Che cosa devono sapere i giovani che escono dalle nostre scuole preuniversitarie? Ho tentato di rispondere a questa domanda, in una riunione della Commissione, istituita e presieduta nel 1997 dal ministro Berlinguer, per la riforma dei programmi scolastici. Che cosa deve sapere un popolo come il nostro, sottoposto a un’immigrazione crescente di mano d’opera che lo obbliga a qualificare il più possibile le competenze dei suoi membri?
Deve soprattutto conoscere il significato fondamentale della situazione storica in cui si trova – qualcosa, cioè, che non riguarda soltanto l’Italia, ma l’intero Pianeta e che non è un pulviscolo inafferrabile e impercorribile di cognizioni, ma ha una forma, una configurazione determinata. Deve conoscere i tratti essenziali del mondo in cui vive. Altrimenti è un popolo che vive sognando. Ogni altro modo di rispondere a quella domanda è subordinato, è una conseguenza, un corollario, uno strumento per realizzare questo, che è lo scopo primario.
Ma qual è, in che consiste il contenuto determinato di tale significato fondamentale? Il disaccordo, che in proposito indubbiamente sussiste, è più apparente che reale. Nelle diverse e contrastanti interpretazioni affiora quasi sempre una convinzione comune, che possiamo esprimere in questi termini:
La civiltà occidentale, ormai dominante sulla Terra, sta uscendo dal proprio passato: chiede sempre meno aiuto ai valori della tradizione teologico-religiosa, filosofica, politica, umanistica, artistica, e si affida sempre più alla potenza della scienza moderna e della tecnica e alle forme di cultura che mostrano come tale potenza sia ormai il valore supremo.
Indubbiamente, questo processo può apparire deprecabile o auspicabile, può impaurire o risultare liberatorio, gratificare o deludere; ma la convinzione che esso sia un fatto, e anzi il fatto ormai dominante, è più o meno implicitamente presente anche in coloro che a parole sembrano misconoscerne l’imponente centralità. Di più: la convinzione che questo sia il fatto centrale dell’esistenza attuale dell’uomo guida, sia pure con intenti diversi e contrapposti, la maggior parte dei progetti, delle azioni e dei pensieri dell’uomo contemporaneo.
In tale fatto consiste appunto il significato fondamentale della situazione storica in cui anche il nostro popolo si trova. E dunque è questo fatto a dover stare al centro di ciò che nella nostra scuola (e non solo della nostra) deve essere saputo. Affinché un popolo come il nostro non viva in sogno, al centro del suo sapere deve trovarsi la tensione che sussiste tra i valori della tradizione occidentale e la civiltà della scienza e della tecnica; la tensione che è scontro, lotta e, insieme, implicazione, legame.
Sia pure in forme più o meno complesse, ogni ordine e grado della nostra scuola preuniversitaria deve avere al proprio centro questa tensione, senza separarne gli elementi. Una scuola che (come ad esempio quella cattolica) creda nei valori della tradizione, non solo deve proporre tali valori e porli al proprio centro, ma deve anche mostrare come essi siano capaci di non farsi dominare dall’apparato scientifico-tecnologico e anzi se ne sappiano servire per realizzare i loro scopi. Ma per ottenere questo risultato bisogna che la scuola faccia conoscere come tale apparato funziona, e da quale forma di razionalità sia guidato.
Una scuola che invece creda nella superiorità della scienza e della tecnica rispetto a quei valori, e quindi non intenda rimanere un semplice strumento nelle loro mani, non solo deve porre le strutture concettuali e procedurali scientificotecnologiche al centro del sapere, ma deve far conoscere anche come quei valori siano riusciti a prevalere nella tradizione occidentale e per quali virtù essi possano ancora oggi pretendere di guidare il mondo e di servirsi della razionalità scientifica come di un semplice mezzo. Ma, anche qui, per ottenere questo risultato bisogna che questa seconda forma di scuola conosca la grandezza, la forza e l’interna articolazione della tradizione occidentale; e che tanto più la conosca quanto più se ne vuole allontanare. (Anche al di fuori della scuola, chi vuole allontanarsi dal passato senza conoscerlo veramente e dunque senza poter reagire criticamente ad esso, e poi gli capita di trovarselo dinanzi in forme sufficientemente adeguate alla sua indubbia grandezza, è molto probabile che ne rimanga abbagliato e succube, appunto perché privo di quella reazione critica che sarebbe possibile solo sul fondamento di una concreta conoscenza di esso.)
Ognuna di queste due forme antagoniste di scuola deve cioè includere i contenuti dell’altra. Altrimenti la prima si riduce all’ingenuità di chi vuol servirsi di uno strumento senza conoscerne il funzionamento; la seconda all’ingenuità di chi vuole spostarsi in avanti dimenticando il luogo da cui parte. Devono poter vivere entrambe (insieme alle loro varianti possibili). Quale debba essere realizzata di volta in volta è la libertà della scuola stessa a deciderlo – la libertà dei programmi, dei docenti, dei genitori e in certa misura degli stessi discenti. Solo in uno stato totalitario o teocratico si può imporre ai cittadini, giovani o vecchi che siano, di prendere posizione in un certo modo, rispetto alla tensione tra i valori del passato e quelli del presente. (E proprio perché la verità, come la moralità, è inscindibile dalla convinzione, non si può imporre a qualcuno di essere convinto in un certo modo.)
Se la scuola separa i due lati della tensione tra il passato e il futuro della nostra civiltà, o produce un cittadino separato dal mondo dell’industria, dell’economia, della tecnica, e dalla razionalità scientifica che oggi domina il mondo – ossia riproduce le anime belle che avrebbero dovuto formare la classe dirigente a cui mirava la Riforma Gentile della scuola –; oppure produce un tecnico ottuso che non può nemmeno rendersi conto del senso di quanto egli va facendo, né delle stesse potenzialità della scienza e della tecnica, e che da un momento all’altro può diventare preda delle forme più rozze e violente del nostro passato.
Se in questa tensione-implicazione tra passato e futuro consiste il contenuto che, sia pure con diverse accentuazioni, la nostra scuola deve far conoscere, la scuola che si tratta di costruire non potrà essere facile. Ma non sarà nemmeno impossibile, perché tutti i programmi attualmente vigenti sono assurdamente e pateticamente elefantiaci – in area sia umanistica sia scientifica (come nella suddetta Commissione confermava anche il fisico Carlo Bernardin) – e quindi devono essere radicalmente ridimensionati, cioè ridotti ai nuclei generativi della conoscenza. I manuali di migliaia e migliaia di pagine, di cui gli studenti da troppo tempo son vittime, non sono quasi mai prove di impegno e di accuratezza, ma sono monumenti alla pigrizia e alla confusione (giacché è pigrizia accatastare tutti gli argomenti che stanno attorno), e riducono la libertà di insegnamento allo squallido compito di amputare questa o quella parte del testo. L’amputazione – che tende ad essere casuale come tende ad esserlo la giustapposizione indefinita degli argomenti nel manuale – sostituisce la discussione critica, da parte dell’insegnante, della proposta culturale che il libro di testo deve fornire.
Nella Commissione Berlinguer (che includeva, tra gli altri, G. Amato, C. Bo, T. De Mauro, G. De Rita, U. Eco, R. Levi Montalcini, C. Magris, R. Muti, E. Scalfari) il cardinal Tonini mi ha osservato che la “tensione” di cui ho sopra parlato non c’è, perché molti scienziati sono oggi preoccupati di quello che con la tecnica si può compiere. Ma, rispondevo, se sono preoccupati è perché, dal punto di vista della tradizione, c’è da preoccuparsi; e dunque perché, anche per questo aspetto del problema, esiste la “tensione” di cui ho parlato. In tutti i suoi documenti ufficiali la Chiesa si mostra preoccupata della piega che il mondo ha preso. E la “piega” è appunto la “tensione” che si è prodotta tra il vecchio mondo e il nuovo. Il cardinal Tonini ha aggiunto che il fenomeno oggi più rilevante non è tanto questa “tensione”, ma la sempre maggiore coscienza che i popoli non privilegiati vanno prendendo dei propri diritti. Anche ammettendolo (e non troppo concedendolo) – rispondevo – starebbero arrivando dove l’Europa e gli Stati Uniti si trovano da circa due secoli, sulla spinta millenaria del cristianesimo. Starebbero assimilando i frutti della nostra tradizione e dunque starebbero avvicinandosi alle condizioni che rendono possibile la “tensione” di cui ho parlato.
Da quanto ho capito, l’on. Luigi Berlinguer – ministro della Pubblica Istruzione e, insieme, dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica – ha inteso sbloccare l’attuale stagnazione dell’università italiana facendo leva sul principio dell’“autonomia” delle singole università. La maggior parte delle resistenze che oggi incontra la volontà di cambiamento sarebbe superata mettendo le università in condizione di decidere da sole – autonomamente – quello che occorre loro per funzionare nel modo più adatto alle esigenze del Paese. A tal fine, Berlinguer ha promosso una «riunione tra esperti su tematiche inerenti l’Università» – come recitava la lettera di invito – con l’intento di avere dei suggerimenti per varare le disposizioni che mettano l’università italiana in condizione di essere autonoma. E di suggerimenti molto interessanti il ministro ne ha avuti, dalla quindicina di esperti presenti, “tecnici” di alto livello, tra cui G. Amato, P. Costa, U. Eco, G. Martinotti.
Avendo il sottoscritto fatto presente che tutto quanto si stava dicendo apparteneva alle questioni di metodo, ma che non si stava dicendo nulla dei contenuti dell’insegnamento universitario, il ministro ha risposto osservando che il problema dei contenuti era appunto uno di quelli che le singole università sarebbero state in grado di risolvere sulla base della loro autonomia.
Tuttavia si riconosce che la progettazione autonoma dei contenuti non può avvenire al di fuori di ogni controllo, ma deve essere approvata dal Ministero. Ed è chiaro che questa volta l’approvazione non potrà che essere data in base a criteri contenutistici – quelli intorno ai quali gli esperti non hanno detto nulla e non è stato loro chiesto nulla. Quali dovranno essere allora questi contenuti? La domanda è almeno tanto urgente quanto i provvedimenti per l’autonomia – anche se, indubbiamente, è più facile che divengano legge dei provvedimenti sulle questioni di metodo piuttosto che un progetto sui contenuti.
È indifferibile, quella domanda, anche per un motivo più profondo. Il sistema universitario non può essere separato da ciò che un popolo deve sapere per sopravvivere; cioè non può essere separato dai contenuti che devono venire alla luce nella scuola preuniversitaria. Come si è detto qui sopra, un popolo come il nostro non può ignorare la situazione storica fondamentale in cui si trova il Pianeta, cioè la tensione e implicazione tra cultura del passato – cultura umanistico-filosofico-religiosa che intende servirsi della scienza e della tecnica per realizzare i propri scopi e valori – e cultura del presente, scientifico-tecnologica, che si sta ponendo alla guida del mondo e tende a sottomettere a sé le istanze del passato. Debole e ingenua, dunque, sia una cultura del passato che non conosca lo strumento scientifico-tecnologico di cui intende servirsi, sia una cultura del presente che ignori le grandi soluzioni date dal passato ai problemi dell’esistenza dell’uomo.
Questo, ciò che un popolo come il nostro deve sapere e che la scuola preuniversitaria deve insegnargli – visto che è impensabile, per questo tipo di scuola, quell’autonomia che invece si ritiene auspicabile per la scuola universitaria. Non ci può essere una legge che imponga di risolvere in un certo modo, piuttosto che in altro, la tensione-implicazione di cui stiamo parlando, e che imponga tale soluzione nella scuola preuniversitaria (una legge siffatta sarebbe propria di uno Stato totalitario); ma ci può e ci deve essere una legge che imponga alla scuola di prendere posizione di fronte al problema fondamentale del nostro tempo.
Ma se così stanno le cose, anche l’autonomia nella scelta dei contenuti dell’insegnamento universitario deve essere ridimensionata. L’università forma le élites che hanno il compito di organizzare la società secondo i criteri determinati dal contenuto che una società come la nostra deve conoscere per non vivere in sogno e dunque per non perire. Se gli utenti di questa società (cioè coloro che sono più utenti che competenti) devono conoscerlo, a maggior ragione devono conoscerlo i competenti che hanno il compito di farla funzionare, e che sono appunto le élites che l’università deve formare.
Debole e ingenua la formazione universitaria di un “tecnico” (nel senso più lato) che ignori il problema del senso della tecnica, cioè della provenienza della tecnica da quel passato che ritiene di avere il diritto di porre limiti invalicabili alla dominazione tecnico-scientifica del mondo. Debole e ingenua anche la formazione universitaria che rinchiuda in tale passato senza far sapere per quali ragioni la scienza e la tecnica non intendono più essere semplici strumenti per realizzare gli scopi e i valori del passato.
La specializzazione universitaria, in cui si rispecchia la specializzazione scientifica, non può essere dunque l’isolamento dei due poli – passato e presente – tra i quali si istituisce la tensione-implicazione di cui abbiamo parlato. Cioè dev’essere, insieme, un “bipolarismo” culturale.
E poiché è soprattutto compito della scuola formare la coscienza politica del Paese, il bipolarismo culturale è la condizione primaria perché si formi quel bipolarismo politico (e quell’alternanza al potere), che ancora non può funzionare perché è ancora alla ricerca dei propri contenuti, ma che i propri contenuti li può trovare nei termini stessi del problema fondamentale del nostro tempo, cioè nel gravitare, da un lato, verso la grande tradizione della nostra civiltà, e, dall’altro, verso il grande futuro della scienza e della tecnica.
Mi sembra che nella discussione svoltasi qualche tempo fa tra Galli della Loggia e i suoi critici cattolici, a proposito della scuola, nessuno abbia tenuto presente il fattore più importante del problema: la Chiesa cattolica, intesa come gerarchia e magistero. Si è parlato dei progetti scolastici dei cattolici, lasciando da parte l’insegnamento della Chiesa.
Vittorio Messori ha obbiettato a Galli della Loggia che il «mondo cattolico» non è più un «blocco monolitico» – ma Galli della Loggia aveva detto a modo suo la stessa cosa, osservando appunto che tale “mondo”, a proposito della scuola, è spezzato in due: i cattolici che si riconoscono in molte delle istanze dei laici, e i cattolici che mirano innanzitutto al potenziamento della scuola cattolica. Tuttavia, rispetto all’eterogeneo mondo cattolico, l’insegnamento della Chiesa è, sia pure con le riserve del caso, un blocco monolitico e un potente polo di attrazione. Che anche a proposito della scuola dice cose ben chiare ed univoche.
Per la Chiesa, solo sul fondamento della «ragione illuminata dalla rivelazione divina e dalla fede» può esistere una «società buona» (Veritatis Splendor, n. 44). Solo sulla «base irremovibile» della verità cristiana «è possibile costruire una società rinnovata e risolvere i complessi e pesanti problemi che la scuotono» (n. 99). Tra i quali, e non ultimi, i problemi dell’educazione e della scuola. Per la Chiesa, cioè, come lo Stato buono e giusto è lo Stato cristiano, e anzi cattolico, così la scuola buona e giusta è la scuola cattolica.
Lo Stato buono è regolato da leggi che non solo non ostacolano e favoriscono la verità cristiana, ma bandiscono ogni scelta contraria a tale verità; e quindi prevedono sanzioni terrene per i trasgressori, visto che non ci può essere una legge che non preveda la punizione di chi la viola. (Questo Stato può tollerare l’esistenza di gruppi sociali non cristiani, solo quando il loro comportamento sia in buona fede, cioè dovuto a una «ignoranza invincibile» della verità, e comunque non minacci la salute cristiana dello Stato.)
Analogamente, la scuola cattolica deve mirare alla formazione di giovani credenti, e dunque deve bandire ogni forma di insegnamento che metta in discussione la rivelazione di Cristo. Per lo Stato e per la scuola che siano buoni e giusti vale, secondo la Chiesa, quello che essa dice ai propri teologi, cioè che il “dissenso” pubblico (per esempio «attraverso i mezzi della comunicazione sociale») «è contrario alla comunione ecclesiale del Popolo di Dio» (n. 114) e dunque è contrario alla verità cristiana. Lo Stato e la scuola a cui pensa la Chiesa sono essenzialmente teocratici.
Quando la Chiesa dice di volere una scuola “libera”, la vuole “libera” da ogni forma di insegnamento dove, come può accadere nell’attuale “scuola pubblica”, il messaggio cristiano sia messo in discussione o addirittura negato. La vuole “libera” da un’educazione non cristiana o agnostica (così come vuole che lo Stato sia “libero” da ogni legislazione non cristiana o agnostica). “Libera”, dunque, da ogni elemento non cristiano; ma vincolata all’insegnamento della Chiesa. Libera di vincolarsi.
Stando a questo significato della parola “libertà”, anche una scuola come l’attuale “scuola pubblica” può esigere di essere “libera” da ogni educazione che ponga come verità indiscutibile un certo contenuto – ad esempio il messaggio di Cristo o quello di Marx –, e può dirsi “democratica”, come viene appunto affermato nel documento elaborato dalla Commissione per la scuola istituita da Luigi Berlinguer, nel senso che intende essere libera di non vincolarsi (e quindi, insieme, libera di vincolarsi). Anche una scuola che mirasse a formare dei credenti marxisti potrebbe esigere di essere “libera” da ogni forma di educazione dove il marxismo fosse messo in discussione o negato. Questo spiega perché all’interno della scuola pubblica può esistere anche una scuola cattolica (o marxista), ma non viceversa. D’altra parte è anche vero che sulla base della legislazione vigente non può che essere casuale e molto improbabile l’esistenza, nella scuola pubblica, di un compatto insegnamento cattolico, ossia di una scuola cattolica vera e propria – e questo spiega la richiesta di finanziamento per questo tipo di scuola.
Se per la Chiesa la scuola buona e giusta è quella cattolica, d’altra parte la Chiesa vive in un mondo dove scuola e Stato se ne vanno per la loro strada, più o meno deviando dalla verità cristiana. La Chiesa tollera le deviazioni, nel senso che, pur esortando i cattolici a eliminarle, sa di non avere (crede di non avere ancora) la forza pratica di raggiungere i propri scopi. In questa situazione, che per la Chiesa è spuria e provvisoria, la Chiesa affida al laicato cattolico il compito di escogitare percorsi anche tra loro alternativi che conducano il più vicino possibile a ciò che per essa è la vera forma di Stato e, nella fattispecie, la vera forma di scuola. E sul laicato cattolico la Chiesa preme in diversi modi, per raggiungere i propri scopi, a seconda delle diverse situazioni storico-sociali in cui esso si trova ad agire.
Anche se non sempre se ne rendono conto, è su questo piano che i cattolici, accompagnati dalla benedizione della Chiesa, si differenziano nel modo più consistente (sebbene non unico, visto che è sempre esistita, nel “mondo cattolico”, una più o meno esigua minoranza che ha inteso mettere in discussione l’insegnamento ufficiale della Chiesa – portandosi però verso quella che per la Chiesa è la dimensione dell’eresia). Questa loro diversificazione non è una contraddizione nel senso che Galli della Loggia ha creduto di rilevare a proposito dei problemi della scuola, e che a volte gli stessi cattolici vivono come una loro contrapposizione interna; ma è la contraddizione che si produce quando i cattolici intendono esplorare in direzioni diverse il modo più efficace per avvicinare la società all’ideale indicato dalla Chiesa. Le esplorazioni non sono però la soluzione. Considerate come soluzioni sono errori.
Su questo piano esplorativo può aver senso la proposta, espressa tempo fa sul «Corriere» dal cattolico Rocco Buttiglione, di dar vita a un servizio scolastico prodotto (anche – e, forse, soprattutto) da privati “in regime di concorrenza”. Oggi come oggi, in Italia, i cattolici possono chiedere la libera concorrenza anche in campo scolastico. Ma, debbono sapere che anche la libera concorrenza scolastica, considerata non come via ma come fine (non come esplorazione ma come soluzione), è per la Chiesa una delle forme che essa è costretta a tollerare in uno Stato che si discosta dalla verità cristiana mettendola in concorrenza con le verità alternative: una delle forme anzi, che, per la Chiesa i cattolici devono oltrepassare e distruggere, perché «se accade che i governanti emanino leggi ingiuste o prendano misure contrarie all’ordine morale, tali disposizioni non sono obbliganti per le coscienze» (Catechismo della Chiesa cattolica, n. 1903), ossia i cattolici devono ribellarsi allo Stato che le impone.
Questo, si capisce, anche se la Chiesa sa bene che la virtù della prudenza impone di prolungare ragionevolmente la tolleranza.