveri. Ciononostante diluisce la durezza del messaggio di Cristo (cfr. E.S., La bilancia, cit.; Il declino del capitalismo, cit.; e Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli, 1995), perché Gesù dice al giovane ricco di dare le proprie ricchezze ai poveri, mentre la Chiesa non arriva a tanto: non dice ai popoli ricchi di dare le loro ricchezze a quelli poveri. Vuole dimostrare di avere buon senso. Ma, insieme, essa chiede sempre troppo ai ricchi. Ritiene che il capitalismo possa essere usato come strumento per la realizzazione del “bene comune”. Ma è impossibile accettare il capitalismo sperando di piegarne la logica a fini diversi da quelli che gli son propri.

Se il guadagno è un mezzo, viene limitato. Se il denaro serve a costruire una casa (ossia è un mezzo), lo si spende, cioè viene limitata la sua quantità disponibile, affinché non resti limitato lo scopo, cioè la solidità, la comodità e la bellezza della casa. Se invece la costruzione di una casa è un mezzo per fare denaro – come accade nelle imprese di costruzioni –, allora viene limitata la solidità, la comodità e la bellezza della casa, affinché non resti limitato l’incremento del profitto. In ogni caso, il mezzo viene limitato, affinché lo scopo non lo sia. Appunto per questo il capitalismo non vuole che il profitto divenga un mezzo.

Oggi il cristianesimo deve servirsi del capitale per realizzare il bene comune. E l’Apparato scientifico-tecnologico deve a sua volta servirsi del capitale per diventare sempre più forte. Ma cambia tutto, se qualcosa, da fine, diventa mezzo. Cambia il qualcosa e cambia ciò che rispetto ad esso è mezzo o fine. Cambia tutto se è il capitalismo a servirsi della tecnica per incrementare il profitto, o è la tecnica a servirsi del capitalismo per incrementare la propria potenza. Cambia tutto, se è il cristianesimo o la democrazia a servirsi del capitalismo, o se è il capitalismo a servirsi del cristianesimo o della democrazia, o dell’etica.

Il “capitalismo etico” è una contraddizione in cui si vogliono servire due padroni; oppure i due padroni se ne vanno in soffitta e al loro posto subentrano un “capitalismo” che non è capitalismo e un’“etica” che non è etica. Il “capitalismo etico” può essere anche un paravento. Qualche tempo fa Romiti ha detto che piuttosto che entrare in Europa con troppi disoccupati è meglio creare posti di lavoro e rimandare l’ingresso dell’Italia in Europa.

Ma questo non è un discorso etico. Soprattutto se lo si mette insieme all’altro discorso che si rifiuta di ascoltare la proposta cattolica di limitare i guadagni dei capitalisti. La posizione di certa industria italiana intorno all’ingresso del nostro Paese in Europa può essere intesa (1997) (un po’ brutalmente) così: non impoveriamo troppo la gente per entrare in Europa, perché altrimenti non compera più le automobili e gli altri prodotti dell’industria italiana. Aspettiamo dunque ad entrare in Europa.

Le imprese possono replicare dicendo di avere a cuore sia i guadagni, sia il benessere della gente. Ma così ritorniamo al punto precedente, cioè a quel Tizio cui stanno a cuore due donne e che crede di poter continuare ad amare nello stesso modo quella che ha conosciuto per prima, e la seconda come la prima. Volere, insieme, il vero e proprio benessere della gente e il vero e proprio benessere dell’impresa – “vero e proprio” nel senso che non ha rivali, non deve dividere con nient’altro il proprio esser scopo –, volere l’uno e l’altro in questo modo, è impossibile, perché, scontrandosi, ognuno dei due scopi tende a sottomettere l’altro. E, allora, altro è volere che la gente non impoverisca troppo, affinché abbia i mezzi per comprare i prodotti dell’industria; altro è volere che la gente li comperi affinché non riduca troppo il suo tenore di vita, cioè non viva poveramente.

Oppure si riesce davvero a tenere sullo stesso piano i due antagonisti che vorrebbero essere entrambi padroni incontrastati; ma allora essi cambiano, diventano qualcosa di diverso, e il vero padrone diventa la loro unione e sintesi, in cui essi non sono più quello che erano come antagonisti e protagonisti autentici. Nel nostro caso: non c’è più capitalismo, non c’è più etica; sono rimaste soltanto le parole con le quali li si indica e che vengono usate per indicare qualcosa che ormai è completamente diverso.

La Chiesa, comunque, esige troppo dal capitalismo; e, insieme, troppo poco. (Non chiede ai popoli ricchi quello che Gesù chiede al giovane ricco.) Forse, per compensare lo sconcerto che il suo discorso sul profitto può suscitare.

* Articolo pubblicato con alcune modifiche sul «Corriere della Sera» del 19 giugno 1996.

* Articolo pubblicato sul «Corriere della Sera» del 15 gennaio 1997.