Il capitalismo ha vinto, ma rimane in stato di allerta. E a ragione: i pericoli non sono finiti. In un certo senso sono anzi aumentati. Non è per schizofrenia che i vincenti e i soddisfatti della vita sono pessimisti e temono il futuro: per chi sta bene il cambiamento è sempre in peggio.
Innanzitutto, se il comunismo è morto, non sono morte le aspirazioni al benessere da parte della gente – le aspirazioni che il comunismo credeva di interpretare e alle quali credeva di dar voce. Ed esse hanno maggiori probabilità di affermarsi oggi, in nome della democrazia, di quante ne avessero ieri, quando, interpretate dal comunismo marxista, si presentavano inevitabilmente, agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, come una grave minaccia alla democrazia, alla libertà di mercato e agli altri valori fondamentali delle società occidentali.
È vero che capitalismo e democrazia parlamentare temono ancora, non senza ragioni, che la fuoriuscita delle sinistre occidentali dal comunismo marxista e rivoluzionario sia più apparente che reale o comunque ancora a metà strada; ma è anche vero che le forze economiche oggi vincenti hanno tutto l’interesse ad affermare la realtà di ciò che esse temono, e a sostenere che tale fuoriuscita è appunto apparente o ancora incompiuta perché, in questo modo, esse evitano di sembrare ostili alle aspirazioni al benessere democraticamente proposte dalle masse occidentali, e possono invece perpetuare la loro immagine di baluardo dello stile di vita delle società evolute.
In Italia questa situazione è significativamente rappresentata dalle iniziative politiche prese dalla Fininvest negli ultimi anni, che è difficile considerare controcorrente rispetto alle tendenze, se non di tutte, certo della maggior parte delle forze economiche italiane (e non italiane). All’inizio, la Fininvest si è proposta di salvare la società italiana dalla coalizione di sinistra guidata dal Pds, sostanzialmente ed esplicitamente considerata come eversione comunista. E in effetti è inverosimile che tutti i comunisti italiani siano finiti a Rifondazione comunista e che il Pds ripudi completamente il proprio passato.
Ma è anche inverosimile che la Fininvest abbia atteso il 1993 per correre ai ripari contro il pericolo comunista, cioè che, per segnalarlo e combatterlo, abbia atteso qualche anno dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il principale sostegno di tutte le forze comuniste operanti in campo occidentale. La Fininvest esisteva anche durante la guerra fredda; e sarebbe un insulto gratuito a coloro che la guidavano ritenere che prima del 1993 se ne stessero con le mani in mano di fronte al comunismo. Anzi. Durante la guerra fredda esisteva già il capitalismo italiano, e anche quello internazionale; e daccapo non si può pensare che in quel tempo il capitalismo non fosse in grado di prendere le misure più opportune per contenere e vincere il suo avversario mortale.
Le iniziative politiche della Fininvest a pubblico sostegno delle forze anticomuniste rendono dunque esplicito, nella situazione italiana, l’atteggiamento dominante e permanente delle società capitalistiche. Le quali, però, durante la guerra fredda, erano costrette a mascherarlo nella misura in cui esso, per essere efficace, doveva svilupparsi al di fuori della pubblica trasparenza democratica e dunque al di fuori della legalità. Il coinvolgimento dell’intero sistema democratico-capitalistico nelle pratiche dell’illegalità era inevitabile; e, a parte il vituperevole sottoprodotto costituito dalla corruzione privata, sarebbe stato ben strano che il sistema, per non violare le leggi che si era dato, si fosse fatto trovare debole, indifeso, impreparato all’appuntamento con l’avversario. Solo che è difficile riconoscere il coinvolgimento dell’intero sistema sul piano del finanziamento illegale dei partiti e rifiutarsi di ammettere che esso si sia verificato anche su quello del controllo non democratico della società, o su quello dell’alleanza, sempre in funzione anticomunista, con la grande criminalità internazionale. Non meno cruenti e criminali erano d’altra parte i metodi e i procedimenti adottati dal socialismo reale contro le società democratico-capitalistiche.
Analogamente, sarebbe stato ben strano (anche se moralmente auspicabile) che gli Stati Uniti, per non violare i diritti dell’uomo, si fossero astenuti, ad esempio, da quelle sperimentazioni su cavie umane, per controllare gli effetti delle radiazioni atomiche che erano ampiamente praticate dall’Unione Sovietica. Quanto è sincero chi se ne scandalizza (e chi si scandalizza del finanziamento illegale dei partiti anticomunisti e delle collusioni del sistema con la criminalità)?
Che le forze economiche assumano pubblicamente responsabilità politiche – come sta facendo la Fininvest – è dunque un passo avanti nel processo in cui la democrazia tende a impedire che il potere reale, restando dietro le quinte, preferisca, per raggiungere i propri scopi, metodi e procedimenti illegali o addirittura criminali. Preferibile, dal punto di vista della democrazia, che il potere reale venga il più possibile alla ribalta e il più possibile si muova alla luce dei riflettori – anche se, certamente, si corre il rischio che siano manovrati da chi essi dovrebbero illuminare.
D’altra parte non si può nemmeno escludere che, nel nostro futuro, la violenza occulta e brutale del potere, invece di essere sostituita, si assommi alla violenza della “persuasione occulta” dei mezzi di comunicazione del potere. Tale violenza, infatti, non è gratuita, ma esprime l’istinto di sopravvivenza del sistema che la esercita. In un certo senso, come si è detto, per le forze economiche vincenti, il mondo è più pericoloso oggi di ieri, quando il capitalismo si trovava di fronte a un avversario che, se avesse vinto, lo avrebbe completamente distrutto. Ma perché il socialismo reale vincesse, sarebbe dovuto scoppiare quel conflitto nucleare che ognuno dei due avversari intendeva invece evitare ad ogni costo. Essi miravano cioè a perpetuare lo status quo, la cui rimozione aveva finito con l’apparire e con l’essere utopica. Utopici risultano quindi, nel mondo occidentale, i progetti di trasformazione della società da parte delle sinistre guidate dall’Unione Sovietica, che dunque risultavano meno pericolose di oggi. Giacché è vero che l’Unione Sovietica non esiste più, ma proprio per questo le rivendicazioni e le aspirazioni della gente al benessere e all’autonomia si presentano oggi molto meno utopiche, più capaci di intaccare l’ordinamento esistente e il potere reale. È del tutto improbabile che riescano a metterlo in ginocchio; ma, appunto, quello che ci attende non è un tempo di pacifica convivenza, ma di lotta.
I giudici italiani sono spesso accusati di volersi sostituire al parlamento e di voler decidere quali siano le leggi buone e quelle cattive. Ma il rimprovero sarebbe meritato se i giudici si rifiutassero di applicare le leggi e i decreti legge; e non sembra che questo sia accaduto. Più di duecento anni fa Kant sapeva molto bene che se i pubblici ufficiali, nell’esercizio delle loro funzioni, hanno l’obbligo di applicare le leggi, essi però, al di fuori di tale esercizio, sono assolutamente liberi di discutere e criticare tutte le leggi che essi devono applicare e a cui devono obbedire. Agli occhi di Kant il grande merito di Federico II di Prussia, era di aver detto ai propri sudditi: «Ragionate fin che volete e su quel che volete, ma obbedite!».
D’altra parte, il pool di “Mani pulite” e altri settori della magistratura hanno dato l’impressione di voler subordinare alla giustizia ogni altro valore della società italiana. Certo, le leggi devono essere applicate, ma l’impressione è che le si voglia applicare accada quel che accada, quali che siano le conseguenze che scaturiscono dalla loro applicazione. Fiat justitia et pereat mundus – cioè perisca, sì, senz’altro, il mondo della corruzione, ma perisca anche, se è il caso, quel più ampio mondo di rapporti sociali in cui la corruzione ha attecchito e di cui si è nutrita.
Detto in altro modo, è difficile allontanare l’impressione che se al tempo della guerra fredda il Partito comunista italiano fosse andato al governo, non avrebbe agito, contro il regime di collusione tra potere economico e potere politico, in modo molto più incisivo di quello praticato da certi settori della magistratura, in una situazione in cui il socialismo reale è stato sconfitto e non esiste più. L’impressione, dunque, che, indipendentemente dalle intenzioni reali dei magistrati, attraverso l’azione di quest’ultimi il sistema sconfitto abbia tentato e forse tenti tuttora di prendersi una sorta di rivincita, in Italia, sul sistema vincente; e che questo fatto stia alla radice del più visibile fenomeno dello scontro istituzionale tra potere politico e potere giudiziario.
In una “lettera aperta” pubblicata qualche anno fa sul «Corriere della Sera», in relazione alle vicende del “decreto Biondi”, F. Cossiga aveva opportunamente ricordato a Berlusconi le condizioni storiche (politiche, psicologiche, culturali) per le quali nell’Italia odierna la coscienza popolare non è per niente garantista e che dunque rendevano improponibile il defunto (ma sotto forme diverse sempre risorgente) “decreto Biondi” sulla custodia cautelare, che si presentava come un maldestro tentativo di difendere i disonesti. Questo richiamo alla situazione storica è di primaria importanza. Tuttavia Cossiga chiude il suo discorso quando avrebbe dovuto compiere il passo decisivo: quello in cui finalmente si dice alla gente, senza circonlocuzioni e remore, che è storicamente e politicamente insostenibile, è impensabile ed è impossibile che il sistema sociale uscito vincente dalla lotta contro il comunismo sia messo alle corde dalla magistratura perché durante quella lotta (e, per motivi inerziali, anche dopo) ha adottato comportamenti giuridicamente perseguibili, in parte perché vi era costretto e in parte per la corruzione di molti suoi esponenti.
Fino a quando quest’ordine di considerazioni non sarà portato alla luce del sole, è estremamente improbabile che i problemi cruciali della società italiana possano essere risolti. Uno dei modi più efficaci di offuscare il loro senso e di allontanarne quindi la soluzione è quell’impostazione moralistico-etnologica, così frequente ed ingenua, per la quale tutti i guai degli italiani deriverebbero dalla loro incontenibile e ineguagliabile corruzione morale e mancanza del senso dello Stato, che invece sono conseguenze della situazione storica. L’occasione fa l’uomo ladro; e in Italia ci sono state molte occasioni.
Quando si dice che il “decreto Biondi” è stato respinto dalla sintonia che ancor oggi sussiste tra la coscienza popolare e la lotta della magistratura contro la corruzione, si mettono insieme, nel concetto di “coscienza popolare”, due cose molto diverse: la coscienza di quella parte dell’elettorato che ha votato per i “progressisti”, e la coscienza di quell’altra parte che invece ha votato per il “Polo delle libertà”, i moderati e il centro. La consonanza dei primi con l’operato della magistratura è del tutto naturale, perché costoro vedono in esso il prolungamento sul piano giuridico della lotta che in tutto il dopoguerra le sinistre hanno condotto sul piano politico. Ma gli altri? Ma la “coscienza popolare” di chi ha votato le destre e i moderati? Costoro assomigliano – come ho scritto in altra occasione – a quei figlioli ingrati (e o poco o troppo perspicaci), i quali, avendo avuto dei genitori che per mantenere la prole e farla star bene han dovuto e voluto compiere azioni poco pulite, li rimproverano aspramente e li accusano e li portano in tribunale o godono al vederceli e li mettono alla gogna – badando bene però a non perdere i benefici prodotti da quella non pulita condotta.
Voglio dire che questa seconda parte della “coscienza popolare” non sembra rendersi conto che oggi essa esiste e si trova anzi in posizione vincente, anche perché ai tempi duri della lotta contro il comunismo i suoi genitori hanno dovuto sporcarsi le mani (prendendoci poi molto gusto). I partiti anticomunisti li si doveva finanziare ben al di là di quanto consentisse la legislazione vigente; le industrie e le imprese che li finanziavano, per non andare a picco dovevano ridurre i tributi da versare allo Stato e assicurarsi con le tangenti i lavori; l’elettorato anticomunista doveva essere ingrandito e mantenuto; il sistema nel suo insieme trovava nella criminalità nazionale e internazionale un valido alleato di sicura fede anticomunista.
Chi ha sfruttato questa torbida e drammatica situazione per vantaggi personali è doppiamente colpevole. E si può vivamente deprecare che il sistema democratico-capitalistico (e non solo in Italia) abbia agito illegalmente per difendersi dal comunismo e per evitare tensioni sociali di gravità ben maggiore (ma non credo che a sinistra si vorrà essere così ingenui da insistere sul tasto della deprecazione). Ma non si può nemmeno pensare di mettere in prigione il sistema, per giunta vincente – anche perché in prigione il sistema vincente non si fa mettere nemmeno dalla magistratura più solerte. Su questo piano, e soltanto su questo piano – come vado dicendo da molti anni –, il “colpo di spugna”, cioè un diverso modo di chiudere il conto giuridico, è inevitabile e nel secondo dopoguerra è già stato praticato nei confronti dei funzionari dello Stato fascista che per giunta, a differenza del capitalismo, aveva perso la guerra. Anche l’intera prassi politica dello Stato fascista era, dal punto di vista della democrazia, illegale, ma i vincitori di allora non perseguivano giuridicamente coloro che avevano preso decisioni nei vari campi della sfera pubblica dello Stato fascista. Non si può pensare che l’incriminazione sia andata oggi contro i membri del sistema vincente da parte di chi, oggettivamente, rappresenta le istanze di giustizia del sistema perdente. Tutto questo, anche se il “colpo di spugna” non sarà facile contrattarlo e anche se esso dovrà, comunque, avere il profilo alto delle grandi scelte politiche, e non quello basso dei tentativi più o meno intenzionali di difendere i ladri.
Il direttore del «Corriere della Sera» Paolo Mieli aveva invitato a discutere la proposta di amnistia allora avanzata (1996) da Leo Valiani «per Tangentopoli, limitatamente al reato di violazione delle norme che regolano il finanziamento pubblico dei partiti. Ed escludendo categoricamente i casi di arricchimento personale». In quell’occasione avevo scritto sul «Corriere» quanto segue in questa sezione.
Sono perfettamente d’accordo con Valiani e con Mieli. In un articolo del 3 marzo 1993 sul «Corriere» avevo proposto qualcosa di pressoché identico. Ma con motivazioni diverse. Credo cioè che sia possibile allargare il quadro dei motivi che giustificano la proposta di Valiani.
Mieli ricorda che Valiani ripropone oggi, con riferimento diverso, quanto aveva proposto nel 1945: l’amnistia ai fascisti. Un provvedimento che fu poi messo in atto da Togliatti e De Gasperi. Il fascismo – osservo – era stato sconfitto, ma ci fu l’amnistia per i fascisti. Non dei loro reati penali, ma di quello politico, cioè la loro adesione a un sistema politico illegale.
Il capitalismo italiano appartiene invece al sistema economico-politico che è uscito vincente dallo scontro con il socialismo reale. Ma accade che sia il capitalismo italiano, nel suo insieme, a risentire in modo fortemente negativo dell’azione giudiziaria che ha il suo centro nel pool milanese di “Mani pulite”. Il finanziamento illecito dei partiti da parte dei gruppi economici italiani è stato infatti, soprattutto, finanziamento dei partiti anticomunisti, durante il periodo della guerra fredda. (Poi, dicevo, il fenomeno è continuato per inerzia.) L’imprenditorialità italiana era sul carro dei vincitori, e la magistratura l’ha chiamata a rapporto e a dar conto dei suoi atti.
Dal punto di vista della pura giustizia o della pura morale può essere, questo, un fatto nobile e positivo. Ma è astratto. Come quando si vuol mettere in prigione uno che compie azioni illegali per salvare la propria vita. Si può certo riuscire a imprigionarlo. Ma se costui è molto forte – se è un vincitore – incominceranno i guai per i giudici e i poliziotti. Sarebbero ingenui a non aspettarseli. Durante la guerra fredda il sistema democratico-capitalistico – dunque anche quello italiano – doveva salvare la propria vita. Doveva compiere azioni illegali per salvare il sistema della legalità democratico-capitalistica. Ad esempio non poteva rendere democraticamente trasparenti il proprio apparato militare, o le misure adottate per reprimere al proprio interno azioni destabilizzanti filosovietiche. Doveva, appunto, finanziare i partiti anticomunisti ben oltre la misura irrisoria consentita dalla legislazione vigente. Doveva appoggiarsi a gruppi sociali di sicura fede anticomunista, come la mafia e il crimine internazionale. Qualcuno, forse, ha pensato che il modo migliore di smorzare il crescente desiderio della gente di votare Pci era quello di “terrorizzarla” – in base al principio che chi ha molta paura si irrigidisce (nelle sue scelte elettorali) e non si muove.
Amnistiare i terroristi e i consociati alla criminalità non è possibile (anche se alcuni di costoro possono sentirsi dei benemeriti del sistema). E, per motivi diversi, non è possibile amnistiare chi ha sfruttato la situazione politica per vantaggi personali. Ma spingere sino alle estreme conseguenze il lavoro giudiziario di ripulitura dei rapporti tra mondo economico e potere politico, relativamente al finanziamento illegale dei partiti, significa coltivare l’utopia di processare e punire il sistema che dallo scontro più grandioso del nostro secolo è uscito vincente e che non può tollerare che la ripulitura vada oltre un certo limite.
È possibile che gli accertamenti della magistratura intorno a Di Pietro siano dovuti a motivi puramente giudiziari; ma se (dico “se”) Di Pietro è l’uomo dell’assoluta intransigenza, cioè del fiat justitia et pereat mundus – se dunque è il tipo d’uomo che non ha presente o non vuol tener conto di quanto ho tentato di chiarire qui sopra –, allora è inevitabile che il sistema economico-politico vincente tenti di emarginarlo (anche in modi che possono non aver nulla a che vedere con le vicende a noi note).
Mieli e Valiani chiedono che l’amnistia per Tangentopoli avvenga in presenza di un «corpus legislativo contro la corruzione», che peraltro da anni non riusciamo a darci. Ritengo, da un lato, che la proposta di amnistia debba essere immessa nel contesto storico dello scontro tra mondo capitalistico e mondo comunista. Altrimenti – ignorando cioè tale contesto – verrebbe meno il motivo fondamentale per il quale si dovrebbe prendere in considerazione la possibilità di amnistiare i casi di finanziamento illecito dei partiti.
Dall’altro lato ritengo che quel corpus legislativo non potrà essere esso stesso l’effetto di un astratto esercizio della giustizia, ma sarà inevitabilmente il risultato di un compromesso politico. Mi si permetta di riportare in proposito, un passo del mio libro Declino del capitalismo (Rizzoli, 1993): «Quello che, se si verificherà, sarà considerato uno dei maggiori successi del nuovo regime contro il vecchio, cioè la pulizia delle mani, non potrà essere dunque che un accordo a mezza strada, un “compromesso storico” nuovo (dopo quello tra legalità democratica e illegalità) tra chi vorrebbe mantenere i privilegi del vecchio regime e chi vorrebbe completamente abolirli e punire tutti coloro che li hanno goduti in modo illegale».
Dovrebbe essere comprensibile, a questo punto, perché nonostante il saliscendi, Di Pietro continui ad essere, nell’opinione pubblica italiana, un personaggio carismatico e perché, contemporaneamente, il pool di “Mani pulite” si vada tuttavia dissolvendo. I due fenomeni vanno in direzione opposta. Il primo è dovuto a un’ingenuità di fondo – che però non consiste tanto nell’esaltazione superficiale per l’uomo che sa fare giustizia, quanto piuttosto nell’incapacità di gran parte dell’opinione pubblica di rendersi conto del contesto storico in cui essa si trova. Il secondo fenomeno, non meno prevedibile del primo, è l’effetto della reazione di un sistema sociale – il capitalismo italiano – che per quanto vincente si sente minacciato oltre i limiti di sicurezza.
Gran parte dell’opinione pubblica sembra aver dimenticato che capitalismo e socialismo reale si sono combattuti per quasi mezzo secolo in una lotta mortale, cioè senza esclusione di colpi. E raramente si comprendono le implicazioni di questo fatto di portata planetaria. Soprattutto si perde di vista che ognuno dei due sistemi antagonisti, per sopravvivere e prevalere, ha dovuto usare mezzi che risultavano illegali dallo stesso punto di vista di tali sistemi (cfr. E.S., Il declino del capitalismo, cit., capp. 25-30). Anche il sistema democratico-capitalistico ha dovuto imboccare questa strada. E forse in Italia più che altrove per la presenza, nel nostro Paese, del più forte partito comunista del mondo occidentale. Non c’era la possibilità di combattere democraticamente e con i metodi della libera concorrenza i nemici della democrazia e del libero mercato. Ad esempio, il finanziamento dei partiti anticomunisti non poteva essere operato sulla base della legislazione che lo regolava e che la stessa Dc – che in Italia poteva contare su altre fonti (illegali) di finanziamento – aveva contribuito a rendere iugulatoria per rendere la vita difficile al Pci (peraltro sovvenzionato a sua volta da Mosca). Nelle democrazie occidentali (ma anche nell’Unione Sovietica) l’alternativa all’illegalità era la sconfitta, la morte di una civiltà.
Anche se ha favorito la corruzione, cioè l’illegalità volta a vantaggi personali, quella forma di illegalità di alto profilo politico (che a volte può anche aver assunto i connotati atroci del terrorismo e dell’alleanza con la grande criminalità internazionale) è stata una delle condizioni non secondarie della vittoria delle democrazie parlamentari sul totalitarismo comunista. Non sarebbe stato possibile contrastare il comunismo senza sporcarsi le mani.
Oggi ci si indigna per la gran folla di mani che risultano sporche. L’ingenuità dell’indignazione è data dall’incapacità di scorgere il contesto storico che costringeva il sistema a sporcarsele. E accade frequentemente – come si è detto sopra – che chi si indigna sia fortemente integrato al sistema, cioè debba la propria sopravvivenza a chi le mani se le è sporcate. Tutti i ceti moderati, e innanzitutto i mass media in cui essi si rispecchiano, appartengono a questo gruppo di indignati.
Ma, intanto, l’indignazione di cui stiamo parlando si accompagna all’esaltazione di chi ha mostrato di saper fare giustizia – Di Pietro in testa. E anche l’esaltazione è ingenua, perché crede che il lavoro di pulizia possa andare fino in fondo. Toccare il fondo significa però, in questo caso, mettere sotto processo in Italia lo stesso sistema capitalistico – cioè il sistema che è uscito vincente dallo scontro con il comunismo, e che ha tuttora la capacità di arginare le forze che lo minacciano. Quando gli indignati di quel tipo vogliono che si vada fino in fondo, si scavano la fossa sotto i piedi.
È dunque l’incapacità di scorgere la situazione storica in cui anche l’Italia si è trovata nell’ultimo mezzo secolo, e da cui l’Italia proviene, la maggiore responsabile dell’entusiasmo con cui una porzione consistente dell’opinione pubblica ha seguito, nel nostro Paese, l’azione giudiziaria di Di Pietro, che sin dall’inizio ha mostrato di essere animata dall’intento di andare fino in fondo nel lavoro di ripulitura.
All’entusiasmo dell’opinione pubblica moderata si è unito quello, di tipo diverso, dell’elettorato di sinistra. Forse si sottovaluta la delusione che questi ceti sociali hanno provato per il crollo del socialismo reale. In tal modo, ci si mette in condizione di non capire che l’azione giudiziaria del pool di “Mani pulite” ha rappresentato agli occhi di questo elettorato una forma di rivincita sul sistema capitalistico. Una rivincita che in un primo tempo, e naturalmente in forma anonima, è stata guardata di buon occhio dalla dirigenza del Pds; ma poi questo partito si è reso conto che, trovandosi al governo, non poteva mantenere l’ottica che gli era propria in quanto partito di opposizione, e che dunque doveva rivedere la configurazione dei propri rapporti col capitalismo italiano.
I rapporti del Pds con la magistratura intransigente (e oggettivamente pericolosa per il sistema) si sono quindi raffreddati; anche se l’elettorato di sinistra continua ad alimentare l’entusiasmo diciamo così “vendicativo” che fa di Di Pietro una sorta di eroe rivoluzionario e che però è ingenuo come quello dei ceti moderati e benpensanti, che vorrebbe veder compiuta l’opera di ripulitura del sistema. (In questa faccenda gli unici non ingenui sono i gruppi economico-politici che avversano apertamente Di Pietro e le ripuliture senza limiti; o coloro che, come quanti si riconoscono in An, non sembrano temerle.)
Alla base della popolarità di Di Pietro sta dunque un’ingenuità distribuita su molti soggetti: mass media e ceti moderati, elettorato e partiti della sinistra, e, non ultimo, lo stesso pool di “Mani pulite”. Non è popolare chi mostra di volere cose impossibili. Lo diventa, quando crede e fa credere che le cose impossibili siano possibili.
Si sostiene che la Lega, chiedendo la secessione del Nord, alzi il prezzo per ottenere una forma di federalismo di suo gradimento. È probabile che sia così. Se, come ha riferito la stampa nazionale, Gianfranco Miglio sembra riavvicinarsi a Umberto Bossi e dichiara che «bisogna lavorare strenuamente per ottenere una Costituzione federale» e che «solo di fronte a un diniego dovremo prendere la strada della rottura delle istituzioni», cioè la strada della secessione, tutto questo sembra confermare che lo scopo primario della Lega non è la secessione, ma la Costituzione federale.
Qualora il costo del bluff che chiede la secessione per ottenere la Costituzione federale risultasse alla fine accettabile, e tale Costituzione fosse realizzata, la Lega avrebbe avuto il merito incontestabile di introdurre il federalismo in Italia. È però ancora difficile calcolare l’entità di quel costo – che potrebbe rivelarsi eccessivo. Molto più facile capire che cosa sarebbe la secessione del Nord e prevederne le conseguenze.
L’Italia si trova in un fitto contesto di rapporti internazionali. I suoi interlocutori più vicini e più importanti sono a Nord, i Paesi europei economicamente più avanzati, a Sud il mondo arabo. Un mondo irrequieto, che oggi preme fortemente per oltrepassare i limiti che gli sono imposti dagli attuali equilibri politici del Pianeta. Una forza in fase di espansione, non di ripiegamento su di sé. In atteggiamento offensivo, non difensivo. E dunque pronta a occupare gli spazi vuoti che i Paesi del Nord del Pianeta avessero a lasciare nel corso della loro evoluzione storica.
Ora, è difficile negare che la secessione, di cui va parlando la Lega, produrrebbe appunto uno di questi spazi vuoti: il Sud dell’Italia. Separato dal Nord, il Sud sarebbe uno Stato piccolo, povero, debole, tenuto fuori dall’Europa, con una criminalità mafiosa tanto più potente quanto più debole esso fosse, uno Stato, dunque, tale da scoraggiare sempre di più l’investimento di capitali, abitato da una popolazione depressa e irritata e del quale dovrebbe essere stabilita l’appartenenza o meno alla Nato, con procedure che per un tempo più o meno lungo lo lascerebbero in una condizione di sospensione e di incertezza ulteriore. Un vuoto sociale e politico, insomma.
Uno spazio vuoto che vedrebbe concentrata su di sé la pressione crescente del mondo arabo, alla quale potrebbe opporre un tasso irrilevante di resistenza. E si aggiunga che sarebbe vuoto, quindi cedevole e appetibile, non solo rispetto al mondo arabo, ma anche alla conflittualità perdurante nei Balcani. Anzi, un Sud separato potrebbe essere un forte incentivo a ravvivarla – come accade quando del cibo (anche poco) senza padrone viene a trovarsi a portata di mano di molte persone affamate: se stavano quiete per la spossatezza, è la volta che riprendono ad azzuffarsi.
È cioè difficile negare che, con la secessione di cui la Lega va parlando, la linea che oggi corre a sud della Sicilia tenderebbe a spostarsi o addirittura si sposterebbe sul Po o nella migliore delle ipotesi a metà della Penisola; e quindi, da un lato, il Sud porterebbe molto più a ridosso del Nord la propria accresciuta pericolosità, dall’altro lato il Nord diventerebbe molto più “meridionale” e “mediterraneo”, quindi molto più lontano dall’Europa centro-settentrionale. Ma, poi, anche tutta questa parte d’Europa sentirebbe più vicino l’alito meridionale, e avrebbe timore di slittare a sua volta verso il Sud. Non è un pensiero, questo, che l’Europa non sia in grado di concepire: essa sa bene di dover fare i conti col mondo arabo e che per non andare in rosso deve mantenere la propria identità: si sa bene che se l’Italia slittasse verso il Sud tutta l’Europa resterebbe coinvolta in questo processo di meridionalizzazione.
Ci si sbaglia, quindi, se si pensa che l’Europa accoglierebbe a braccia aperte la “Padania” ormai libera dalla zavorra del Sud. All’opposto, percepirebbe sempre più chiaramente che col secessionismo italiano verrebbe importata la conflittualità del mondo arabo e della penisola balcanica.
Il progetto secessionista ha tutta l’Europa contro. Ha contro anche gli Stati Uniti che non potrebbero vedere di buon occhio un nuovo focolaio di instabilità proprio al centro del Mediterraneo – con il conseguente appesantimento dei loro compiti di polizia internazionale. Se è vero che agli occhi degli Stati Uniti oggi l’Italia riacquista importanza strategica per il contenimento del conflitto balcanico e come testa di ponte occidentale verso il mondo arabo, è anche vero che gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse che l’Italia non frani e che il fuoco arabo e balcanico non abbia a trovare nuovo combustibile. Possiamo aggiungere che il Nord del Pianeta, dopo lo scontro Est-Ovest, ha bisogno di quiete e stabilità, e che quindi nemmeno la Russia può vedere di buon occhio ulteriori complicazioni nel bacino del Mediterraneo. Solo i Paesi arabi considererebbero favorevolmente la secessione della “Padania”. Non è un caso che, parlando qualche tempo fa a un giornalista italiano, Gheddafi abbia dichiarato, sia pure tra il serio e il faceto, che lui sì saprebbe come governare l’Italia e come consigliare per il meglio la Lega.
Se nel secolo scorso l’unificazione politica dell’Italia ha coinvolto buona parte degli Stati europei, nessuna meraviglia che la frantumazione politica dell’Italia, divenuta nel frattempo la quinta o sesta potenza economica del Pianeta, possa coinvolgere tutti i soggetti politici di cui abbiamo parlato. Ai quali va aggiunta la Chiesa cattolica, che in modo del tutto esplicito si è mostrata contraria alla secessione del Nord, come mostra di esserlo la maggioranza degli italiani.
Ed è contrario anche il sistema globale del capitalismo italiano. La Lega, oggi, si pone al di fuori della contrapposizione tra Polo e Ulivo. Credendo di essere un’alternativa radicale, sembra dimenticare che, ormai, il capitalismo è il tratto comune a tutti i contendenti dell’attuale panorama politico italiano (e non solo italiano). La raggiunta socialdemocratizzazione del Pci – prodottasi in concomitanza al crollo del socialismo reale – consente di considerare il Pds come il portatore più o meno consapevole degli interessi di un certo settore del capitalismo italiano, che differisce dal settore che si esprime nel Polo e da quello che si esprime nella Lega. Da questo punto di vista le ultime elezioni hanno avuto la forma della “concorrenza” tra gruppi diversi del capitale. La piccola e media impresa del Nord ha interessi considerevolmente diversi da quelli dei grandi gruppi del capitalismo italiano. Ma è la diversità che si costituisce all’interno della “concorrenza” capitalistica e che dunque ne accetta le leggi. Naturalmente, il tipo di cultura che sta alle spalle dell’Ulivo, del Polo e della Lega è molto diverso; ma il capitalismo è ormai il comune denominatore di queste diversità culturali e tende a eliminare la loro resistenza e a renderle dimensioni subordinate alla volontà di profitto. Intendo dire che la contrapposizione “politica” al secessionismo della Lega, da parte dell’Ulivo e del Polo, è sorretta e rafforzata dalla contrapposizione economica, da parte dei maggiori gruppi del capitalismo italiano, agli interessi dell’elettorato leghista. Anche per gli elettori della Lega lo scopo primario è il profitto, non la secessione. La secessione è ritenuta un mezzo per favorire il profitto di un certo tipo di imprenditorialità. Se invece la Lega assume come scopo primario la secessione, danneggia inevitabilmente il processo di produzione del profitto, si presenta quindi come un movimento anticapitalistico e non può non subire la reazione negativa del sistema economico dominante (come è accaduto al fascismo, quando tale sistema si è reso conto che il fascismo non intendeva essere un semplice mezzo per la difesa e la promozione dell’economia di mercato).
Il secessionismo della Lega ha dunque troppi avversari. Cioè la secessione del Nord è un’utopia macroscopica. Cioè il bluff di Bossi è troppo inverosimile. Quindi è inefficace. Ma oggi è nell’interesse di tutta la nazione italiana che sia efficace, perché è nel suo interesse che venga instaurato un vero federalismo. Da questo punto di vista bisognerebbe favorire il bluff. Incominciando a non fare discorsi che, come quello che abbiamo appena finito di svolgere, smascherano il bluff. Il quale discorso, tuttavia, è talmente poco peregrino che dovremmo giudicare in modo eccessivamente negativo l’intelligenza dei ceti dirigenti italiani (e stranieri) per credere che essi siano incapaci di pensare da sé ciò che in tale discorso viene indicato.
D’altra parte quei ceti sanno anche che il grado di intelligenza che essi sono tenuti a possedere è verosimilmente assente nelle masse popolari italiane, dove dunque esistono gruppi per i quali la secessione non appare per niente un’utopia macroscopica, e rispetto ai quali, dunque, il bluff di Bossi è efficace; e che, se sono convinti che resterebbero avvantaggiati dalla secessione del Nord, possono seriamente proporsi di passare alle vie di fatto per realizzare quello che ai loro occhi non è la luna nel pozzo. La possibilità di azioni violente contro l’unità dello Stato italiano è cioè reale. Bossi lo dice continuamente, anche se con l’aria di chi scorge qualcosa che sta per accadere per proprio conto – mentre, se è vero che Bossi constata e dice di constatare le spinte secessioniste che si fanno sentire al Nord, è altrettanto vero che i suoi discorsi non si limitano a constatarle, ma le alimentano.
In base a queste considerazioni, si deve dire che il bluff torna ad essere uno strumento politicamente efficace. Se l’attuale classe politica si dimostrasse sorda all’improrogabilità del federalismo c’è perfino da augurarsi che si giunga alla pratica dell’illegalità: non certo perché l’utopia irrealizzabile possa essere realizzata, ma perché la pratica dell’illegalità sarebbe a questo punto l’unico strumento capace di svegliare la nostra classe politica e dunque di introdurre il federalismo in Italia.
Situazioni analoghe si sono già presentate nella nostra storia recente. Ho più volte mostrato (da Téchne, cit., a Il declino del capitalismo, cit.) che il terrorismo degli anni Settanta-Ottanta – un fenomeno in sé deprecabile e orrendo – ha però anche avuto l’effetto di favorire la socialdemocratizzazione del Pci, senza la quale si sarebbe perpetuata in Italia quella contrapposizione di muro (capitalismo) contro muro (comunismo) che bloccava la vita del Paese ed era la causa stessa della violenza terroristica. Di fronte alla minaccia di essere eliminato da parte delle forze che per salvare l’ordine sociale avrebbero sospeso le libertà democratiche, il Pci non ha potuto fare altro che accentuare sempre più la propria adesione e quasi immedesimazione ai principi e ai valori della democrazia parlamentare e del libero mercato, sanciti dalla nostra costituzione; ossia non ha potuto fare altro che intensificare il processo della sua trasformazione in un partito socialdemocratico. E come il terrorismo di quegli anni ha avuto come sottoprodotto quegli esiti “positivi”, esiti “positivi” potrebbe avere anche la pratica dell’illegalità da parte dei secessionisti del Nord. Solo che, in questa direzione, i veri guai non sono ancora incominciati, ed è possibile correre ai ripari per tempo.
La cultura contemporanea si raccoglie attorno a un grande tema dominante, che muove dal pensiero filosofico degli ultimi centocinquant’anni e si diffonde ovunque: nelle diverse forme del sapere scientifico, nella letteratura e nell’arte, nella coscienza religiosa e morale, negli ordinamenti sociali e ormai nello stesso modo di vivere e di pensare delle masse. Si fa abbastanza presto a indicarlo. Ben più difficile è comprenderne la forza e il significato autentico. Mi riferisco al tema del piano inclinato, ossia al convincimento – capace di dar conto degli altri convincimenti del nostro tempo e quindi di subordinarli a sé, ma non viceversa – che l’intera nostra tradizione culturale e la stessa civiltà tradizionale non sanno resistere al pensiero critico e all’incessante divenire che tutto travolge, e che dunque non può esistere alcuna verità assoluta e alcun valore immutabile.
Ma questo tema dominante si presenta spesso accompagnato da un controtema, cioè dalla condanna di alcune forme di esistenza del nostro tempo, riconducibili da ultimo alla violenza che distrugge l’uomo e la Terra e allo smarrimento di alcuni valori che si ritengono irrinunciabili. Tema e controtema. Come se, pur convinti che un’intera città sta franando, si condannasse o ci si rifiutasse di accettare il crollo di alcuni edifici e l’abbandono di essi da parte di coloro che li abitano.
In questa situazione antinomica, in questo conflitto con se stessi si trovano molti di quanti avvertono l’importanza della cultura contemporanea, ma sono insieme più sensibili di altri ai problemi morali e all’impegno politico. Mi sembra che questo accada anche nel libro di Saverio Vertone, La trascendenza dell’ombelico (Rizzoli, 1994), che già nel titolo indica il disfacimento, «nella palude infinita dell’immanenza», dei valori della tradizione occidentale, il «collasso del cielo sulla terra». E questo è il versante lungo il quale Vertone aderisce con brillante intensità al “tema” del pensiero contemporaneo. Il “controtema”, in questo libro, vien fuori in molte occasioni; ad esempio, quando si confrontano i costumi degli italiani a quelli degli altri popoli.
In Italia si sarebbe prodotto un “rovesciamento” patologico del rapporto che negli altri Paesi dell’Europa occidentale sussiste tra i “valori” e le “valutazioni politiche”.
I “valori” sarebbero, in questi Paesi, degli «a priori» che assicurano «confini precisi» alla vita pubblica, e sono «obbligatori e perenni», «non valicabili», «immutabili». E per Vertone si tratta sostanzialmente delle leggi, della democrazia, dello Stato, dell’interesse generale, dell’identità dei singoli e della collettività. Le “valutazioni politiche”, invece, pur muovendosi all’interno delle «pareti solide e infrangibili» dei valori, sarebbero «contingenti», «liberamente oscillanti», «facoltative», «transitorie», «a posteriori», come ad esempio le valutazioni politiche che a seconda della situazione spingono gli inglesi a scegliere ora a destra, ora a sinistra, i laburisti o i conservatori.
In Italia, invece, questo rapporto tra “valori” e “valutazioni” si sarebbe rovesciato, lungo un processo secolare che va dalla Controriforma cattolica alla «recente egemonia comunista». Gli italiani avrebbero cioè finito col considerare facoltativi e transitori i “valori” e obbligatorie e definite le “valutazioni”. Per cui da noi si può tradire lo Stato, non rispettare le leggi, non tenere in alcun conto le sorti del Paese e della democrazia; ma non si può tradire il partito, non si possono cambiare le valutazioni politiche che ci fanno schierare a destra o a sinistra, e per le quali si è comunisti o democristiani. Gli italiani non rispettano i veri valori, che invece per i popoli maturi sono indiscutibili, e considerano come intoccabile ciò che andrebbe invece continuamente ritoccato.
Ora (supposto che le cose stiano effettivamente così), anche in questo discorso di Vertone si viene a dire qualcosa – il “controtema”, appunto, di cui parlavo prima – che non si può più dire una volta che ci si è messi al seguito del “tema” dominante della cultura contemporanea. Se – come appunto in questo “tema” si afferma – non esistono verità e valori assoluti e immutabili; e se, come si illustra anche in questo libro di Vertone, è avvenuto il «collasso del cielo sulla terra», ci si deve chiedere perché mai lo Stato, la legge, la democrazia, l’interesse generale, e possiamo aggiungere anche il capitalismo (che però Vertone tiene dietro le quinte) debbano rimanere in cielo come stelle fisse, e sian da lodare gli inglesi che ad esse tengon fisso lo sguardo, mentre da condannare sian gli italiani che favoriscono il collasso del cielo e si guardano l’ombelico.
Se ci si muove all’interno del tema dominante della nostra cultura (ma ritornare alla tradizione dell’Occidente è impresa disperata), si deve concludere che di stelle fisse in cielo non ce ne sono più, e che sono in arretrato sia gli inglesi a credere che i valori siano stelle fisse, sia gli italiani a credere che stelle fisse siano invece le valutazioni politiche.
Si può replicare dicendo che anche se i valori non sono assoluti le convinzioni degli inglesi consentono loro di vivere meglio. Può darsi. Ma questo significa che si vive meglio quando si ignora che i valori in cui si crede non sono assoluti e che le fondamenta su cui ci si appoggia sono cedevoli.
Ma non si può continuare a ignorarlo: prima o poi anche la certezza più granitica si incrina; e anche gli inglesi imparano, come gli italiani, che i valori sono miti (Luigi Einaudi diceva appunto che la democrazia è un “mito”, peraltro preferibile agli altri); e anche gli italiani capiscono, come gli inglesi, che miti sono le valutazioni. Posto che ci sia, il vantaggio degli inglesi (o di altri) sugli italiani riguarderebbe allora il momento presente, la pausa che precede il disincanto.
Sta infatti avvicinandosi il tempo in cui non solo la cultura avvertirà che è impossibile tenere insieme il “tema” e il “controtema” del nostro tempo, ma anche le masse capiranno a fondo (stanno già incominciando a capire) il significato del “tema”, e proveranno l’angoscia, sinora riservata alle élites, che sale dalla convinzione dell’inesistenza di ogni verità, valore, fondamento, centro, senso del mondo.
Tuttavia non si può dire nemmeno che il mondo stia andando verso un caos incomprensibile. Dopo la morte della “verità”, dei “valori” e delle “valutazioni”, rimane in campo lo scontro tra le forze e il prevalere di quella più potente: la tecnica, guidata dalla ragione scientifica. La cultura dominante è ancora lontana dal senso autentico di questo processo, ma ciò non significa che esso non esista.