In tutta la sua storia, quando il materialismo sostiene che la vita cosciente dipende dal corpo o, come oggi si preferisce dire, dal cervello, intende affermare che la coscienza umana soggiace alla labilità e caducità della materia, nella vicenda del tempo che travolge tutto, e che, come le altre cose della natura, anche la coscienza nasce e muore definitivamente senza sollevarsi al di sopra dei ritmi biologici e in sostanza al di sopra del divenire dell’esistenza. Il corpo, scriveva Lucrezio, è il luogo soltanto nel quale l’anima può «crescere e essere», e quindi si deve assolutamente escludere che essa possa «nascere e perdurare al di fuori del corpo», extra corpus (De rerum natura, III, 792 sgg.).
Quanto Lucrezio affermava in base alla filosofia di Epicuro, gli studiosi moderni dei problemi della mente lo affermano in base alla scienza. Tra costoro esistono molti dissensi: comportamentismo, funzionalismo, “materialismo eliminatorio”, fisicalismo, ricerche sull’“intelligenza artificiale” esprimono posizioni anche molto divergenti, che vanno dalla paradossale negazione dell’esistenza stessa di stati mentali, sostenuta trent’anni fa da P. Feyerabend e da R. Rorty, alla posizione equilibrata che John R. Searle propone ne La riscoperta della mente (trad. it., Bollati Boringhieri, 1995). Ma il principio decisivo su cui tutti costoro concordano è il rifiuto del “dualismo” cartesiano che separa l’anima dal corpo, ossia è la convinzione che non possa esistere alcuna forma di vita cosciente extra corpus o extra cerebrum, naturale o artificiale che sia.
Searle scrive giustamente che questo modo di pensare costituisce un’«ovvia opposizione alla fede nell’immortalità dell’anima»: anche l’anima, come il corpo e il cervello, è mortale. E aggiunge che «chiunque, al giorno d’oggi, possieda una buona istruzione, deve conoscere e accettare» i due caposaldi del sapere scientifico moderno, cioè la teoria atomica della materia e la teoria dell’evoluzione biologica, che non consentono di concepire la mente e la coscienza come qualcosa di diverso da un prodotto specifico dei processi neurobiologici del cervello. La coscienza «deve essere dunque considerata, analogamente alla fotosintesi, alla mitosi e alla digestione, come una proprietà biologica di determinati tipi di organismi». La coscienza non è un “mistero”.
Questo modo di concepire la coscienza è estremamente ingenuo. Ma il suo errore più profondo non consiste nel voler legare la coscienza al cervello, o il pensiero e le percezioni alla struttura atomico-evolutiva della materia, ma nel legarli troppo debolmente. È troppo debole il legame con cui, sulla base della concettualità scientifica, si intende unire la coscienza alla cosiddetta materia. Searle parla con molta disinvoltura delle “connessioni necessarie” e della “necessità causale” che, nel sapere scientifico, legherebbero l’effetto alla causa e, nella fattispecie, la mente alla materia e alla attivazione dei neuroni. Ma se «la necessità implica l’impossibilità di concepire il contrario», come Searle mostra di sapere – senza peraltro rendersi conto della dimensione estremamente complessa in cui si colloca tale impossibilità –, la conoscenza scientifica, riflettendo su di sé, non crede più ormai da tempo che le proprie osservazioni e le proprie teorie implichino l’impossibilità di concepire il contrario: il contrario di tutto ciò che la scienza afferma è sempre concepibile; la scienza non è un sapere necessario, non coglie connessioni necessarie, ma è un sapere ipotetico. E non solo la scienza, ma tutta la cultura contemporanea, e innanzitutto quella filosofica, è convinta della vanità di un sapere che pretenda di avere come contenuto le “connessioni necessarie” tra i fenomeni. In questa prospettiva, l’unità di coscienza e materia è una semplice concomitanza, un “parallelismo”, non una necessità.
Vado mostrando da tempo che il rifiuto di ogni necessità è la conseguenza inevitabile del primo passo dell’Occidente, ossia della convinzione che essere una “cosa” significhi essere qualcosa che nasce e che muore, che proviene dal nulla e vi fa ritorno. La filosofia può parlare nuovamente di “necessità” – e anzi può pensare per la prima volta il significato autentico e radicale di questa parola – solo quando si sottrae al dominio di quella convinzione, ossia della fede da cui è guidata e sorretta l’intera storia della civiltà occidentale. Quando il pensiero è libero da questa fede, vede che nessuna cosa, neppure la più umile ed effimera, proviene dal niente e vi ritorna: vede che ogni cosa è eterna e che quindi il legame che unisce ogni parte a ogni altra parte dell’essere è una connessione necessaria, la cui inesistenza (o il cui “contrario”) è impossibile. Vede dunque che è necessario anche il legame che unisce la coscienza dell’uomo al suo corpo e a tutto ciò che nell’uomo e fuori dell’uomo non è coscienza o “spirito”. Per il pensiero che vede l’eternità di ogni cosa – e che, inaudito, sconvolge ogni nostra abitudine nel pensare e nel vivere, ma che è anche il pensiero più innegabile, e anzi è il pensiero assolutamente innegabile, la necessità suprema che sta al di sopra di ogni conoscenza e di ogni fede – non si può dunque dire che con la morte del corpo l’anima continui ad esistere: ma non perché si debba invece dire che, non esistendo più il corpo, non possa più esistere nemmeno l’anima, extra corpus o extra cerebrum; ma perché sia il corpo sia l’anima sono eterni, e quindi l’una non può esistere senza l’altro. E la coscienza che ognuno di noi avverte come “propria”, non solo non può esistere senza il nostro corpo, ma nemmeno senza alcun altro corpo, sia pure il più irrilevante.
La coscienza, in cui si illumina il mondo, non può esistere senza questo tenue chiarore della luna che sta per spuntare dietro i monti; e neppure senza questo rumore del vento e questo calore del fuoco. Per la scienza, la luna il vento il fuoco e la coscienza stessa sono aggregati di atomi, e la teoria atomica della materia è un’ipotesi che si è rivelata di grande efficacia per il dominio della realtà. Tuttavia, che la struttura atomica della materia sia essa stessa una realtà è una convinzione che tende a diventare sempre più obsoleta anche all’interno del sapere scientifico. Ma come la coscienza non può esistere senza questo chiarore di luna, così non può esistere senza l’immagine, o il “modello”, a cui si riferisce la teoria della struttura atomica della materia (o la teoria dell’evoluzione biologica). Anche questa immagine, come quel chiarore, è eterna, e nemmeno da essa – come da ogni altro corpo e da ogni altra immagine – ha mai potuto, né può né potrà mai separarsi la coscienza, che è essa stessa un eterno, l’eterno in cui si illuminano le cose eterne del mondo.
Il materialismo più radicale lega troppo debolmente la coscienza e lo spirito alla materia, e li lega in una sola direzione, per la quale se non può esistere mente o coscienza senza materia, può invece esistere materia senza mente e coscienza. E invece non solo sono indissolubili i legami che uniscono la mente alla materia e ad ogni ombra di materia, ma anche i legami che uniscono la materia alla coscienza, e per i quali è impossibile che le infinite galassie esistano senza la coscienza, così come ora essa illumina il mondo e lascia apparire il chiarore della luna, il rumore del vento, il calore del fuoco; sì che le infinite distese di stelle non potrebbero esistere senza il più piccolo e il più vano dei nostri pensieri – del quale la follia e l’infelicità che ormai dominano l’uomo sono troppo pronte a dire che appena un momento fa era un nulla e ora lo è già ridiventato.
Da molto tempo filosofi della scienza e scienziati si sono accorti che la teoria di Einstein della relatività speciale conduce, tra l’altro, a una conseguenza straordinaria e lontanissima dal senso comune: che non solo le cose presenti, ma anche tutte le cose future e tutte le cose passate sono reali. Discutendo con Einstein, già Popper riconduceva la teoria della relatività speciale al pensiero di Parmenide, quell’antico filosofo, «venerando e terribile», diceva Platone, per il quale non ci può essere un passato e un futuro in cui l’“essere” non sia più e non sia ancora reale. (Per molti motivi, oltre che per questo, il pensiero di Einstein appartiene alla configurazione epistemica della scienza moderna.)
Considerazioni analoghe sono sviluppate anche in Matematica, materia e metodo (Adelphi, 1993) del filosofo della scienza Hilary Putnam: «Si deve concludere – scrive nel capitolo Sul tempo e la geometria fisica, che appunto sviluppa le implicazioni della relatività speciale – che le cose future sono reali anche se non esistono ancora», e «analogamente tutte le cose passate sono reali, anche se esse non esistono adesso». La questione, aggiunge, «è stata risolta mediante la fisica e non mediante la filosofia… non credo che esistano ancora problemi filosofici riguardo al tempo».
Non so se Putnam confermerebbe oggi queste ultime affermazioni, forse troppo avventate (questo suo libro è stato pubblicato nel 1975). Ma gli si può dire egualmente che egli mette le mani su un problema che presenta una complessità e una profondità difficilmente dominabili anche da un filosofo della scienza serio e circospetto. E non perché le questioni fisiche della relatività speciale siano difficili (e certamente lo sono), ma perché il problema filosofico del tempo è essenzialmente più complesso di quanto non creda la stessa tradizione filosofica europea.
Nei miei scritti si mostra determinatamente in che senso il “passato” e il “futuro” delle cose e degli eventi non possono essere la loro irrealtà, cioè la loro nullità. Si mostra cioè in che senso la filosofia deve affermare, e in modo essenzialmente più radicale della scienza, e al di fuori della tradizione epistemica dell’Occidente, quell’“eternità” di tutte le cose ed eventi che si vorrebbe vedere presente (come a volte alcuni amici fisici mi suggeriscono di vedere) nella teoria einsteiniana della relatività speciale.
A Putnam si può chiedere se si sente completamente a suo agio in quel suo concetto delle cose future e passate, che «sono reali, anche se non esistono». Gli si può chiedere cioè quale differenza ponga tra la “realtà” e l’“esistenza” di una cosa – giacché, se non ci fosse alcuna differenza di significato tra questi due termini, dire che una cosa è «reale, anche se non esistente» sarebbe un’affermazione contraddittoria e dunque inaccettabile.
Putnam ritiene inoltre che la relatività speciale confuti la teoria aristotelica sugli eventi futuri che non accadono per necessità. Se si considera il testo del De interpretatione, dove Aristotele espone questa sua teoria, ci si rende conto che se Aristotele avesse torto, tutte le cose e tutti gli eventi accadrebbero necessariamente, e non potrebbe quindi esistere, nelle decisioni umane, alcuna libertà. Ritengo anch’io che qui Aristotele abbia torto (si tratta di quei “torti” grandiosi che solo i geni più alti possono inventare). Ma Aristotele non ha torto perché – come invece ritiene Putnam, Einstein ha ragione. Nonostante tutto, Einstein e tutta la scienza moderna continuano a muoversi all’interno del pensiero filosofico di Platone e di Aristotele.
Ma mi sembra che recentemente Putnam abbia mostrato simpatia per il pragmatismo, cioè per una concezione filosofica che considera irrinunciabile il concetto di libertà umana. Si tratterebbe allora di vedere come egli riesca a mettere d’accordo il torto che egli vede in Aristotele, grandissimo difensore della libertà umana, e le ragioni del pragmatismo.
Sin dall’inizio la tradizione filosofica afferma l’esistenza dell’Eterno. Ma si tratta di un Eterno che sta al di sopra delle cose periture del mondo e che alla fine si presenta come il loro signore e padrone. Un senso essenzialmente diverso ha l’eterno, quando ci si rende conto che tutte le cose, tutte le configurazioni del mondo e dell’anima, tutti gli istanti sono eterni – non sono i servi di alcun signore – e che il divenire, la storia, il tempo sono il comparire e lo scomparire, il mostrarsi e il nascondersi degli eterni.
In La totalità e il frammento. Neoparmenidismo e relatività einsteiniana (il Poligrafo, 1996), Umberto Soncini e Tiziano Munari intendono mostrare che esiste una profonda vicinanza e anzi un’identità sostanziale tra quel diverso senso dell’eterno (che da tempo vado indicando) e la teoria einsteiniana della relatività speciale, nella quale reali non sono soltanto le cose presenti, ma anche quelle passate e future: le cose passate non cadono nel nulla e quelle future non si trattengono nel nulla; cioè tutte le cose dello spazio-tempo sono eterne.
Questo libro – che, nella Postfazione, anche il fisico Giuseppe Arcidiacono trova «interessante» – non nasce dal vuoto. Matematici come H. Weil e L. Fantappié, riflettendo sul senso della teoria della relatività, sono giunti ad affermare che «il mondo oggettivo è semplicemente: non accade», e che «l’Universo “è”, e non “diviene”». Popper, in alcuni celebri incontri con Einstein, gli si rivolgeva chiamandolo «Parmenide», e – Einstein sempre consenziente – interpretava l’universo einsteiniano come una pellicola cinematografica dove coesistono, eterni, tutti i fotogrammi che costituiscono gli eventi del mondo, i passati e futuri non meno dei presenti, e dove è soltanto la proiezione della pellicola, ossia l’illusoria coscienza dell’uomo, a determinare il mutamento, cioè la differenza tra il presente, il passato e il futuro.
Sennonché Popper obbiettava che, anche ammesso tutto questo, il mutamento dovuto alla proiezione della pellicola è ben reale e quindi smentisce la tesi dell’eternità di tutti gli eventi dell’universo. E Einstein non sapeva replicare. Soncini, in una prospettiva filosofica, e Munari dal punto di vista della fisica, intendono mostrare che la teoria della relatività può replicare vittoriosamente a obbiezioni come quella di Popper e rendere esplicito il proprio “potenziale teorico” soltanto sulla base del senso dell’eterno al quale si rivolgono i miei scritti (e che gli autori chiamano “neoparmenideo” – un termine, peraltro, che, intenzionalmente, ho sempre evitato di usare).
Ho indicato in altre occasioni perché non è possibile sostenere una tesi come quella di Soncini e Munari. Già una trentina d’anni fa l’epistemologo G. Prestipino, con intendimenti diversi, aveva rilevato la convergenza tra il mio discorso filosofico e la teoria della relatività (cfr. G. Prestipino, Il destino, la necessità ed il caso Severino, in «Critica marxista», n. 4, 1981). Tuttavia il loro è un tentativo di grave importanza e merita che gli si presti la massima attenzione. Non segue i percorsi battuti, i temi sono di primaria importanza e gli autori hanno la capacità di coglierne i significati profondi e le implicazioni. – Proprio per questo occorre grande cautela. Allontanando ogni fretta di concludere, è opportuno soffermarsi sui problemi che vengono aperti.
Innanzitutto, quello della traduzione di un universo semantico-linguistico in un altro. In questo caso sono in gioco l’universo della filosofia e quello della fisica. Ci si deve chiedere: fino a che punto si può dire che due affermazioni, che suonano identiche nei due linguaggi, siano identiche? E, propriamente, fino a che punto si può sostenere che il pensiero dell’eternità dell’essente mantenga lo stesso significato nella fisica relativistica e nella filosofia che al di là del nichilismo si rivolge alla verità dell’essere?
Queste domande sono dettate dalla circostanza che i presupposti della fisica relativistica (e, in generale, della scienza moderna) sono del tutto diversi dalla struttura originaria che, al di fuori del nichilismo, costituisce la verità dell’essere. Sono diversi i fondamenti dei due ambiti; e se si procede da fondamenti diversi, e dunque diverse sono le strade che si percorrono, solo dal punto di vista della non verità si può credere che strade diverse possano condurre nello stesso luogo.
Anche la matematica e la fisica crescono all’interno del senso che il pensiero dell’Occidente conferisce all’essere e all’essente. Dunque anche in questo caso ci si deve chiedere: che cosa verrebbero a dire la matematica e la fisica quando fossero pensate al di fuori di quel senso? E anzi: è così fuori discussione che esse continuerebbero a dire qualcosa? Mi sembra che in questo libro si voglia versare nelle botti della fisica relativistica il vino di ciò che gli autori chiamano “neoparmenidismo” e che a loro avviso consente alla teoria della relatività di respingere con successo le critiche che possono esserle rivolte. Ma la domanda che non può essere accantonata è appunto: in che misura si può ritenere che il vino nuovo lasci intatte le vecchie botti?
Analogamente, non si può dimenticare che l’universo semantico-linguistico della scienza moderna – teoria della relatività inclusa – è ipotetico; anche quando non se ne rende conto. È quindi inevitabile che, nella teoria della relatività, abbia un carattere ipotetico anche la tesi dell’eternità dell’essente. Ma un’ipotesi è tale solo in quanto riconosce la possibilità della propria smentita. Sennonché, smentire e negare l’eternità dell’essente in quanto essente significa pensare che l’essente, in quanto essente, è niente. Ciò significa che l’ipotesi scientifica dell’eternità dell’essente è in se stessa (cioè al di là della sua coscienza di esserlo) il riconoscimento della possibilità che l’essente, in quanto essente, sia niente. Per evitare questo esito, ci si dovrebbe proporre il compito di liberare la scienza dal suo carattere ipotetico. Ma che significato ha questo proposito? Il non ipotetico è soltanto la struttura originaria in cui, al di fuori del nichilismo, si mostra la verità dell’essere. Come è possibile un avanzamento della struttura originaria in direzione del sapere scientifico? E che cosa significa avanzare in questa direzione?
Infine, il cronotopo della teoria della relatività è la totalità degli essenti spazio-temporali. Ma la dimensione concettuale in cui tale teoria consiste non appartiene al cronotopo, non è essa stessa un essente spazio-temporale. Se si esclude la contraddittoria concezione riduzionistica per la quale le leggi della fisica sono le leggi dell’essente in quanto essente e dunque della totalità dell’essente (se dunque ci si rende conto che non solo il significato, o il concetto dello spazio non è un ente spaziale, ma che una dimensione infinita dell’essente non appartiene alla dimensione a cui si rivolge la teoria della relatività), ci si deve allora chiedere: che ne è della dimensione non spaziale dell’essente (quale è appunto la dimensione della concettualità, della coscienza, dell’affettività – in generale, dell’“umano”), dal punto di vista della teoria della relatività? E si deve rispondere che di questa dimensione tale teoria non può dir nulla, perché essa afferma l’eternità dell’essente considerando non l’essente in quanto essente, ma l’essente in quanto sottoposto alle leggi della fisica moderna.
Queste, alcune delle domande che vengono sollevate dalla ricerca di Soncini e Munari. Le ho indicate, non perché ritenga che essi debbano cambiar strada e abbandonare l’impresa, ma perché mi sembra che essi siano quanto mai adatti a esplorare e a percorrere la strada difficile che hanno imboccato; quanto mai adatti, cioè, ad affrontare quelle domande precisandone innanzitutto il significato. Nonostante il loro incombere, infatti, rimane una sorta di corrispondenza enigmatica, di enigmatica consonanza tra il linguaggio della teoria della relatività e il linguaggio della verità dell’essere. E a questo enigma non si possono voltare le spalle.
La fisica dell’immortalità. Dio, la cosmologia e la risurrezione dei morti (Mondadori, 1995) è un libro molto meno balzano di quanto può a prima vista sembrare. Il suo autore, Frank J. Tipler è un fisico di notevole spessore. Studioso dei problemi della teoria della relatività, una decina d’anni fa ha pubblicato insieme a John D. Barrow una prima versione delle tesi sostenute in questo suo libro, indubbiamente sorprendenti.
Sostiene – ma la sua non è una voce isolata – che «la teologia è una branca della fisica» e che «i fisici possono dedurre, attraverso procedimenti di calcolo, ed esattamente nel modo in cui calcolano le proprietà dell’elettrone, l’esistenza di Dio e la verosimiglianza della risurrezione alla vita eterna». Più che includere la teologia, una fisica così intesa ha lo stesso contenuto del pensiero ontologico-metafisico-teologico tradizionale, cioè, come scrive Tipler, «la totalità di ciò che esiste» «l’insieme della realtà», considerata sia nel suo essere totalità, sia nelle sue regioni preminenti (Dio, anima, mondo). Questa fisica è una metafisica che si costruisce sul fondamento di una logica di tipo matematico – la logica della moderna scienza sperimentale.
Che però, per quanto rigorosa e potente, è una scienza. ipotetica. Tipler osserva giustamente che essa consente solo “risposte probabili” e non risposte “assolutamente certe”, quali vorrebbero essere le risposte che la metafisica ha preteso di dare. Tuttavia per Tipler «la teoria fisica e sperimentabile di un Dio onnipresente, onnisciente e onnipotente, che in un giorno del futuro remoto farà risorgere ciascuno di noi alla vita eterna in una dimora che per ogni aspetto fondamentale è il paradiso della tradizione ebraico-cristiana» consente finalmente di esaudire la più grande speranza dell’uomo. È la suprema teoria salvifica. «A chi ha perduto una persona amata e a chi ha paura della morte la fisica moderna dice: “Rasserenatevi, voi e loro tornerete a vivere”.»
Vorrei dire al professor Tipler che qui egli si sta sicuramente ingannando. L’uomo greco abbandona il pensiero mitico e si affida alla filosofia, perché – avvolto dall’angoscia di fronte alla morte – non gli bastano più le risposte fornite dal mito, che non gli possono dare alcuna certezza assoluta, ma ha proprio bisogno di una forma di sapere incontrovertibile che lo assicuri assolutamente di esser salvo dalla morte e che dunque lo liberi indubitabilmente dall’angoscia e lo “rassereni”. Ed è innanzitutto nell’incontrovertibile Dio eterno della filosofia che l’uomo greco vede il luogo della propria salvezza, cioè la propria immortalità.
Nel suo sviluppo, il pensiero filosofico si renderà conto di non poter essere assoluto e incontrovertibile; ma proprio per questo esso non avrà più il potere di salvare dall’angoscia della morte, di consolare e di rasserenare. Se la salvezza annunciata dalla fisica moderna è il contenuto di un semplice sapere “probabile” – se la “serenità” di fronte alla morte deve scaturire da una semplice salvezza “probabile” –, la serenità è destinata a trasformarsi in un’angoscia tanto più profonda e insopportabile quanto più amaro è il disinganno per un rimedio che sembrava vero e invece lascia nel dubbio più inguaribile. La probabilità più alta rimane sempre a una distanza infinita dalla verità assoluta.
Appunto per questo motivo vado dicendo che ogni paradiso scientifico-tecnologico costruito sulla terra, come ogni paradiso semplicemente religioso, è destinato a rivelarsi un inferno. Poiché l’intento principale del libro di Tipler è di rasserenare l’uomo, il bilancio di questo suo libro è fallimentare. Ma è anche di grande interesse, perché il suo fallimento è la prefigurazione del fallimento del paradiso della scienza e della tecnica.
È fallimentare anche la mossa d’inizio che consente a Tipler di catturare e di introdurre nel calcolo fisico-matematico i grandi contenuti metafisico-teologici. Per lui, la fisica «richiede di credere che un essere umano è un oggetto puramente fisico, una macchina biochimica che le leggi fisiche conosciute descrivono in modo completo e esauriente», che una “persona” è «un tipo particolare (molto complicato) di programma per calcolatore», e che “l’anima” umana «non è nient’altro che un programma specifico che gira su un dispositivo di calcolo, detto cervello». Per Tipler questo discorso non uccide la speranza, ma anzi la fa vivere e respirare, perché solo se l’essere umano è pensato in questi termini riduttivi la fisica è in grado di mostrare che i calcolatori del futuro potranno risuscitare i morti e consentir loro una vita felice – una prospettiva, questa, in cui Tipler si sente appoggiato da scienziati come J. Haldane, J. Barrow, R. Dawkins, J. Bernal, H. Moravec, P. Dirac, F. Dyson e dal filosofo R. Nozick.
Ora, è indubbia la sostanziale affinità concettuale tra la potenza di Dio e la potenza dei grandi calcolatori del futuro remoto, capaci in linea di principio di riprodurre tutto il passato e perfino consentirgli di svilupparsi nel futuro. Quel che non sta in piedi – ed è un vero peccato che tanta buona intelligenza del nostro tempo sia impegnata a difenderlo – è il “riduzionismo”, ossia la teoria per la quale «le forze e le particelle studiate dalla fisica sono la “sostanza” che costituisce la realtà», ogni realtà, anche quella umana, cosciente, affettiva.
Desidero avvertire il professor Tipler (giustamente sensibile a questo genere di rilievo critico) che ogni forma di “riduzionismo” non sta in piedi perché è una contraddizione logica. Infatti, se qualcosa – ad esempio la coscienza umana – è totalmente riducibile a qualcos’altro – ad esempio il cervello –, ne viene che la coscienza non può in alcun modo differire dal cervello, perché, per quel tanto che ne differisse, non sarebbe riducibile ad esso. Ma, anche se si crede che senza cervello non ci sia coscienza, i due differiscono come il verde differisce dal giallo; ed è quindi contraddittorio affermare che siano identici.
Inoltre, se non ci fosse differenza tra due enti, non potrebbe nemmeno esserci riduzione di uno all’altro. Il concetto di “riduzione” richiede che, insieme, ci sia e non ci sia differenza tra i due. Nonostante la sua aria di enfant terrible, il riduzionismo è comunque un concetto eminentemente teologico, giacché anche il pensiero teologico crede che tutta la “sostanza” del mondo sia in Dio – e cioè vuole “ridurre” il mondo a Dio. Con gli inconvenienti che si ripresentano nel riduzionismo fisicalistico.
Il riduzionismo è contraddittorio. E la pretesa degli scienziati come Tipler di risolvere con la scienza i problemi più profondi dell’uomo si rivela da ultimo – nonostante lo straordinario dispiegamento di mezzi fisico-matematici di cui anche questo libro dà saggio – un’illusione.