Stupisce oggi, o preoccupa, che la sinistra italiana abbia adottato i principi e le conseguenze più avanzate dell’economia di mercato e del liberalismo, i principi del proprio tradizionale avversario. Si tende a vedere, in questo, un’anomalia ancora una volta tutta italiana. Ma è come stupirsi del fatto che l’acqua di un fiume, giunta a metà del percorso, prosegua verso il mare – ed è come credere che ai fiumi italiani càpiti qualcosa di diverso da quelli d’Oltralpe.
Il fiume corre verso il mare anche dopo metà percorso, perché il suo letto ha un’inclinazione. Si tratta di non dimenticare l’inclinazione che porta dalle origini marxiste della sinistra europea degli ultimi centocinquant’anni alla sua configurazione attuale.
Un’inclinazione che appartiene peraltro a un più ampio piano inclinato: al rifiuto sempre più perentorio, da parte della cultura occidentale dell’ultimo secolo e mezzo, della conoscibilità e dell’esistenza di ogni verità definitiva e incontrovertibile, da cui lo sviluppo storico sia sostanzialmente condizionato e guidato, il rifiuto che porta la nostra civiltà dalla sapienza filosofico-religiosa tradizionale alla razionalità scientifica, e alle forme filosofiche che – anche quando non se ne rendono conto o addirittura lo escludono – fanno da battistrada alla scienza e alla tecnica.
Il piano inclinato a cui stiamo riferendoci non è un processo semplicemente “culturale”: è il cuore, l’essenza della trasformazione a cui vanno incontro le forme concrete, le opere, le istituzioni della civiltà occidentale.
La filosofia di Marx – e il modo in cui essa, più o meno travisata, è divenuta la struttura portante dell’Unione Sovietica – è appunto l’ultimo tentativo della sapienza filosofica tradizionale di condizionare e guidare la storia sulla base di una prospettiva teorica che si presenta come verità definitiva e incontrovertibile. (L’ultimo tentativo. O il penultimo – l’altro essendo quello della Chiesa cattolica, che ancora oggi tiene unito il messaggio vetero-neotestamentario alla ragione filosofica della tradizione occidentale.) Ciò non esclude che la stessa filosofia di Marx abbia potentemente contribuito a inclinare quel piano lungo il quale essa stessa sarebbe scivolata.
Tra la fine del secolo scorso e i primi decenni del nostro nasce, in opposizione al comunismo rivoluzionario marxista, la socialdemocrazia. Lo scopo del comunismo marxista e quello della socialdemocrazia sono identici: il superamento del capitalismo. Ma la socialdemocrazia intende raggiungerlo non mediante la rivoluzione, basata sul presupposto che il crollo del capitalismo sia la conseguenza di una legge naturale ineludibile, ma mediante un socialismo “pratico” che adotta le procedure della democrazia parlamentare, lascia libero corso all’economia di mercato e “riforma” il sistema dall’interno. Si abbandona la “rivoluzione”, che è un atto razionale-filosofico totalizzante, per l’ingegneria sociale che affronta diacronicamente una serie di problemi settoriali. La scienza è specializzazione.
Con la socialdemocrazia incomincia cioè quel processo di adozione, da parte della sinistra, dei principi dei suoi avversari – e innanzitutto dei principi della democrazia parlamentare –, che oggi si prolunga nel comportamento della sinistra italiana e non solo italiana, e che ieri si esprimeva nell’adesione del Pci alla democrazia parlamentare e all’Alleanza Atlantica. Un’adesione, quest’ultima, che in parte era dovuta all’impossibilità di avviare la rivoluzione anticapitalistica nei Paesi appartenenti alla sfera di influenza degli Usa; ma che da ultimo era uno degli effetti della trasformazione di fondo che stava e sta coinvolgendo l’intero Pianeta.
La socialdemocrazia – come appare dagli scritti del suo maggior teorico, Eduard Bernstein – abbandona la filosofia marxista in nome della scienza moderna, intesa come conoscenza rigorosa dei “fatti” e dunque esente dalla tentazione filosofico-metafisica di stravolgerli facendoli rientrare a forza in una teoria che ha la pretesa di essere immodificabile. La questione decisiva – che qui non può essere affrontata ma che sta sempre al centro degli scritti in cui considero il senso della storia dell’Occidente – riguarda il fondamento della transizione storica che conduce al tramonto della sapienza tradizionale e alla dominazione della scienza e della tecnica.
Qui si può dire che l’adozione della democrazia da parte delle sinistre europee è un processo congruente al loro distacco dalla filosofia marxista e all’alleanza con la scienza moderna. Dalle origini della socialdemocrazia tale processo conduce alla progressiva socialdemocratizzazione dei partiti comunisti europei, e soprattutto di quello italiano, nella seconda metà del nostro secolo. Non si comprende nulla dell’evoluzione delle sinistre e dello stesso crollo del socialismo reale se non si sa guardare il grande piano inclinato, o la potenza dell’inclinazione che dal nostro passato conduce inevitabilmente al tempo della scienza e della tecnica.
Anche la democrazia moderna, infatti, come la scienza e la tecnica, esclude che si possa organizzare la società sulla base di una verità assoluta e incontrovertibile. Come la democrazia rifiuta l’assolutismo filosofico che sta alla base del totalitarismo politico, e non avendo alcuna verità assoluta da proporre o da imporre è un semplice metodo per evitare la violenza nelle decisioni politiche e dunque per salvaguardare la libertà dei cittadini; così la scienza moderna non impone agli eventi alcun modello teorico assoluto, ma è metodo sperimentale che predispone le condizioni affinché siano i fatti e gli eventi dell’esperienza a stabilire le regolarità alle quali attenersi fino a che non siano smentite dall’esperienza – analogamente alla democrazia, che lascia alla maggioranza di fatto formatasi il compito di stabilire le regole sociali che durano sino a che non siano rifiutate da una maggioranza diversa (ossia da una diversa esperienza elettorale).
Anche l’adozione dell’economia di mercato, da parte delle sinistre, è congruente al processo qui sopra indicato, perché il capitalismo (nonostante le oscillazioni che in proposito si verificano) è sempre meno un contenuto teorico che intenda avere un valore assoluto, e sempre più, a sua volta, un metodo per l’incremento della ricchezza; sempre meno qualcosa di differenziato dalla tecnologia di cui si serve e sempre più una procedura dove non è tanto il capitale a servirsi della tecnica, quanto la tecnica a servirsi del capitale. La pianificazione economica, propria del socialismo reale, sta all’economia di mercato così come la verità assoluta della tradizione filosofica sta alle teorie ipotetiche e falsificabili della scienza moderna e delle sue applicazioni tecnologiche.
Il passo innanzi compiuto dalla sinistra italiana contemporanea, nell’adozione (inevitabile) dei principi e delle forme di razionalità che sono propri dei suoi avversari tradizionali, è costituito dalla fuoriuscita della sinistra da quella stessa prospettiva socialdemocratica che ha caratterizzato anche la storia del Pci nel secondo dopoguerra. La socialdemocrazia, infatti, adotta sì la democrazia parlamentare; ma solo provvisoriamente adotta l’economia di mercato e il liberalismo economico: il suo scopo rimane pur sempre il superamento del capitalismo, considerato come errore assoluto. Pertanto i suoi metodi appartengono al presente; il suo scopo al passato; a quella concezione assolutistica della verità e della società, che consente di scorgere errori assoluti e che è destinata al tramonto. Il fatto apparentemente sorprendente che la nostra sinistra si presenti in modo sempre più esplicito nelle vesti del suo avversario è in effetti il processo in cui essa si rende conto della necessità di liberarsi anche del progetto socialdemocratico di superamento del capitalismo.
Tutto questo non significa che sia venuto meno ogni criterio di distinzione tra “destra” e “sinistra”. Non si può nemmeno dire che il criterio debba essere quello indicato da N. Bobbio, cioè la contrapposizione di eguaglianza e diseguaglianza tra gli uomini: la sinistra tenderebbe a rendere sempre più eguali i diseguali, mentre la destra considererebbe insuperabile la diseguaglianza, considerata nelle sue diverse forme.
L’ideale della libertà, invece, non consente per Bobbio di distinguere la “destra” dalla “sinistra”, perché vi sono libertari e autoritari sia a destra sia a sinistra, sia tra gli inegualitari sia tra gli egualitari (Destra e sinistra, Donzelli, 1994). E aggiunge che «il criterio della libertà serve a distinguere l’universo politico non tanto rispetto ai fini quanto rispetto ai mezzi, o al metodo, da impiegare per raggiungere i fini: si riferisce, cioè, all’accettazione o al rifiuto del metodo democratico».
La tematica dei mezzi e dei fini, che compare anche nel discorso di Bobbio, impone – come sappiamo – certe implicazioni che non possono essere sottovalutate o accantonate. Che il fine sia l’eguaglianza e la libertà il mezzo per realizzarla, dà luogo a qualcosa di completamente diverso dalla situazione in cui il fine è la libertà e l’eguaglianza è invece un mezzo per realizzarla. Sto da tempo richiamando l’attenzione sul fatto analogo che porre la solidarietà come fine e l’efficienza (il profitto) come mezzo è cosa del tutto diversa dal porre come fine l’efficienza e come mezzo la solidarietà.
Poiché il mezzo è inevitabilmente subordinato al fine, se il fine è l’eguaglianza, allora la libertà, come mezzo, o metodo impiegato per raggiungere il fine, è subordinata all’eguaglianza, e i mezzi, in genere, sono logorabili e sostituibili. Ed è molto difficile sostenere che la libertà non è un mezzo logorabile e sostituibile.
Pensare che la libertà sia un mezzo è cioè un arretramento rispetto al concetto moderno di democrazia. È vero che la democrazia moderna è metodo e quindi mezzo per utilizzare le decisioni politiche, ma lo scopo ultimo della democrazia, oggi, non è la realizzazione di questo o quel progetto politico, ma che sia salvaguardato il metodo democratico in base al quale vengano realizzati i progetti politici; sì che il metodo (il mezzo) diventa lo scopo ultimo. Questo scopo, poi, diventa a sua volta mezzo, o assume come scopo qualcosa di diverso, che però non è il progetto politico, ma la potenza dello strumento tecnologico di cui la democrazia moderna si serve per salvaguardare il proprio esser metodo.
Kant, invece, anticipa e prepara il concetto moderno di democrazia, perché per lui la libertà non può mai essere un mezzo, ma è il fine della società umana – e non semplicemente di questo o quel movimento sociale, giacché il porla come fine è un dovere che è legato al dovere supremo della coscienza morale.
Come fine della società, la libertà non è tuttavia «senza limiti, ma è la massima libertà compatibile con la libertà altrui». Devo volere la libertà che mi si presenti come la libertà che ogni essere razionale deve possedere. E questa non può essere una libertà “senza limiti”, “selvaggia”. Per Kant la libertà richiede quindi l’eguaglianza di fronte alla legge che stabilisce i limiti della libertà di ciascuno. Ma l’eguaglianza, per Kant, non è il fine della società: entro certi limiti è una condizione senza di cui, certamente, il fine non potrebbe realizzarsi, ma che non vale incondizionatamente. La libertà è il fine, l’eguaglianza è il mezzo. Per Kant, cioè, mentre si deve dire che, purché la libertà sia, l’eguaglianza può subire drastiche riduzioni (ferma restando l’eguaglianza di fronte alla legge), non si può invece dire che, purché l’eguaglianza sia, la libertà (in quanto libertà di ogni individuo umano) possa subire riduzioni, oltre la riduzione essenziale per la quale la libertà di ognuno dev’essere compatibile con la libertà di ogni altro.
Kant afferma infatti che l’eguaglianza degli uomini di fronte alla legge – e tale eguaglianza è la stessa libertà autentica – «può perfettamente coesistere con la massima disuguaglianza nella quantità e nel grado del loro possesso» – ossia dei beni posseduti –, «sia che si tratti di superiorità fisica o spirituale degli uni rispetto agli altri, sia si tratti di diseguaglianza esteriore di beni di fortuna». Ci può essere libertà, dunque – la libertà per la quale l’uomo è uomo –, anche là dove regna la diseguaglianza più profonda tra ricchi e poveri. Le due cose possono, per Kant, «perfettamente coesistere». Se la libertà è il fine, l’eguaglianza dev’essere subordinata ad essa e limitata.
Ponendo invece come fine l’eguaglianza e la libertà come mezzo o “metodo” – come fa la “sinistra” di Bobbio –, rimane da dire fino a che punto possono “perfettamente coesistere” l’eguaglianza tra gli uomini e quella quantità di non libertà – ulteriore alla non libertà richiesta dalla libertà altrui – che non distrugga la democrazia. Giacché è inevitabile che, ponendo come fine l’eguaglianza, la libertà come mezzo, sia destinata ad essere subordinata e sempre più limitata (appartenendo all’essenza del mezzo il suo essere logorato e delimitato in vista e in ordine al raggiungimento del fine). Fino a che punto una società democratica può limitare, in nome dell’eguaglianza, la libertà? Comunque si risponda, non ci si può illudere di salvaguardare nella stessa misura eguaglianza e libertà. (Come non ci si deve illudere di salvaguardare nella stessa misura solidarietà e profitto). Nella democrazia moderna la libertà (cioè l’eguaglianza di fronte alla legge che limita la libertà dell’individuo) è il fine, e l’eguaglianza (addizionale rispetto all’eguaglianza di fronte alla legge) è mezzo. Ma oggi libertà ed eguaglianza – e dunque “destra” e “sinistra” – non sono definibili in astratto, ma rispetto alla tecnica, che è destinata a diventare lo scopo della libertà e quindi dell’eguaglianza. Che la sinistra, a differenza della destra, voglia rendere sempre più uguali i diseguali è un fatto che riguarda sempre di più il passato e sempre di meno il presente e a maggior ragione il futuro della politica.
Dopo la vittoria elettorale del “Polo della libertà”, E. Galli della Loggia ebbe a scrivere sul «Corriere» (29 maggio 1994) che la sinistra italiana aveva perso le elezioni perché continuava a disprezzare i valori “reali” del senso comune e dell’uomo della strada (carriera, reddito, vacanze, minuti piaceri della vita quotidiana, tivù, partecipazione al sistema della pubblicità delle merci). Nessuna meraviglia, quindi, se la maggioranza degli elettori, che si riconosce in quei valori, aveva voltato le spalle alle sinistre. Anche perché l’uomo della strada non può riconoscersi nell’aristocraticismo e nell’elitismo della sinistra, che si ispira alla «grande cultura europea di questo secolo (di destra e di sinistra)», per la quale l’uomo comune è un «piccolo borghese “da rigenerare”» e la democrazia «una metafora più o meno ripugnante del dominio del numero e delle merci».
Credo che Galli della Loggia riconosca che nemmeno la grande cultura illuministico-liberal-democratica del secolo scorso coincida con i valori del senso comune e dell’uomo della strada del nostro tempo. E nemmeno la grande cultura dei secoli precedenti (Kant, ad esempio, Adam Smith, Galilei, Bacone); e tanto meno la cultura classica.
Dal discorso di Galli della Loggia segue dunque che oggi un movimento politico il quale si ispiri alla cultura, è destinato a perdere le elezioni e che in politica, per vincere, bisogna oggi sembrare degli incolti (o addirittura esserlo, visto che ogni finzione, a un certo momento, mostra la corda) e uniformarsi all’ignoranza e alla volgarità dei più.
Se vincere le elezioni del prossimo futuro fosse la cosa più importante del mondo, allora, certamente, bisognerebbe bruciare alla svelta i libri della più o meno grande cultura. Ma se non fosse la cosa più importante (giacché si può pensare che anche per un movimento politico sia meglio la gallina domani che l’uovo oggi), allora ci potrebbe essere chi si rassegna a perdere le elezioni del futuro prossimo, purché il popolo non rompa del tutto i legami con la grande cultura. (E non intendo affatto sostenere che la sinistra italiana, nelle ultime elezioni, abbia agito all’insegna di quella rassegnazione. La sinistra voleva vincere, anche a costo di mandare a quel paese la grande cultura.)
Non ci si deve dimenticare che ogni grande cultura, quindi anche quella scientifica, mette sempre in questione il senso comune e le convinzioni dell’uomo della strada. Solo a questa condizione c’è cultura e la società tenta nuove vie. Anche quando la cultura mostra che la saggezza suprema è proprio il senso comune e che l’uomo meglio riuscito è quello della strada, anche in questo caso senso comune e uomo della strada sono stati messi in questione, perché gli argomenti che si sono addotti per mostrare la primazia della saggezza della strada non li si è trovati in istrada, e dunque si è dovuto uscire di strada per dimostrare che la cosa migliore è non uscirne.
Se tutto questo non è vero, chiudiamo pure le scuole, dalle elementari alle università (e magari incominciando dalle scuole pubbliche), così anche le sinistre, chissà, potranno vincere le elezioni, e in un popolo di cretini la cretineria di sinistra si alternerà giudiziosamente a quella di destra.
Ma solo in apparenza è politicamente giudizioso dimenticarsi della grande tradizione culturale. Facendolo, ci si trova infatti – tra l’altro – completamente esposti alla possibilità di imboccare e percorrere nuovamente gli itinerari della violenza estrema che anche la grande cultura ha sviluppato. Per evitare i precipizi bisogna guardarli, non dimenticarli.
Comunque, si può esser d’accordo con Galli della Loggia sul fatto che la cultura di destra, nel suo insieme e con le dovute eccezioni, è ancora grigia, piatta – e vincente; mentre quella di sinistra è ancora, nel suo complesso, e con le solite eccezioni, più sensibile alla cultura, più intelligente – e perdente. È nota la preferenza di Thomas Mann per la mediocrità e il grigiore dell’uomo anglosassone (in cui però la libertà democratica riesce a vivere) rispetto alla “profondità” dell’anima tedesca (che invece ha sempre soffocato la democrazia).
Ma Thomas Mann non si chiede per quale motivo la grande cultura democratica abbia finito con l’imporsi su quella antidemocratica. La vittoria della democrazia è solidale al prevalere della scienza e della tecnica sulle altre grandi forme della nostra cultura; ma la destra, percepisce e partecipa in modo ancora immaturo a questo processo assommando la mentalità scientifico-tecnologica a quella dell’uomo della strada. A sinistra si sta sperimentando qualcosa di molto simile. La pluridecennale socialdemocratizzazione del Pci è stata soprattutto lo spostamento dell’asse culturale delle sinistre dalla filosofia alla scienza, in netta convergenza (contrariamente a quanto ritiene Galli della Loggia) con le propensioni tecnologico-efficientistiche dalla destra. Ma in questo processo la sinistra è inevitabilmente rimasta più indietro della destra e ha lasciato troppo sullo sfondo quell’immagine e quell’ideale dell’uomo, che deriva dalla grande tradizione filosofica (e non solo da Marx) e che la differenzia dalla cultura prevalentemente scientifico-tecnologica della destra – quell’immagine che non si tratta di recuperare, ma che è necessario conoscere proprio per poterne prendere le distanze.
Il duraturo successo politico non è dato dall’adeguazione dei movimenti politici alla mediocrità della gente, ma dalla loro adeguazione alla tendenza fondamentale del nostro tempo, cioè al processo nel quale la potenza della tecnica diventa lo scopo a cui deve adeguarsi ogni forza, cultura, ideologia del passato – e dunque anche quella loro degenerazione in cui consiste la mediocrità (che è a sua volta una forma di ideologia). Il successo politico duraturo appartiene a chi è in grado di comprendere il piano inclinato del nostro tempo, la crisi della politica e la dominazione inevitabile della tecnica.