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L’anno scolastico 1986-87 era stato l’unico in cui il maestro Antoine Py aveva cambiato capro espiatorio nel corso dell’anno.

Dal 1955 al 2001, ogni volta che ricominciava la scuola si sforzava di indovinare chi sarebbe stato il suo zimbello. Un giochino che lo divertiva molto e al quale già si preparava mentalmente mentre faceva le parole crociate a Les Sables-d’Olonne, dove trascorreva l’estate.

Sarebbe stato biondo, bruno, rosso? Alto in quanto ripetente o gracile e fifone? Di sicuro uno che gli sarebbe stato antipatico fin dal momento in cui avrebbe posato il culo su un banco della sua classe e detto «presente» con una voce sgradevole come una forchetta che graffia il fondo di un piatto.

Solo maschi, il sesso debole non gli interessava. Per individuarlo si basava sulle schede personali che avrebbe letto e decifrato per ore.

Quanto gli piaceva scoprire nomi, cognomi e situazioni familiari dei suoi alunni! E come si divertiva a spulciare tutte quelle informazioni! Era come quando da fuori, al buio, si guarda quel che succede all’interno di una casa illuminata.

Professioni del padre e della madre. Py non sceglieva mai qualcuno i cui genitori fossero dirigenti o funzionari pubblici, cosa che aveva salvato Étienne Beaulieu il primo giorno di scuola del 1986. Se non avesse letto sulla sua scheda che i genitori erano funzionari di Stato l’avrebbe tartassato per tutto l’anno. Alzarsi e parlare senza chiedere il permesso, ci mancherebbe altro!

Né se la prendeva mai con un Abdel Kader, come amava chiamare gli alunni di confessione musulmana chiacchierando con pochi amici selezionati, ovvero altri maestri provenienti da istituti diversi e conosciuti ai tavolini dei caffè di Les Sables-d’Olonne.

Antoine Py non aveva amici a La Comelle, il suo mestiere gli conferiva un rango e imponeva una certa distanza.

Dopo una prima selezione basata su nazionalità e professione dei genitori gli bastavano tre giorni per designare l’alunno che avrebbe preso in uggia secondo una serie di criteri invariabili: aria da coglione, sguardo inebetito, lentezza a capire, un tic, una camicia sgualcita, una pancia grassoccia, scarpe sporche, camminata esitante. Poteva anche prendersela con quello che sembrava troppo sicuro di sé, pretenzioso, col sorrisino sulle labbra e l’occhio vispo, il simpaticone della classe. Adorava far chiudere il becco a quei soggetti.

Cercava la falla più impercettibile per infilarcisi dentro.

Aveva sempre insegnato in quinta, l’ultima classe prima delle medie, considerate da lui «la grande pattumiera dell’istruzione nazionale». Aveva la sensazione di plasmare pietre preziose perché finissero nella fogna. «Di pisciare in un violino», come diceva di sera alla moglie mangiando la minestra.

Nel settembre 1986 aveva messo gli occhi su Martin Delannoy, un bambino che aveva ripetuto la seconda elementare per un problema di dislessia, tanto che era in cura da un ortofonista. Il trastullo di Py non stava nel fargli leggere testi ad alta voce davanti a tutta la classe: troppo facile, non abbastanza perverso e soprattutto rischioso, dato che l’obiettivo rimaneva sempre quello di non attirare i sospetti dei genitori, di tutti i genitori; sapeva bene che i suoi alunni parlavano, si sedevano a tavola e raccontavano la loro vita a scuola. No, Py preferiva mandare Martin Delannoy alla lavagna a risolvere problemi di matematica insolubili per intere mattinate.

Provava una gioia appena dissimulata da un sorriso falso osservando l’alunno che tremava e diventava pallido, vedendo le goccioline di sudore brillanti che gli imperlavano fronte e tempie, le lacrime trattenute fino a che una atterrava sulla pedana di legno, goccia di sangue trasparente di uno sconforto troppo a lungo represso, e poi guance solcate da fiumi, come una diga che cede. Allora Py assumeva un tono mieloso e diceva: «Torna al tuo posto, ragazzo mio. Resterai in classe durante la ricreazione, ti spiegherò io».

Gridava raramente, era di una gentilezza untuosa. Poi senza preavviso, perché un alunno era distratto, perché la moglie si era girata dall’altra parte la sera prima o perché quella mattina qualcuno non gli aveva dato la precedenza, si precipitava sul malcapitato e lo sollevava da terra afferrandolo per il colletto. Brutto voto, fuori tema, risate in classe, chiacchiere, disattenzione, sbadigli... In quei casi i muri tremavano e la voce dell’uomo arrivava fino alle cime dei grandi ippocastani che crescevano in cortile.

Nessun genitore si lamentava, perché non c’era alunno che passando nella classe del maestro Py non migliorasse il suo rendimento generale. Pronunciavano il suo nome con riguardo, mormoravano «È nella classe di Py» con un compiaciuto sorriso d’intesa.

A fine anno gli facevano una serie di regali che lui accettava con occhi umidi dicendo immancabilmente: «Faccio soltanto il mio lavoro».

Le sue lezioni erano estremamente chiare e precise. Py poteva stare ore a spiegare una cosa per farla entrare in ogni singola zucca, a costo di ripetere e ripetere ancora, a costo di far ricopiare una lezione perché fosse assimilata una volta per tutte, a costo di assegnare un elenco di compiti lungo un metro che avrebbe occupato le sere e le domeniche degli alunni.

Era un ottimo maestro, quindi poteva pure concedersi un capro espiatorio che lo rilassasse. Otteneva risultati talmente eccezionali che perfino il direttore, il signor Avril, chiudeva gli occhi su certi suoi modi di fare poco ortodossi.

L’anno scolastico 1986-87 era cominciato quindi con l’alunno Martin Delannoy fino al giorno di marzo in cui, subito prima della ricreazione, era stata distribuita la foto di classe. Una busta a testa con i prezzi della fotografia di gruppo e dei ritratti individuali eventualmente forniti sotto forma di calendario, segnalibro o biglietto d’auguri.

Adrien Bobin e Martin Delannoy erano rimasti in classe per finire di ricopiare una lezione sulle concordanze al plurale. Py era andato in sala professori a bere un caffè. Era tornato in classe verso le undici, poco prima che ricominciassero le lezioni.

Aveva aperto la porta in silenzio. Adorava arrivare a passo felpato dietro un alunno e farlo sobbalzare. Aveva osservato Martin Delannoy immerso nel quaderno, con la testa piegata di lato, che si leccava le labbra ricopiando la lezione. Stava per fargli un’osservazione sul suo modo di tenere la penna quando il suo sguardo era stato attratto da Adrien Bobin, il piccoletto pieno di capelli che non fiatava mai, che lavorava bene, il tipo di ragazzino che in linea di massima Py lasciava in pace, sennonché quella mattina si stava gingillando.

Guardandolo, Py si era sentito attraversare da una lama di ghiaccio. Il suo cervello affilato ci aveva messo un quarto di secondo ad analizzare la situazione. La sua rabbia silenziosa, la sua perversione, si era trasferita dall’uno all’altro, un flusso elettrico quasi visibile che passava dall’alunno Delannoy seduto sulla sinistra all’alunno Bobin seduto all’estrema destra.

Adrien aveva sollevato la testa e visto negli occhi di Py il nero assoluto. Da dietro gli occhiali del maestro una folle tempesta si stava scatenando su di lui minacciosa e mortale, una tempesta assassina. Adrien aveva capito subito. Abbassando gli occhi si era rimesso al lavoro, ma ormai era troppo tardi.