NOVE

Mentre Guardiola parla alla stampa, i giocatori stanno ancora finendo la rifinitura sul prato del Bernabeu. Quando riaccendono i telefonini, dopo la doccia mentre si dirigono al pullman, li trovano intasati di messaggi entusiastici. Xavi l’ha raccontato al giornalista di Sky UK Guillem Balagué, autore di una bella biografia di Guardiola: «Rimasi esterrefatto nel sentire quello che Pep aveva fatto. Scioccato. E mi piacque, mi piacque moltissimo». Rientrati in hotel, i giocatori si fiondano nelle camere in cerca di un telegiornale con le immagini della conferenza stampa. Lo trovano subito, le porte dei vari appartamenti sono aperte, si chiamano l’un l’altro, ridono, gridano di gioia sottolineando i momenti salienti del discorso di Pep, ovviamente quelli più polemici. Qualcuno ha fatto venire a Madrid i parenti, scende allora nella hall e ascolta la loro eccitazione prima ancora di riuscire a comunicare la sua. L’indignazione pomeridiana per le accuse di Mourinho si è trasformata prima in sollievo, perché finalmente Pep ha risposto, e poi in entusiasmo, perché una volta rotti gli argini la piena ha travolto tutto. La squadra si ritrova nella sala ristorante in un clima di grande allegria, e questo a ventiquattr’ore da una delicatissima semifinale di Champions League: situazione impensabile soltanto poche ore prima, e in assoluto rara. Quando Guardiola entra in sala, accompagnato dall’amico cineasta David Trueba, viene accolto da un’ovazione. Tutti i giocatori scattano in piedi e lo applaudono per una trentina di secondi. Per quanto fosse consapevole di aver inviato un messaggio molto forte sia al rivale che ai suoi giocatori, Pep resta stupefatto.

Fresca come sempre ad aprile, la sera cala su una Madrid al vertice dell’esaltazione per le ore che sta vivendo. Quella notte la capitale spagnola è incontestabilmente il centro del mondo del calcio: i ristoranti sono pieni di vecchi campioni venuti da tutto il pianeta per commentare la grande sfida sulle loro televisioni, dei giornalisti migliori non manca nessuno, dovunque ci si giri si trova un dirigente che conosci, un allenatore in aggiornamento, la famosa collega messicana dalle forme esplosive e forse un po’ troppo cristallizzate nel tempo per essere del tutto credibili, amici che non vedi da un Mondiale o un Europeo, in ossequio ai ritmi biennali che governano il villaggio globale del pallone. Filippo Ricci, l’eccellente giornalista che da Madrid racconta sulla «Gazzetta» il calcio spagnolo, è il perno attorno al quale tutto ruota. Assieme ad altri due corrispondenti di gran livello, l’inglese Sid Lowe del «Guardian» e l’argentino Martin Einstein di «Espn Sudamerica», cura Los Corresponsales, un podcast trilingue su YouTube nel quale l’attualità viene narrata e analizzata con uno splendido piglio ironico. Essendo uno degli organizzatori della squadra di calcio dei giornalisti stranieri di stanza a Madrid, non esiste porta che non gli si apra. Il maître del ristorante argentino De Maria, per esempio, è un ospite frequente delle loro partite; succede così che in serate come questa, nella quale c’è il mondo in coda fuori dalla vetrata della calle Felix Boix (posizione strategica, a pochi isolati dal Bernabeu), lui apra agli amici la saletta riservata del ristorante, quella con la televisione, per consentirci di lavorare guardando l’altra semifinale, fra Schalke e Manchester United, aggiungendo un bicchiere di vino all’eccitazione per gli eventi vissuti in giornata e per quelli in arrivo l’indomani. Naturalmente la saletta è un porto di mare, c’è chi va, c’è chi viene, chi si ferma a guardare la partita e ne approfitta per cenare – dovrebbe essere il contrario ma il clima è piuttosto informale, i piatti di prosciutto viaggiano senza bisogno di ordinarli – chi sbircia gli articoli, chi beve più di un bicchiere. Accanto a me si piazza Michael Robinson, un ex giocatore del Liverpool che, dopo aver chiuso la carriera all’Osasuna di Pamplona, si è fermato a Madrid diventando un importante commentatore televisivo, prima alla Tv nazionale e poi a Canal Plus. Il suo Informe Robinson è uno dei programmi più visti. Da bravo irlandese è un ottimo bevitore, e mi costa qualche fatica terminare l’articolo mentre lui mi spiega – del tutto disinteressato se lo stia seguendo o meno – le differenze fra calcio spagnolo e calcio italiano. Alla sua sinistra siede Santiago Solari, giocatore non eccelso passato per il Real Madrid e anche per l’Inter, ma insospettabilmente brillante nelle sue opinioni, pubblicate settimanalmente sul «Pais»: anni dopo se ne sarebbe parlato come dell’uomo che Florentino voleva mettere accanto a Zidane quando decise di promuovere il francese al posto di Benitez, ma Zizou ottenne che il suo assistente storico, Bettoni, potesse seguirlo nella nuova avventura. Quando la tenda che protegge la saletta alla vista degli altri clienti si scosta per far passare Ronaldo – il Fenomeno, l’altro è in ritiro – diventa evidente che la serata sta decollando. E non è neanche l’una del mattino.

Nello stesso momento, mentre la città tira tardi attraversando allegra la notte prima del grande show, i protagonisti stentano a prender sonno. È un classico delle vigilie importanti. Nei corridoi degli alberghi si incrociano i coyote – così Bearzot definiva gli insonni, a partire da Tardelli – ciascuno coi suoi demoni, meno propensi a condividere l’attesa rispetto a un tempo, quando le partite a carte fungevano da sonnifero, e desiderosi soltanto di chiudersi nel loro mondo, i cui confini sono tracciati dalle cuffie che li isolano assieme alla loro musica. Oppure a una preghiera, a un messaggio dei parenti, o magari a una linea hot. Ciascuno ha il suo metodo per non pensare all’indomani.

Fra quelli che non dormono ci sono i due allenatori.

Guardiola misura a lunghi passi la stanza, arrivando alla finestra e osservando l’oscurità come fosse il fondo di un pozzo. Ha la convinzione tecnica di essere inferiore, perché sente la squadra stanca e perché i malanni di Iniesta e dei terzini sinistri lo costringono a soluzioni raffazzonate, molto distanti dall’efficienza della formazione base. Avverte, però, che la risposta decisa a Mourinho ha rianimato l’orgoglio del Barça in tutte le sue componenti, e dentro di sé comincia a sperare che stavolta la guerriglia psicologica del rivale – e forse in questo caso parlare di nemico è più rispondente alla realtà – si riveli un autogol: che Mou, esagerando, abbia motivato i giocatori del Barcellona più di quelli del Real Madrid. Le moderne squadre di calcio di alto livello, zeppe di campioni ormai abituati a proporsi come brand individuali, sono spesso gruppi di professionisti privi di sentimenti forti: un allenatore può risultare più o meno gradito, più o meno simpatico, ma si lavora con tutti e ci si tiene distanti da prese di posizione troppo dure, perché non sai mai chi ti guiderà domani. La rosa del Barcellona fa un’eccezione per Mourinho, detestandolo apertamente, ed è una cosa normale se si considera che il portoghese ha scelto da anni (già dai tempi del Chelsea) la contrapposizione più polemica con quello che anni prima era stato il suo club. L’ovazione dedicata a Guardiola nella sala ristorante aveva un significato preciso: non ti angustiare per esserti lasciato in qualche modo risucchiare dai giochetti di Mourinho, noi restiamo orgogliosi di te e felici che tu non abbia lasciato passare anche questa. Da bravo amico Estiarte capisce che questo è più che mai il momento di sostenere Pep e le sue scelte, e si tiene per sé i molti dubbi sull’opportunità di rispondere in maniera così diretta proprio stavolta, dopo la sconfitta in Copa del Rey e alla vigilia di una partita che l’infortunio di Iniesta ha rivalutato da difficile a difficilissima. Manel è stato un grande campione e conosce la prima legge dello sport, ingiusta quanto inevitabile: comanda il risultato, e tutto verrà riletto alla sua luce. Se il Barcellona andrà in finale, l’intemerata di Pep verrà considerata geniale, se ci andrà il Real passerà per sciocco. Ma questo glielo dirà più avanti. La vigilia è il momento del supporto incondizionato.

A qualche chilometro di distanza, nella quiete di Valdebebas, nemmeno Mourinho riesce a prendere sonno. La replica di Guardiola, per quanto forte, non è stata scomposta, e quindi il suo piano di coinvolgerlo nella rissa verbale può dirsi riuscito, ma non trionfante. Resta da vedere, quindi, se il nervosismo indotto sarà sufficiente a togliergli lucidità. Mourinho legge e rilegge formazione e panchina così come le ha compilate da tempo, consapevole che se le cose dovessero andargli male un parco riserve composto da Kakà, Benzema e Higuain, a fronte di un centrocampo nel quale giocano titolari Pepe e Lass Diarra, gli verrà rinfacciato. Il suo piano, però, non deroga dal difensore aggiunto al centrocampo – Pepe – e dal centrocampista di talento – Ozil – portato davanti al posto di un attaccante. La più luminosa delle sue stelle, Cristiano Ronaldo, gli ha già fatto sapere più volte di preferire uno schieramento più offensivo, ma il tecnico è convinto, a ragione, di poter reggere il dissenso del suo giocatore più importante grazie al sostegno di Jorge Mendes, il potentissimo agente di entrambi. Ronaldo e Mourinho sono gli asset più proficui del suo portafogli, e fino a Madrid il procuratore aveva fatto in modo di tenere le loro carriere separate, in modo da non giocarsi tutte le fiches su un solo club. Ma ora che il suo impero si è smisuratamente allargato e che il «cliente» Florentino Perez gli ha chiesto di fare qualsiasi cosa pur di interrompere il dominio del Barcellona, Mendes è stato praticamente costretto a riunire i suoi cavalli di razza, usando se stesso come garanzia – è molto, molto amico di entrambi – per farli andare d’accordo, o perlomeno per trovare un modus vivendi accettabile.

L’ultimo giocatore col quale Mourinho ha un colloquio prima di suonare la ritirata è Pepe, un altro assistito di Mendes. Il ruolo di vilain che gli ha cucito addosso, un cattivo esagerato nei modi e meschino nelle simulazioni, è pesante da portare, e ciclicamente Mou è costretto ad assicurargli che qualsiasi cosa accada lui avrà il suo sostegno, si parli di contratti da rinnovare come di critiche da rintuzzare. Al Porto e agli inizi del suo tragitto a Madrid, Pepe era un ottimo stopper: l’avanzamento a centrocampo lo costringe a spremersi i polmoni e a entrare duro in campo aperto, laddove prima era un artista delle mischie. Pepe è molto esposto, a centrocampo e in una zona in cui finisce per incrociare la rapidità di Messi, e Mourinho gli chiede di intimidire più che di colpire, perché gli arbitri internazionali se ne sbattono del prestigio del Real, specie quando dall’altra parte c’è un club (quasi) altrettanto importante, e fischiano, mostrano cartellini, buttano fuori. La missione di Pepe è correre sul filo del rasoio, incutere paura, e quindi nervosismo, senza correre troppi rischi. Un incarico complicatissimo, ma che accoglie senza che la fissità del suo sguardo si incrini. Pepe è un soldato.

Il giorno dopo le delegazioni direttive dei due club entrano dopo le 13 nell’asador prescelto per il pranzo ufficiale, non lontano dallo stadio, e la prima portata di prosciutto iberico – la qualità migliore, il più noto serrano è un imbroglio per turisti – cala nel gelo della sala riservata. I giornali esplodono di pagine con cronaca e retroscena delle conferenze stampa del giorno prima, e i dirigenti si guardano la punta delle scarpe, imbarazzati. Rosell è il primo a riaversi, e a rivolgersi direttamente a Perez: «Presidente, deve fare qualcosa per limitare le esternazioni del vostro allenatore. Non possiamo permettere che le sue polemiche contagino i club e le due tifoserie». Florentino lo guarda come si guarda un ingenuo, per non dire di peggio. «Presidente, lei conosce Mourinho. Non c’è nulla che io possa fare per impedirgli di dire le cose che sente».

Nessuna censura dunque, Mourinho dice «le cose che sente».

Il messaggio è trasparente: in questo momento il nostro allenatore rappresenta tutto il madridismo sfibrato dalla lunga dominazione del Barcellona, e la vittoria in Copa del Rey, la prima da quando abbiamo a che fare con Guardiola, gli ha concesso un’apertura di credito illimitata. In altre parole: se polemizzando ci fa vincere, polemizzi pure finché gli pare. Rosell prende atto della risposta di Perez – che è ai limiti della presa in giro – e il pranzo fila silenzioso verso una rapida conclusione. Non verranno nemmeno serviti i tradizionali sobremesas, dolci e liquori che a fine pasto favoriscono le chiacchiere tra amici.

Qui non ci sono chiacchiere.

Qui non ci sono amici.

Per quanto molto grande, la tribuna stampa del Bernabeu non è in grado di soddisfare tutte le richieste di accredito arrivate. Siamo a livelli da record per una partita fra club, ben oltre il migliaio, e così l’ufficio stampa ha spedito un po’ di nazionalità al livello superiore: per esempio, tutti gli italiani sono stati spostati al quinto piano, molto meno confortevole (non ci sono i banchi per scrivere, né i monitor per guardare i replay: sono poltroncine che per le gare di Liga vengono vendute al pubblico), ma il criterio di scelta è inattaccabile. L’Italia non è coinvolta in alcun modo. In questo gala del calcio mondiale gli argentini hanno Messi, Mascherano e Di Maria, i portoghesi Mou e Ronaldo, i tedeschi Ozil, i brasiliani Alves e Marcelo, i francesi Diarra e così via, e dunque i giornalisti di quei Paesi hanno diritto ai posti migliori. Poi ci si lamenta se a volte siamo un po’ severi con i nostri giocatori… Al quinto piano il sole di primavera tramonta oltre la cornice dello stadio un po’ più tardi del dovuto, e occorre socchiudere gli occhi sino al momento in cui le squadre entrano in campo. Mourinho aspetta Guardiola fuori dall’imbocco del tunnel degli spogliatoi per stringergli rapidamente la mano e tornare alla sua panchina: le forme sono salve, ma fermiamoci lì.

In uno stadio come il Bernabeu, gonfio di storia e di ricordi emozionanti per chiunque ami il gioco del calcio, i minuti finali dell’attesa di una grande partita sono i più palpitanti, perché un’anima già predisposta alla bellezza assorbe una quantità di stimoli così elevata da risultare presto ingestibile dal solo cervello. Occorre il cuore, come convenzionalmente chiamiamo quella parte della nostra personalità deputata ad accogliere ed elaborare le sensazioni a onda lunga, quelle che ti arrivano e, una volta dentro, cambiano, crescono, si trasformano, esplodono. Se già il canto dei tifosi Hala Madrid comunica bene l’orgoglio e il prestigio del club più grande del mondo, il filmato che passa sul megaschermo dello stadio mentre le squadre aspettano di entrare in campo – quando i giocatori si guardano silenziosi e arcigni attraverso la grata – e poi quando si allineano per l’inno della Champions, riassume in tre minuti tutto ciò che ha fatto innamorare il tifoso del Real, e tutto ciò che suscita ammirazione e rispetto nel resto del mondo. La voce sublime di Luciano Pavarotti canta il Nessun dorma mentre passano le immagini, prima in bianco e nero e poi a colori, delle varie generazioni di campioni che hanno indossato quella maglia: si vedono i gol di Di Stefano, di Gento, di Puskas, e poi quelli di Butragueño, Sanchez e Michel, e poi ancora Raul, Mijatovic, Zidane e del Ronaldo Fenomeno, per arrivare a Sergio Ramos, ad alcune parate di Casillas e alla rabbiosa gioia di Cristiano dopo ogni rete, che sia importante o meno: ma quella sera una mano veloce ha aggiunto al video, prima che Pavarotti declini nell’immagine finale del Bernabeu bolla di luce nell’oscurità, il gol di Ronaldo di mercoledì a Valencia e un frame di Casillas che alza la coppa a Cibeles. Il boato col quale si chiude il filmato, lasciando spazio alla musica della Champions, è un annuncio di burrasca: le sciarpe merengue sventolano lungo quattro pareti di folla, creando il celebre effetto di schiuma delle onde di un mare in tempesta. Ecco, questo è il momento di massima potenza del Real Madrid all’interno della storia che stiamo narrando. L’attimo in cui il valore enorme della sua rosa odierna si salda alle meraviglie del passato. La fila dei catalani si serra un po’, tutti più vicini al capitano Puyol, che non sarà certo al massimo della condizione, ma in serate come questa è imprescindibile come e più di Messi. Cinquecento tifosi culé li sostengono dalla zona in alto a destra consentita loro dalle regole Uefa: visti lassù, acusticamente inavvertiti malgrado si veda che stanno cantando i loro cori, fanno pensare a un avamposto di uomini perduti.