XVII
Epistéme, scienza, destino

Mangiando il frutto proibito Adamo vuol essere immortale. Ma questa volontà è possibile perché egli crede (cioè vuole) di essere mortale. La volontà di immortalità presuppone il riconoscimento che la condizione originaria è quella mortale. Volersi liberare dalla morte è un modo di riconoscerne l’esistenza. È una vicenda che si perpetua. E, ormai, la morte di Adamo (e di ogni uomo) significa il suo annientamento.

Ancora oggi il cristianesimo guarda con preoccupazione la tecnica senza controlli: vede in essa il frutto più maturo del peccato originale, cioè della volontà luciferina di riscattare con la conoscenza l’uomo dalla morte (cioè dall’annientamento). La volontà di dominio in cui consiste la tecnica è desiderio di immortalità, volontà di imporsi al Tutto. L’immortalità non è più una grazia di Dio; è una conquista dell’uomo. Questo significa uccidere Dio.

Vi è però un significato essenzialmente più profondo del peccato. Una sua forma radicalmente diversa. La vera Follia, il vero peccato – il vero errore (giacché la parola neotestamentaria amártema significa, insieme, “colpa” e “errore”) – non è la volontà di essere immortali, ma la volontà che la morte, intesa come annientamento, esista. Il peccato è la fede che è posseduta sia da Dio, sia da Adamo e dal Serpente: la fede nella morte dell’uomo. La forma essenziale del peccato, il vero peccato è congiuntamente compiuto da Dio, dal Serpente, dall’Uomo: credere nella annientabilità dell’uomo e delle cose, volere che il mondo sia uscito dal nulla per ritornarvi. Ma anche voler essere immortali ed eterni è il vero peccato. Nel voler essere eterni, certo, è incluso il pensarsi eterni; ma se anche questo pensiero è soltanto una fede che attribuisce l’eternità a qualcosa che non mostra la necessità del proprio essere eterno, allora anche questo pensarsi eterni è il vero peccato, perché la fede attribuisce l’eternità a ciò che, non mostrando con verità la propria eternità, si presenta daccapo come mortale. (La fede è la violenza di questa attribuzione.) La vera libertà dal peccato è il destino in cui appare la verità dell’eternità di ogni essente.

D’altra parte nei miei scritti si mostra che queste affermazioni non intendono smentire ciò che appare – l’“esperienza”. Quando si dice che il sole tornerà ci si affida a un’interpretazione (o inferenza): lo si è visto tornare molte volte, dunque tornerà ancora. In base allo stesso tipo di interpretazione si dice: I morti non li si è mai visti tornare; dunque sono diventati nulla. Per giungere a questa conclusione, ci si affida a un’interpretazione del mancato ritorno, che si basa sull’esperienza passata, non sull’esperienza dell’annullamento. L’esperienza – l’apparire degli essenti – tace intorno a ciò che non le appartiene. Questa irruzione “culturale”, che interpreta come annullamento la morte, senza che alcunché abbia a mostrare l’annullamento di chi muore – pur essendo manifesta, cioè pur appartenendo all’esperienza l’atrocità di ciò che vien chiamato morire – è il peccato autentico, che si sviluppa nella distruttività e nella creatività crescenti dell’Occidente. La tecnica crea con la convinzione che il creato possa essere anche distrutto. Già il creatore di Adamo ne è anche il distruttore.

La morte, intesa come annientamento, è qualcosa che non può esistere e che quindi non può nemmeno apparire. Ma tutto ciò che appare, di quello che chiamiamo “morte”, esiste – ed è anzi un eterno. Che la morte sia l’annullamento dell’uomo non è una realtà che esista indipendentemente dalla volontà (o fede) che la morte sia annullamento; non è una “necessità” suprema di cui non si possa che prender atto. All’opposto, la necessità autentica, il destino in cui sta ogni cosa è la libertà dalla morte annientante. Non è la morte annientante a imporsi all’uomo, ma è la volontà di potenza a credere nell’esistenza dell’“uomo” – ossia di un centro di forza cosciente, capace di coordinare mezzi in vista della produzione di scopi – e nella sua “morte”. Questa invenzione-evocazione della morte – questa volontà di morire – non può smuovere la necessità autentica del destino (cioè l’eternità dell’essente e l’impossibilità della morte annientante); e quindi non può ottenere altro che il mondo della Follia, il mondo di sogni in cui vive ormai tutta la Terra e che si presenta come il mondo vero della veglia.

Dostoevskij dice che se Dio non esistesse tutto sarebbe lecito. Non esisterebbe più il peccato. E in verità Dio non esiste. Ma Dostoevskij parla rimanendo all’interno della fede essenziale dell’Occidente. E qui ha ragione. Se Dio, che unifica il mondo, non esiste, il mondo è un ammasso di eventi tra loro separati. In questa situazione la più atroce violenza è innocente perché separa cose che sono già separate. Se non esiste un Dio che unisce nella propria potenza le cose del mondo, dov’è la violenza dell’omicidio? Non esiste più un nesso necessario fra l’uomo e la sua vita – che dunque possono essere separati.

Ma per Dostoevskij, se non esistesse Dio rimarrebbe solo il divenire, il tempo, la frantumazione del mondo. Nel destino della verità, invece, non esiste né un mondo unificato da Dio, né un mondo senza Dio e ridotto a puro divenire e frammento.

Nel destino, la storia dell’Occidente si presenta come una complessità unificata. Il destino sta al di là di questa complessità, nel senso che esso è il luogo originario in cui si manifesta ogni “al di qua” e ogni “al di là”, ogni “vicinanza” e ogni “lontananza”. Il suo stare “al di là” dell’Occidente non ha nulla a che vedere con la “trascendenza” teologica.

La “storia dell’Occidente” appartiene alla storia del mortale. Nel destino della verità la “storia” non è ciò che con questa parola viene pensato dalla cultura dell’Occidente, ma è il sopraggiungere degli eterni nel cerchio dell’apparire. Il corteo degli eterni che, in ciò che chiamiamo “storia dell’Occidente”, si fanno innanzi appartiene al corteo degli eterni che si fanno innanzi nella storia del mortale, ossia di chi crede, già prima del pensiero greco, nelle trasformazioni e nelle metamorfosi delle cose, cioè nel divenir altro delle cose. I Greci rendono infinito il divenir altro, perché l’“altro” è, per loro, l’essere rispetto al nulla, e il nulla rispetto all’essere, e l’essere è l’infinitamente altro dal nulla. La fede nel divenir altro (che si specifica nella fede nel divenire infinitamente altro) è il principio che unifica la complessità della storia dell’Occidente, e che dunque unifica anche fenomeni apparentemente così lontani come il cristianesimo e la tecnica.

Scienza e tecnica sono destinate a diventare qualcosa di ben più decisivo del cristianesimo, anche se ne condividono l’essenza. Sulla scacchiera, cioè all’interno dell’essenza dell’Occidente, preparata dal pensiero greco, l’Apparato scientifico-tecnologico è il nuovo rimedio contro il dolore provocato dalla fede nel divenire. È l’ultimo Dio. Il cristianesimo è un grande gioco. Certamente diverso da quello dei Greci; ma pur sempre giocato sulla loro scacchiera. Poiché il destino della verità vede che è la scacchiera della Follia, esso vede la Follia di ogni gioco praticato su di essa. Si continua a dire che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe e l’Uomo-Dio non sono il Dio dei filosofi. È vero, ma sono diventati tutti giochi giocati sulla scacchiera costruita dai Greci. Anche chi – come Karl Barth, il cui esempio è stato largamente seguito – vuole liberare completamente il Dio di Gesù dal Dio dei filosofi, tien fermo tuttavia che Dio è l’eterno e il mondo è tempo. Ma l’opposizione dell’eterno al tempo è il pensiero fondamentale della filosofia greca, è il centro della scacchiera; è l’essenza dell’Occidente. L’“eterno” – ciò che è ed è impossibile che non sia – è contrapposto al mondo temporale, cioè all’insieme degli essenti che sorgono dal nulla e vi ritornano. Senza questa contrapposizione il cristianesimo perderebbe i propri connotati; ciò che in esso vi è di specifico diventerebbe indeterminato.

La critica autentica alla fede non è una fede (come qualcuno mi obbietta). Nei miei scritti si mostra in che senso la fede attribuisce i tratti della luce a ciò che rimane nell’oscurità, i tratti della verità a ciò che non appare come verità, e in che senso, per questa attribuzione, la fede è violenza. Accertare la contraddittorietà della fede non è mantenersi all’interno di essa, solo se la contraddizione appare all’interno del destino della verità. Il senso della negazione della contraddizione, comunque, non è affatto qualcosa di semplice. L’Occidente è il tentativo fallito di negare la contraddizione. Solo il destino della verità ha la capacità di negarla. E il destino non è una fede. Il destino non è nemmeno l’epistéme, e nemmeno quella “verità assoluta” della ragione epistemica, che il pensiero teologico accetta ma distingue dalla “verità soprannaturale” della rivelazione. Comunque, la stessa ragione epistemica presupposta dalla teologia cristiana, se intende adeguatamente se stessa, deve escludere – dallo stesso punto di vista, dunque, della tradizione filosofica dell’Occidente – che la “verità soprannaturale” del cristianesimo (inclusa l’incarnazione di Dio in un certo uomo) sia un’evidenza o una “verità storica”, e deve riconoscere che essa è un problema.

Se la ragione epistemica presupposta dal pensiero teologico è trasparente a se stessa, deve affermare che il cristianesimo è un problema, e che dunque può tanto salvare, quanto perdere l’uomo.

Per la dottrina ufficiale della Chiesa la “verità soprannaturale” non è la “verità naturale”, che, non smentibile né modificabile, è il contenuto incontrovertibile della “ragione”. La “verità soprannaturale”, per il pensiero teologico, non può essere conosciuta dalla “ragione”. Ma questo significa (sebbene la Chiesa eviti di riconoscerlo) che agli occhi della “ragione” la “verità soprannaturale” è un problema. Ossia è un problema che essa sia “verità”. Che essa lo sia non è qualcosa di saputo incontrovertibilmente, ma è affermato dalla fede cristiana, ossia da una certezza che può essere smentita, modificata, negata.

Ma la verità autentica – il destino della verità – non solo non è una fede, ma non è nemmeno la “ragione” che, sia pure in posizione subordinata rispetto alla fede, la Chiesa intende difendere. E non è neppure alcuna delle varie forme che la ragione epistemica è andata assumendo lungo la storia dell’Occidente.

Anche l’epistéme intende mostrare la verità, ossia ciò che sta e non si lascia smentire; ma per l’epistéme ciò che sta è l’opposizione dell’Eterno e del tempo – cioè il quadro sapienziale in cui al di sopra dell’esistenza nel tempo esiste l’Eterno. E questo è il quadro della Follia e della violenza estrema – il deserto dell’errore. Perché l’epistéme riconosce l’esistenza del divenire dell’essere – crede cioè che il contenuto della Follia sia reale – e ne vuole essere la comprensione incontrovertibile. E appunto per questo essa pensa il divenire (il tempo) in relazione all’Eterno.

Ma l’epistéme – e il tipo di civiltà che le corrisponde – è destinata al fallimento – sia pure lungo un processo in cui si presentano forti resistenze al tramonto della tradizione occidentale. L’Apparato scientifico-tecnologico (la forma suprema della volontà di potenza) sottomette tutte le grandi ideologie della tradizione, compreso il cristianesimo, e diventa il loro scopo. Ma questo può accadere perché l’Occidente non crede più nella loro verità. Accade tuttavia che la filosofia contemporanea fatichi a mostrare la forza invincibile con cui essa distrugge la verità epistemica, e che quindi le forze della tradizione facciano resistenza, si ribellino alla tecnica e alla scienza, rifiutino di sottomettervisi e ribadiscano i valori di cui sono portatori e che la tecnica deve realizzare. La tendenza fondamentale del nostro tempo è la sottomissione di quei valori alla tecnica (e quei valori sono sempre meno presenti nella coscienza della gente), ma sono possibili i capovolgimenti di fronte nel rapporto tra la tecnica, da un lato, e l’epistéme e l’ideologia dall’altro.

Oggi la parola “ideologia” ha una denotazione spesso negativa. Con questa parola si intende generalmente un modo di pensare che guida l’azione, soprattutto politico-economica, ma che ha perduto il contatto con i propri fondamenti. E invece “ideologia” ha un significato più profondo, come la parola stessa suggerisce. Le ideologie sono in crisi non perché non siano più capaci di stare in relazione al loro fondamento, ma perché il concetto stesso di fondamento è in crisi. Appunto la crisi dell’epistéme.

Dire che l’epistéme è destinata al tramonto perché rende impossibile il divenire, significa che il divenire rende impossibile la volontà dell’epistéme di essere un sapere incontrovertibile e assolutamente indipendente.

Il pensiero contemporaneo mette in rilievo che il sapere epistemico, che intende essere incondizionato e assoluto, è invece condizionato e relativo. È condizionato dalla volontà di potenza (come pensa Nietzsche), dagli impulsi e dall’inconscio (Freud), dalla storia (come pensano le varie forme di storicismo), dalla società (è la tesi della Wissensoziologie), dall’evoluzione biologica e dal carattere materiale e finito dell’esistenza umana, dal linguaggio (come sostengono le filosofie della “svolta linguistica”). Si mostra cioè in vari modi che l’epistéme non è assoluta, ma relativa a quelle diverse forme di condizionamento. Le quali sono le diverse forme del divenire.

Dire che l’epistéme è condizionata in quei diversi modi significa cioè che è condizionata dal divenire, ossia che il divenire le impedisce di essere una dimensione assoluta e incondizionata. E affermare che per il pensiero contemporaneo l’epistéme rende impossibile il divenire significa (visto che per il pensiero dell’Occidente il divenire è l’evidenza innegabile) che il pensiero contemporaneo mostra come le varie forme del divenire condizionino la sapienza epistemica e le impediscano di essere qualcosa di assoluto. È in questa prospettiva che si deve parlare del significato profondo dell’“ideologia” e del senso che deve essere attribuito alla cosiddetta “crisi delle ideologie”.

Marx è tra i primi a mostrare il condizionamento dell’epistéme. Lo chiama «critica dell’ideologia». La parola “ideo-logia” indica un lógos – un pensiero – che ha come contenuto l’Idea. Da Platone a Hegel l’Idea è il Senso assoluto, definitivo, eterno, e incontrovertibile del Tutto. Il lógos che ha come contenuto l’Idea non è dunque un sapere condizionato, ma è il sapere assoluto, incondizionato: è l’epistéme stessa. Il lógos è l’alétheia, cioè il disvelamento del contenuto dell’epistéme; l’Idea è il contenuto epistemico.

La critica marxiana dell’ideologia, mostrando che l’ideologia dipende dai rapporti di produzione, mostra la sua dipendenza dal divenire sociale. Tale critica è cioè uno dei primi modi in cui la filosofia contemporanea mostra che il divenire rende impossibile l’assolutezza dell’epistéme, ossia rende impossibile l’assolutezza di ciò che rende impossibile e impensabile il divenire del mondo. Questo, anche se “ideologia”, in Marx, non significa soltanto “epistéme” ma anche tutte le forme culturali (i lógoi) che però, più o meno direttamente, sono riconducibili al lógos che ha come contenuto l’Idea.

Se – come si sta richiamando anche in queste pagine – gli scopi e i valori delle ideologie finiscono con l’essere subordinati al potenziamento dell’Apparato che dovrebbe realizzarli, e l’Apparato si trasforma, da strumento, in scopo, le ideologie alimentano tuttavia le istanze etiche in base alle quali si intende limitare la dominazione della tecnica. Che però sono prive di fondamento. Certo, l’Apparato non è una pura Macchina, ma è anche una compagine umana. Ed è indubbio che i gruppi umani che a vario titolo le appartengono – e che sono sostanzialmente i popoli privilegiati della Terra – non intendono sacrificare la propria esistenza. Ma questa volontà di sopravvivenza non è la volontà di far valere i principi universali dell’etica. È piuttosto la preoccupazione, da parte dei gruppi privilegiati della Terra, di perpetuare i loro privilegi e di non pagare un prezzo troppo alto per il potenziamento della tecnica che li produce (limitando ad esempio le sperimentazioni sull’uomo).

Qui non si tratta di principi etici universali (i popoli ricchi non si preoccupano di quelli poveri – in generale i ricchi non si preoccupano dei poveri), ma di istinto di sopravvivenza della compagine umana che appartiene all’Apparato e che crede di guidarlo. È indubbio che in tale compagine certi esperimenti vengano ritenuti contrari ai “diritti” dell’uomo. Ma che cosa accadrebbe se questi esperimenti determinassero vantaggi e utilità di grandi proporzioni per coloro che sono i privilegiati tra i popoli e all’interno dello stesso popolo; e che cosa farebbero quanti si mostrano oggi indignati di fronte alla violazione dei “diritti” dell’uomo? Se nell’era dell’ingegneria genetica avanzata lo sviluppo tecnologico potenziasse in modo per noi ancora inconcepibile i gruppi umani privilegiati, è dubbio che si leverebbero con altrettanta intensità le proteste “etiche” – oggi diffuse appunto perché non si vede ancora l’utilizzazione economica su grande scala della sperimentazione biologica.

Col tramonto dell’epistéme l’etica non ha più alcun fondamento assoluto; e d’altra parte nemmeno il sapere scientifico è in grado di fondare la propria potenza. Innanzitutto, perché la scienza, ormai, sa di non possedere alcuna conoscenza incontrovertibile della realtà. Sa soltanto, ormai, che applicando certe strutture concettuali riesce di fatto a trasformare la realtà e a dominarla. Ma perché tali strutture siano in grado di trasformarla rimane un problema, e la loro potenza rimane, appunto, un fatto non garantito da alcun fondamento assoluto. Accade che, usando le strutture concettuali fisico-matematiche, e non quelle, poniamo, della magia e della religione, si ottengano risultati mai prima raggiunti. Ma che alla concettualità scientifica sia garantita tale potenza, questo la scienza non lo può dire, perché altrimenti ritornerebbe alla pretesa epistemica di mostrare definitivamente e in modo assoluto la verità. La scienza è potente proprio perché ha voltato le spalle a quella “verità assoluta” che impedisce alla scienza di estendere indefinitamente la sua potenza sulle cose.

Non poche forme del sapere scientifico sono ancora al di sotto del livello raggiunto dalla coscienza epistemologica del nostro tempo, e sono ancora convinte che le conoscenze scientifiche siano verità assolute, come pensava Galileo e come ancora poteva credere Einstein (quando ad esempio si poneva in atteggiamento critico rispetto all’indeterminismo fisico e affermava l’eternità del presente, del passato e del futuro). Ma oggi la scienza, nel suo insieme, conosce il carattere ipotetico delle proprie procedure e della propria concettualità, e quindi conosce il carattere puramente fattuale della propria potenza sul mondo.

In questa direzione, si afferma che non è possibile dedurre da un asserto scientifico un imperativo; e si distinguono i “giudizi di fatto” (al culmine dei quali stanno gli asserti scientifici) dai “giudizi di valore”, che danno vita agli imperativi. La scienza, in questo modo, si illude ancora di essere una pura visione o constatazione di ciò che esiste, e non l’apprezzamento e la scelta di certi valori. Poiché nel giudizio di valore si afferma che la volontà deve impegnarsi in una certa direzione – ossia tale giudizio è una valorizzazione della realtà –, la separazione tra “giudizi di fatto” e “giudizi di valore” è illusoria, perché – come abbiamo rilevato – la scienza non può prescindere dalla valorizzazione della propria volontà di potenza. Volendo accrescere indefinitamente la propria potenza, la scienza non è un semplice atteggiamento constatativo che prescinde dai “giudizi di valore”, dalla valorizzazione, dall’indicazione di come “devono” essere le cose, e dunque dagli imperativi. Alla base della scienza agisce il supremo “giudizio di valore”, il più potente degli imperativi, l’imperativo che l’Apparato rivolge a se stesso. Ciò non significa che la distinzione tra “giudizi di fatto” e “giudizi di valore” non abbia alcun senso. Al contrario! Che dagli asserti scientifici non si possano dedurre imperativi è di certo uno dei teoremi che più esprimono l’emancipazione dell’epistemologia contemporanea. Ma esso ha valore rispetto alle pretese che l’etica intende far valere sulla scienza. Alla base di tale emancipazione agisce – sebbene in forma implicita – il principio che al divenire non si possono assegnare regole, che gli impongano di adeguarsi all’Ordinamento epistemico della verità. Tale adeguazione non può essere un imperativo per il divenire. Il divenire è il “fatto” supremo e, come tale, è l’oggetto stesso della scienza. Il che vuol dire che dagli asserti scientifici, che sono i “giudizi di fatto” veri non è possibile dedurre alcun imperativo.

Anche gli asserti scientifici appartengono dunque alla fede fondamentale dell’Occidente. Giacché il fatto del divenire è il contenuto di una fede; e tale fede è una valorizzazione, un giudizio di valore, un imperativo, l’imperativo di considerare il divenire (che non è un fatto), come un fatto. È all’interno di questa fede, che il “fatto” del divenire non tollera imperativi (in quanto riconducibili agli imperativi etico-metafisici dell’epistéme). All’interno della fede nel divenire, rimane cioè quella distinzione tra “giudizi di fatto” e “giudizi di valore” che finisce col negare ogni carattere assoluto e incontrovertibile a quest’ultimi.

Con il tramonto dell’epistéme il “fatto” del divenire rimane unito alla convinzione (cioè, daccapo, alla fede) che esistano forze capaci di trasformare il mondo, e che la forza più potente sia ormai l’Apparato della scienza e della tecnica. Il “fatto” del divenire rimane unito, anche dal punto di vista della scienza, al “fatto” della volontà che vuol far divenire altro le cose; e, per la volontà, la volontà stessa e l’indefinito incremento della sua potenza è il contenuto del supremo imperativo, del supremo “giudizio di valore”. L’imperativo, per la volontà dell’Apparato, è la crescita indefinita della volontà di far divenire altro le cose (sul senso del “divenire altro” cfr. cap. XVIII e E.S., Tautotes, Adelphi, 1996). La volontà dell’Apparato dice a se stessa: «Sii infinitamente potente».

La distinzione tra “giudizi di fatto” e “giudizi di valore” è dunque da ripristinare ben al di là della consapevolezza, oggi diffusa, che «i fatti sono carichi di teorie», e che dunque i giudizi di fatto sono giudizi di valore che assumono l’apparenza di descrizioni di fatti. Volere la potenza non è una semplice constatazione della realtà – e non è nemmeno un imperativo categorico, perché solo alla condizione di non volersi annientare l’Apparato vuole accrescere indefinitamente la propria potenza.