La relazione tra dominanti e dominati è presente lungo tutta la storia dell’uomo. Né sembra trovarsi oggi al tramonto. Col pensiero greco, tuttavia, essa acquista un significato radicalmente nuovo: l’esercizio del dominio si propone di raggiungere i propri scopi facendosi guidare non dalle abitudini conoscitive (religiose, sociali, ecc.) o dagli impulsi egoistici, ma da un sapere che sia capace, svelando il vero senso del mondo, di re-stare fermo, imponendosi su ogni modo di pensare e di sentire che voglia scuoterlo e abbatterlo. Il pensiero greco ha chiamato questo sapere epistéme – una espressione che viene solitamente tradotta con la parola “scienza”, ma che alla lettera significa lo “stare” (-stéme) “sopra” (epí) le forze che vorrebbero smentire e distruggere ciò che sta e che è il vero senso del mondo.
Se l’epistéme è il luogo in cui si manifesta la verità (la necessità, incontrovertibilità, definitività della verità), la pólis è il luogo dove l’esercizio del dominio è guidato dalla verità dell’epistéme. La “politica” è appunto questa forma specifica e inaudita di relazione tra dominanti e dominati. Facendosi guidare dalla verità dell’epistéme, il dominio politico stabilisce, rispetto alla dimensione dominata, quello stesso rapporto che lo star-sopra, in cui l’epistéme consiste, stabilisce rispetto alla dimensione su cui esso riesce a stare. Vero e stabile è l’agire politico guidato dall’epistéme. La politica è figlia primogenita della filosofia: la cura per la verità, in cui la filosofia consiste, diventa volontà che la vita umana, innanzitutto quella sociale, sia guidata dalla verità. La storia della tradizione occidentale coincide con questo significato essenziale della politica.
Ma a partire dalla prima metà del secolo scorso il pensiero dell’Occidente si rende conto, in modo sempre più perentorio, che la verità dell’epistéme è impossibile, non può riuscire ad imporsi sulla vita e sulle forze che vogliono travolgerla, e il suo sovra-stare è violenza. È l’episodio decisivo della nostra storia. La stessa “libertà” dell’uomo moderno, nel suo significato più profondo, è la vicenda della liberazione dell’uomo moderno da ogni ordinamento stabile che la verità dell’epistéme vorrebbe imporre. Ma raramente si riesce a cogliere il carattere decisivo di questo episodio. Ne è una prova il fatto che la completa indifferenza, con cui è spesso accolto il discorso sulla morte della verità, si unisce altrettanto spesso al più vivo stupore di fronte alla cosiddetta “crisi della politica”. Si parla allora di “degenerazione” della politica, e quindi di crisi della “cattiva” politica. Si crede di aver a che fare con una patologia della politica, e non si comprende che, con la morte della verità, la morte della politica non è un fatto patologico, ma fisiologico – e planetario.
Si dice anche che è in crisi la conduzione “ideologica” del potere politico; e non si comprende che l’“ideologia” è il modo in cui le élites politiche riescono a porsi in rapporto alla verità dell’epistéme, sia pure percependola nelle proiezioni deformate e ridotte dalle quali si fanno guidare. La deformazione lascia però sopravvivere le proprietà formali della verità epistemica (incontrovertibilità, definitività, necessità); sì che ancora oggi il politico tradizionale crede di possedere la verità anche intorno alle questioni più irrilevanti, e non presenta i propri programmi come tentativi, ipotesi, congetture falsificabili, “verità” provvisorie, ossia con i tratti che oggi determinano il linguaggio scientifico, che pure gode del massimo credito presso la gente a cui il politico si rivolge.
La crisi della politica va di pari passo con l’avvento della democrazia parlamentare. L’ordinamento democratico è la configurazione assunta dalla politica dopo il tramonto della verità dell’epistéme. Per questo lato, sembra che non si possa parlare di morte della politica in quanto politica, ma della politica in quanto figlia della tradizione filosofica. Il concetto moderno di democrazia, che in buona parte coincide con la rappresentazione che hanno di sé le democrazie anglosassoni, vede nella democrazia un mezzo per regolare le decisioni relative alla vita associata, ed esclude ogni volontà di imporre alla società il contenuto dottrinale di una certa decisione indipendentemente dal criterio della maggioranza. La democrazia moderna prescinde, appunto, dalla verità. Non in senso generico: prescinde dalla verità dell’epistéme. Non vede in quest’ultima nulla di così forte e imprescindibile da dover essere realizzato nella vita sociale. Anzi, vede nella persuasione di possedere la verità la radice della violenza. La democrazia come semplice procedura formale. Appunto per questo la Chiesa cattolica – essenzialmente legata alla concezione tradizionale della politica (giacché per la Chiesa la verità epistemica è il “preambolo” che si apre e si completa nella verità rivelata) – rifiuta nettamente quella “libertà senza verità” che è propria della democrazia moderna.
A differenza della forma epistemico-ideologica della politica, la democrazia, come procedura formale, non ha scopi esterni al suo agire. L’unico scopo che le compete per se stessa è il proprio funzionamento ottimale, la propria capacità di regolare, senza ricorso alla violenza (ossia ricorrendovi solo in sede di sanzione delle trasgressioni delle sue norme), la realizzazione degli scopi che i soggetti politici di volta in volta si propongono.
Per i soggetti politici tradizionali esiste uno scopo comune a tutti i membri della società: è il “bene comune”, ossia ciò che appare come bene dal punto di vista della conoscenza della verità – e che non è la semplice sopravvivenza della società, ma quella forma di sopravvivenza in cui consiste la “vita buona”, la vita veramente buona. Ma col tramonto della verità vanno spegnendosi anche le diverse forme di volontà di una vita veramente buona (anche la volontà che ieri animava l’Unione Sovietica e oggi permane nella Chiesa cattolica), e lo scopo e il bene comune della politica democratica vengono a identificarsi con la semplice sopravvivenza della società o col rafforzamento delle condizioni che la rendono possibile. A sua volta, la volontà di sopravvivenza sociale non è sostanzialmente altro, nella democrazia, che la volontà di perpetuare il funzionamento ottimale della procedura formale democratica (con il fondamentale presupposto che tale procedura implica, cioè la libertà dell’individuo umano, e la dignità che l’individuo umano possiede in quanto libero). Al di là di questo residuo formale del bene e dello scopo comune, la democrazia moderna è la frantumazione di ogni bene e di ogni scopo comune. Nessuno scopo (diverso da quello che siano realizzati gli scopi voluti dalla maggioranza) ha per se stesso la capacità di presentarsi come il vero bene comune; quindi restano in campo solamente i diversi scopi particolari tra loro equivalenti e in conflitto e la cui realizzazione non è imputabile al loro valore intrinseco, ma al fatto di diventare gli scopi della maggioranza. Contrariamente a quanto a volte si pensa, a partire da Tocqueville, la democrazia moderna non è l’antidoto contro la frantumazione degli scopi e l’atomismo individualistico, ma li favorisce e ne diventa anzi la condizione. Ma non è più possibile respingere questi esiti sulla base del senso tradizionale della politica, della morale, della verità.
Ciononostante, anche la democrazia moderna sta avviandosi verso il tramonto. E anche in questo caso la crisi non è dovuta alla degenerazione delle procedure democratiche, ma investe la democrazia in quanto tale.
Ha avuto molta fortuna l’affermazione di Max Weber che il gruppo politico non può essere definito dallo scopo ma dal mezzo di cui esso si serve: «l’uso della forza» (Economia e società, cap. I, § 17). La giustificazione di questa affermazione è, in Weber, che non c’è scopo che i gruppi politici non si siano talvolta proposti di realizzare, e che non c’è uno scopo che tutti i gruppi politici abbiano perseguito. Ma è una giustificazione apparente.
Innanzitutto, qualsiasi soggetto di azione si propone via via qualsiasi scopo. Come già si è richiamato, Aristotele direbbe che, certo, un medico può proporsi di costruire una casa e può proporsi infinite altre cose diverse dalla cura degli ammalati, ma se le propone non in quanto egli è medico. In quanto medico, egli si propone un unico scopo: la guarigione del malato. Sarebbe quindi un errore affermare che, poiché egli può proporsi qualsiasi scopo, si debba definire la sua attività indicando non lo scopo di essa, ma il mezzo per esercitarla.
In effetti, ogni gruppo politico vuole realizzare e perpetuare un certo ordinamento sociale, e il gruppo resta definito dal contenuto di questo ordinamento (prima guidato e poi non più guidato, come si è detto, dalla verità dell’epistéme). Lo riconosce lo stesso Weber, quando scrive (ibid.) che un gruppo è politico «nella misura in cui la sua sussistenza e la validità dei suoi ordinamenti… vengono garantite continuativamente mediante l’impiego e la minaccia di una coercizione fisica» (il cui monopolio è “legittimo” quando il gruppo politico è lo “Stato”). Dove è chiaro che lo scopo di ogni gruppo politico è visto appunto nella sua «sussistenza» e nella «validità dei suoi ordinamenti» specifici. Il mezzo, «mediante l’impiego e la minaccia» del quale tale scopo è «garantito», è la «coercizione fisica», cioè la forza, la potenza; ma questo non significa che la definizione dell’agire politico escluda il riferimento allo scopo, ma che la definizione dell’agire richiede, oltre allo scopo, anche il mezzo, quando l’uso di quest’ultimo è di esclusiva spettanza di tale agire.
Si tratta a questo punto di comprendere che per realizzare i propri scopi ogni gruppo politico, come ogni altro gruppo di potere, ha interesse a conservare la forza di cui dispone e ad aumentarla per prevalere sia sui propri dominati sia sui gruppi politici antagonisti. Questo interesse è divenuto straordinariamente e drammaticamente visibile nella lotta che le democrazie occidentali hanno condotto contro il socialismo reale; e tale interesse permane anche oggi, per la necessità del mondo democratico-capitalistico di arginare la pressione esercitata su di esso dai popoli non privilegiati.
Ma, da tempo, la forza vincente, di cui può disporre un gruppo politico (e un qualsiasi altro gruppo di potere, come l’impresa capitalistica) per realizzare i propri scopi, è un prodotto della tecnica guidata dalla scienza moderna. La tecnica è il mezzo di cui intende oggi servirsi ogni gruppo politico, dunque anche le società democratiche del nostro tempo, per realizzare il proprio scopo. Ciò significa che anche la democrazia reale – ossia il modo concreto in cui oggi esiste la democrazia come procedura formale – è ormai da tempo costretta a non intralciare la perpetuazione e il potenziamento della forza tecnica di cui essa fa uso. È cioè costretta a subordinare il proprio scopo alla tecnica; ossia ad assumere come scopo il funzionamento ottimale della tecnica; e dunque a non essere più democrazia (giacché un qualsiasi agire è ciò che esso è in forza dello scopo a cui esso è ordinato).
La volontà di esercitare il potere facendosi guidare dalla “verità” del marxismo ha intralciato e ostacolato, nell’Unione Sovietica, la perpetuazione e l’incremento della forza tecnica che avrebbe dovuto realizzare la società veramente giusta. La “verità” del marxismo ha quindi dovuto farsi da parte per non ostacolare la forza che avrebbe dovuto realizzarla. Questa emarginazione della “verità”, da un lato, presuppone un atteggiamento che non vede più nel marxismo una verità dell’epistéme e che in generale esclude la possibilità stessa di una verità siffatta; dall’altro lato significa che la forza della tecnica si è trasformata da mezzo in scopo. È proprio perché un progetto politico non appare più come verità che esso si lascia subordinare al mezzo da cui sarebbe dovuto essere realizzato, e che pertanto, da mezzo, diventa lo scopo del proprio scopo.
Quanto è avvenuto all’Est, nel rapporto tra “verità” marxista e tecnica, sta riproponendosi all’Ovest in relazione al rapporto tra democrazia e tecnica. La congruenza tra le procedure quantitative della democrazia formale e i criteri della scienza e della tecnica tende a diventare sempre più irrilevante rispetto agli ostacoli che quelle procedure pongono al funzionamento ottimale dell’apparato tecnologico. E il contesto conflittuale in cui ancora oggi si trova la democrazia reale fa sì che anche quest’ultima debba assumere come scopo il potenziamento del mezzo dal quale dovrebbe essere realizzata.
Anche Weber, di passaggio e in astratto (ibid.), riconosce che il mezzo di un gruppo politico «in certe circostanze è diventato scopo di per sé». Ma egli non riesce a vedere che questa trasformazione del mezzo in scopo riguarda tutti i gruppi politici che oggi intendono servirsi come mezzo della tecnica; e che se un agire – dunque anche quello di un gruppo politico – assume come scopo un contenuto diverso dallo scopo iniziale, tale agire cessa di essere ciò che esso è, tramonta e muore. Come è destinata a tramontare e a morire anche la democrazia moderna, nella misura in cui essa è costretta, per sopravvivere, ad assumere come scopo il funzionamento ottimale dell’apparato tecnico di cui si illude di servirsi.
La crisi della politica non riguarda dunque soltanto la forma tradizionale, ma anche la forma contemporanea della politica. Riguarda anche gli altri grandi gruppi di potere che, come il capitalismo e la Chiesa cattolica, sono usciti vincenti dalla lotta contro il socialismo reale. Tocqueville ha mostrato per la prima volta il “pericolo” che la democrazia, indebolita dalla frammentazione degli scopi, abbia a slittare verso il «potere immenso e tutelare» e il dispotismo «morbido» che Weber ha chiamato «gabbia di ferro». La tecnica, come scopo dei gruppi di potere, quindi anche della democrazia, è certamente organizzazione tecnologica del potere e della società, ossia è «tecnocrazia».
Ma le connotazioni negative della tecnica – che si esprimono nel modo in cui da Tocqueville a Weber, da Marx a Simone Weil ci si riferisce alla “macchina” statale – presuppongono la validità della pratica politica tradizionale. E soprattutto credono di poter comprendere (è anche il caso di Heidegger) che cosa sia la “tecnica” e la sua “disumanità”, e quindi l’“umanità” dell’uomo, mantenendosi all’interno dell’orizzonte in cui si mostra dapprima l’evocazione e poi la distruzione della verità dell’epistéme. Sino a che quei concetti rimangono avvolti dall’oscurità, rimane indeterminato anche il senso autentico del tramonto della politica nella tecnica. Una conferma, questa, dell’importanza centrale che ha oggi per noi il problema della tecnica.
Nota – «Storia della democrazia e storia della ragione si danno la mano, procedono insieme.» Leggiamo questa affermazione in Demokratía. Origini di un’idea (Laterza, 1995), di Domenico Musti. Un libro importante, molto utile, dove l’antico e il moderno dialogano continuamente. Ma dove ciò che vien lasciato ai margini e infine del tutto evitato è proprio l’approfondimento del senso di quell’affermazione, peraltro decisiva.
L’autore, certo, illumina gli stretti rapporti, nel mondo greco, tra procedure democratiche e procedure matematiche. Si pensi alla centralità, nella vita democratica, dei meccanismi quantificanti della maggioranza-minoranza, dei rendiconti e dei bilanci, dell’alternanza regolare nell’esercizio del potere. Musti ricorda anche l’«astrazione dalla singola personalità» e la «trasparenza». Razionalità matematica.
Ma o si sostiene che il carattere specifico della democrazia greca si unisce a un senso generico della quantificazione (a un senso esistente cioè anche prima e al di fuori della cultura greca), e allora storia della democrazia e storia della ragione non procedono insieme; oppure non ci si può dimenticare che la ragione dei Greci è innanzitutto ragione filosofica; ossia che il pensiero geometrico-matematico dei Greci sorge all’interno del loro pensiero filosofico: all’interno della volontà di aprire e stabilire la dimensione originariamente evidente della “verità”, su cui fondare ogni sapere e ogni agire dell’uomo.
È appunto il rapporto della democrazia a questa suprema forma di razionalità, in cui la filosofia consiste, ad essere lasciato da parte nel libro di Musti. E non si tratta di un rapporto accidentale, perché la “politica” fa la sua comparsa, nella storia dell’Occidente, come volontà di conformare l’agire della pólis – cioè l’agire dello Stato, l’agire “comune” – al senso inaudito della verità, portato per la prima volta alla luce dalla filosofia. Agire “politicamente” (e “eticamente”) significa, per i Greci, agire alla luce della verità. L’influenza di Anassagora su Pericle (che occupa la posizione centrale nel libro di Musti) è emblematica. La libertà – dice Anassagora – scaturisce dalla filosofia (theoría). Noi «filosofiamo», dice Pericle al popolo.
Sin dall’inizio la filosofia è il grembo di ciò che, a partire dai Greci, chiamiamo “politica”, e dunque anche della grande forma di politica che è la democrazia. Non solo la filosofia di Pericle sta più in alto dell’apprezzamento della “quotidianità”, del lavoro e della gente comune a cui Musti vorrebbe ridurla; ma già Eschilo (come ho mostrato nel mio libro Il giogo. Alle origini della ragione: Eschilo, cit.) è il filosofo che indica esplicitamente e potentemente l’essenziale dipendenza della democrazia dalla verità che si mostra nel “culmine della sapienza”, ossia in ciò che verrà chiamato “filosofia”.
Il libro di Musti intende illustrare la “teoria democratica della democrazia” (e ne vede il principale costruttore in Pericle). Ma i Greci non hanno una “teoria democratica”, bensì una “teoria filosofica” della democrazia. La separazione, praticata anche da questo libro, tra “teoria democratica” e “teoria filosofica” della democrazia (e la conseguente specializzazione politologica) è tutta e propria del nostro tempo, che da un lato vuol liquidare la tradizione filosofica (e religiosa), dall’altro vuol salvare la democrazia, concepita come semplice procedura calcolante, totalmente neutrale rispetto alla “verità” delle forze sociali da essa regolate.
Appunto in quella separazione si esprime la fondamentale differenza tra la democrazia dei Greci (che sopravvive ancora in forme come la concezione cristiana della vita pubblica) e la democrazia del nostro tempo.