SETTE
Avevamo lasciato Guardiola nella sala stampa del Camp Nou, di cattivo umore per il successo troppo faticoso sull’Osasuna e distratto al punto da lasciarsi sfuggire un paio di battute sbagliate sul terzo Clasico in arrivo. Che non sia giornata, o meglio che la sconfitta in Copa abbia lasciato un segno profondo, lo dimostra anche il discorso generale che pronuncia ai microfoni: Pep lamenta il fatto che il Barça sia arrivato con gli uomini contati al passaggio decisivo della stagione, e pur assicurando una fiera resistenza dà ragione a quanti – e secondo lui sono tanti, la maggioranza degli osservatori – dopo Valencia vedono il Real nettamente favorito per l’accesso alla finale di Champions. Guardiola non è il tipo che si nasconde, né per scaramanzia né per spostare la scimmia del pronostico sulla spalla dell’avversario, e quindi il senso delle sue parole può essere sarcastico, com’è successo venerdì, oppure semplicemente sincero. Manel Estiarte in quei giorni è molto preoccupato, perché l’ulteriore aumento dei ritmi di lavoro dell’amico – che ormai passa più di dieci ore davanti al video, lasciando al suo secondo, Tito Vilanova, gran parte degli esercizi sul campo – gli sembra una follia. Riesce a imporsi soltanto all’ora di pranzo, quando lo porta fuori dal nuovissimo centro sportivo di Sant Joan Despì per andare a mangiare sul mare in cerca di un momento di distrazione. Ma l’espediente dura venti minuti, mezz’ora al massimo, poi Pep abbassa la testa, e anche se annuisce alla domanda «mi stai ascoltando?», Estiarte capisce che non è così, che è rientrato nel suo mondo rettangolare largo 105 metri e lungo 68, un’arena psicologica nella quale sta combattendo la battaglia più dura della sua vita. Se il terzino sale, il laterale scende. Se la punta arretra, la mezzala s’inserisce… A Manel sembra quasi di sentire il rumore degli ingranaggi mentali.
Guardiola ha un problema di formazione e uno più generale.
Quello di formazione riguarda il terzino sinistro, perché dopo la gara di sabato la pubalgia ha costretto Maxwell a chiamarsi fuori, ed è il terzo nel ruolo dopo Abidal e Adriano. A questo punto l’unica chance per mercoledì è il recupero di Puyol, che però negli ultimi tre mesi ha giocato soltanto un’ora, la settimana prima al Bernabeu. Il vecchio capitano ha le ginocchia in condizioni penose, e il progetto di riciclare Mascherano centrale di difesa per sostituirlo è ormai esecutivo. Ma Puyol, per quanto conciato, continua a incarnare meglio di chiunque altro la passione e la competitività del Barcellona; Guardiola sa che alla fine potrà contare su di lui.
L’altra questione è più sottile, ed è tornata d’attualità con la buona prestazione di David Villa contro l’Osasuna, bagnata da un gol che mancava da undici partite: possibile che Leo Messi fagociti ogni tipo di partner, e dopo aver in pratica costretto il club a disfarsi di Ibrahimovic (Disfarsi. Di. Ibrahimovic. Avete letto bene) abbia mandato in crisi un altro realizzatore sin lì implacabile come Villa? Sabato sera Leo è rimasto in panchina. Malvolentieri, come in tutte le rare occasioni in cui gli tocca, salvo entrare a timbrare il raddoppio nell’ultima mezz’ora. Ma nell’ora in cui era fuori, Villa ha giocato benissimo. E questa coincidenza, che ovviamente non è una coincidenza, angoscia Guardiola, combattuto fra la precedenza agli interessi della squadra, che quasi sempre coincidono con quelli di Messi, e il desiderio di garantire a ciascuno dei suoi uomini il giusto spazio sotto ai riflettori. Alla fine sceglie sempre la prima strada, ma questo non significa che non provi angustia per chi ci va di mezzo. Rispetto a Zlatan, osservato come un alieno l’anno prima da buona parte dello spogliatoio, Villa è molto più inserito, com’è logico per uno che ha vinto Europeo e Mondiale con Puyol, Xavi e Iniesta, e dunque il problema è distante dai livelli di tensione toccati nella stagione precedente. Però esiste.
In realtà il grado di dipendenza da Messi dell’intero ambiente catalano ha ormai passato il punto di non ritorno, anche se Leo deve compiere 24 anni. A parte gli adepti del culto di Cristiano Ronaldo, nessuno contesta più il fatto che sia il miglior giocatore in attività. Si discute, piuttosto, del suo posto nella storia, che pure a quell’età sarebbe un discorso prematuro. Alla richiesta di un parere sull’ormai abituale contrapposizione tra Leo e Maradona, Santiago Segurola – grande giornalista spagnolo – ha centrato perfettamente il tema dicendo che «Messi è Maradona tutti i giorni», perché praticamente non c’è partita nella quale la Pulga non segni un gol bellissimo, o comunque non ispiri il gran gioco del Barcellona, mentre Diego – anche perché la sua non era certo una vita da atleta, a differenza di quella di Leo – si concedeva delle pause. La dipendenza da un ragazzino così dotato, ma pur sempre ragazzino, è però uno stato rischioso, perché a volte devi sottostare ai suoi capricci. L’anno prima Guardiola, seduto in prima fila sul pullman di ritorno da una trasferta vinta con un gol di Ibrahimovic, era rimasto raggelato da un sms che Messi gli aveva spedito dalla sua poltroncina in ultima fila, e che in sostanza diceva «scopro con amarezza di non essere più il tuo giocatore più importante». Senza arrivare alla crudeltà di Re Geoffrey, l’amorale sovrano bambino del Trono di Spade, Leo è un tesoro da maneggiare con molta cura per evitare guai, ivi compreso un desiderio di cambiare aria che da Laporta in poi tutti i dirigenti hanno vissuto come un potenziale scenario da incubo. Nel corso della sua storia il Barcellona ha spesso acquistato i migliori giocatori del mondo – pensate a fenomeni come Maradona e Ronaldo – lasciandoseli però sfilare, e spesso dai club italiani, quando la forza d’attrazione della lira era al top. Con Messi, cresciuto in casa e quindi più legato al club, è stata praticata una politica di concessioni tesa a non fargli mai venire la voglia di immaginarsi altrove. Una politica in qualche modo necessaria: se nei giorni di cui stiamo raccontando (ma anche oggi) un emissario di Leo avesse contattato Florentino Perez, quello gli avrebbe certamente firmato una proposta di contratto in bianco. Ripetere l’operazione Figo – per rimontare la quale il Barcellona ha impiegato anni – col giocatore migliore di sempre (o giù di lì) lo avrebbe portato sopra Bernabeu nella considerazione dei suoi tifosi. Ma l’entourage di Leo ha sempre lasciato cadere ogni segnale proveniente da Madrid.
Incaricato di guidare il Barça nella tarda primavera del 2008, Guardiola conquista Messi in sole due mosse. La prima è politica, perché in quell’estate ci sono le Olimpiadi di Pechino e Leo è stato convocato dal c.t. Sergio Batista, malgrado il Barcellona – terzo nell’ultima Liga di Rijkaard – fosse atteso dal preliminare di Champions contro il Wisla Cracovia. Il torneo olimpico non fa parte del calendario ufficiale della Fifa e quindi il Barça – imitato dal Werder Brema per Diego e dallo Schalke per Rafinha – ricorre al Tas, il tribunale sportivo di Losanna, per avere indietro Messi. La questione, molto polemica, va avanti per qualche giorno, con i giocatori già in Cina per la preparazione del torneo quando il Tas emette la sua sentenza, che è favorevole ai club. I loro obblighi nei confronti delle Nazionali non si estendono alle selezioni olimpiche, se vogliono rimpatriare i giocatori partiti nessuno glielo può impedire. In quei giorni di inizio agosto il Barcellona si trova a New York in tournée, e Laporta, che aveva spinto molto per richiamare Leo, una volta vinto il contenzioso legale lascia carta bianca a Guardiola sul come comportarsi. Pep riesce a mettersi in contatto con Leo, non senza qualche difficoltà per il fuso orario, e all’altro capo del telefono avverte il disagio di un ragazzino in fortissima difficoltà. Con la maglia dell’Argentina, Messi ha vinto soltanto il titolo under 20 del 2005, passando sostanzialmente inosservato al Mondiale tedesco dell’anno successivo, e l’Olimpiade per lui è un’occasione di farsi amare dal suo popolo, che per molti versi lo considera un estraneo non avendolo mai visto giocare nel Boca o nel River. Messi ha lasciato per sempre l’Argentina a 13 anni, e l’ha fatto direttamente da Rosario; fino al 2005 a Buenos Aires nessuno sapeva chi fosse, e ancora oggi – dopo una carriera con la Seleccion sin qui sfortunata – in molti questionano sul suo amor patrio, il classico argomento che viene tirato fuori quando non vinci. Lo choc dell’ultima sconfitta, quella nella Copa del Centenario, con annessa dichiarazione di non voler giocare mai più nella Seleccion, testimonia di una situazione emotiva fattasi nel tempo insostenibile.
Con voce tremante, quel giorno Leo implora il suo nuovo allenatore – meglio sarebbe dire il suo futuro allenatore, visto che sul campo i due non si sono ancora visti – di lasciarlo rimanere in Cina. Pep l’aveva già pensata prima di comporre il numero, perché nella sua strategia d’entrata il sostegno della Pulga era essenziale, ma a sentirlo così disperato quasi si commuove, e concede subito il suo placet. «Va bene Leo, garantirò alla società che il preliminare di Champions verrà superato anche senza di te. Puoi restare alle Olimpiadi, però adesso le devi vincere. Mi raccomando». La tensione psicologica si allenta di botto, e Messi scoppia a piangere dalla gioia. Qualche facile aggiustamento amministrativo – per esempio un’assicurazione a carico della federazione argentina – ed eccolo in campo contro la Costa d’Avorio nella prima gara del suo torneo, trionfante accanto a Juan Roman Riquelme, il vecchio cacicco dell’Argentina che da tempo assisteva infastidito all’ascesa della giovane stella, convinto com’era che non avesse carattere. La concessione di Guardiola dimostra invece che anche la Pulce è in grado di imporsi, e Leo sente subito l’elettricità di un rapporto speciale con il nuovo allenatore.
A quell’Olimpiade c’è anche Ronaldinho, che due settimane prima il Barcellona ha ceduto al Milan. Non si tratta di un grande affare per il club italiano: al lordo di alcune buone prestazioni, per esempio in un derby vinto col suo gol (e proprio contro Mourinho), nelle due stagioni di serie A il brasiliano dimostrerà di essere precocemente finito, vittima di una vita privata così disordinata da fulminarlo agonisticamente a soli 28 anni. Qualche mese prima ero stato testimone di una scena dolcissima e insieme malinconica nel ventre del Camp Nou: in attesa di intervistare Andres Iniesta nella sala Londres degli uffici del club, ero seduto in una posizione dalla quale potevo vedere il breve percorso di collegamento fra l’uscita degli spogliatoi e il parcheggio riservato ai giocatori (e siccome in linea d’aria ero dietro la porticina, se il giocatore una volta uscito non si fosse girato, non avrebbe potuto notarmi). Ronaldinho venne fuori tra i primi, da solo, con un borsello da toilette nero in mano, mentre a metà del camminamento un’addetta alle pulizie aveva iniziato il suo lavoro con scopa e straccio. Il giocatore si fermò a parlarle, una situazione bella e insolita, la donna era una nera di mezza età stanca e pesante, cittadina di quel mondo che in genere i calciatori nemmeno vedono, tanto più alto volano. Invece Dinho le dedicò qualche minuto, forse perché la conosceva. Parlavano portoghese e non spagnolo. Le chiese qualcosa sulla figlia, forse (ero comunque un po’ distante), in ogni caso su una parente che studiava, e lei, rialzandosi da terra dove aveva steso lo straccio e detergendosi il sudore dalla fronte, di rimando lo interrogò su come si sentisse. Ronaldinho fece allora un gesto triste portandosi la mano al viso, qualcosa a significare «non mi riconosco più», e i due rimasero in silenzio per un lungo attimo. Poi Ronaldinho salutò l’addetta alle pulizie, e nel congedarsi entrambi sembrarono psicologicamente affaticati, e forse si erano riconosciuti l’un l’altro proprio per questo. Il rapido tramonto del campione brasiliano, che prosegue ancora oggi, in una situazione da Buffalo Bill al circo, è una piccola tragedia del pallone.
Come già si diceva, era stato proprio Guardiola, appena firmato col Barça, a pretenderne l’allontanamento. Al di là del fatto che la sua influenza su Messi, che naturalmente lo idolatrava, rischiava di portare Leo sulla cattiva strada delle uscite notturne, la teoria di Pep dice che il campione giovane, quand’è pronto, non deve trovarsi la strada ostruita dal campione vecchio, che in genere per un po’ resta titolare per i meriti acquisiti anche dopo essere stato tecnicamente scavalcato. Il campione vecchio va venduto per facilitare l’affermazione e l’assunzione di responsabilità del campione giovane.
«Finché ci sarà Ronaldinho ogni pallone pesante verrà affidato a lui per riflesso condizionato», spiegò Guardiola a Laporta, «mentre io voglio che da quest’anno i palloni pesanti arrivino a Messi».
Un discorso analogo venne fatto per Deco, che era d’intralcio alla definitiva consacrazione di Iniesta, e per Eto’o, che invece Laporta difese con grande saggezza: nel primo anno di Pep il talento e la cattiveria del centravanti africano – quello di «le finali non si giocano, si vincono» – furono determinanti.
Tornando a Ronaldinho, l’incrocio con Messi al vecchio Stadio dei Lavoratori di Pechino per la semifinale olimpica ebbe qualcosa di toccante, perché il 3-0 inflitto quasi in scioltezza dall’Argentina al Brasile fu uno scenario coerente col passaggio di consegne fra i due in blaugrana, un passaggio reso plastico da un abbraccio a fine partita che sapeva tanto di addio. Di quella semifinale, preludio alla finale che l’Argentina avrebbe vinto sulla Nigeria al Bird’s Nest, ricordo il caotico dopogara in zona mista, con Messi che oltrepassa col suo solito sguardo assente una foresta di microfoni argentini protesi e imploranti, per poi fermarsi poco prima del pullman, perché la collega di una radio di Barcellona l’ha chiamato in catalano – «sisplau!» – e soltanto a lei si sente in dovere di rispondere. A proposito della vera nazionalità percepita dalla Pulga…
Il trionfo di Pechino ammorbidisce comunque l’atteggiamento un po’ distante degli argentini verso Messi, e siccome la cosa gli stava a cuore per i molti parenti che ha ancora a Rosario, Leo ne è molto grato a Guardiola, il quale – e siamo alla seconda mossa, quella tattica – al rientro dalla Cina lo convoca nel suo ufficio per illustrargli le novità che lo riguardano, e che sono sintetizzabili in una sola, semplice frase: «Se farai come dico io segnerai tre gol a partita». È probabile che quella del Pep sia un’iperbole, ma il rendimento degli anni successivi si incaricherà di avvicinarla molto alla realtà. Guardiola libera spazio attorno a Leo per creare un sistema offensivo filosoficamente non troppo diverso da quello che nella pallacanestro si chiama «isolamento», che nel calcio non era mai stato applicato in modo così specifico: i compagni di squadra girano al largo per aprire l’area alle devastanti incursioni dell’argentino, che è in grado di dribblare in velocità un numero impensabile di avversari, mentre gli altri, nel frattempo, glieli hanno portati via i compagni. Giocando così, stagione dopo stagione arriverà a segnare una quantità di gol grottesca, inseguito, a volte anche preceduto, dal solo Cristiano Ronaldo: se all’interno di uno sport di squadra è concepibile il duello individuale, l’esempio più calzante è il loro. C’è una data a segnare il confronto, il 2 maggio 2009: nel Clasico di ritorno della prima stagione – il sacco del Bernabeu col successo per 6-2 – Pep sposta per la prima volta Messi dalla fascia destra al centro, nel ruolo che passerà alla storia come «falso nueve». Non è in assoluto un’operazione inedita, ma coinvolgendo un giocatore di quel livello diventerà una delle chiavi fondamentali dei successi catalani di questi anni. L’unica controindicazione è il fatto che Leo fagocita in questo modo l’intero fronte offensivo: Eto’o viene ceduto al termine della prima stagione di Guardiola, il fallimento di Ibrahimovic è clamoroso (anche perché le colpe non sono soltanto sue), il grande Henry è venuto in Catalogna a giocarsi gli ultimi spiccioli di una carriera che gli ha tolto parecchie energie, resta dunque Pedro, il ragazzo delle Canarie che, affondando le proprie radici nella cantera blaugrana, vede in Messi il proprio mito ed è disposto a qualsiasi sacrificio tattico pur di giocargli accanto (non a caso sarà a lungo il migliore, finché Neymar e Suarez ridefiniranno il concetto di partner di Messi). David Villa, arrivato fra mille entusiasmi anche per il suo carattere aperto e non permaloso, segnerà qualche gol importante come una doppietta all’interno della manita, ma alla fine nemmeno il suo inserimento sarà un successo, e non solo per colpa sua.