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6 dicembre 2017

 

Sento le campane della chiesa in lontananza. Quando suonano a metà pomeriggio vuol dire che c’è il funerale di qualcuno, probabilmente un anziano. Se fosse un giovane, dato che sono di turno al giornale ne sarei informata. Sono rimasti solo vecchi. Di due scuole, la Pasteur e la Danton, ne è rimasta una sola, ma per quanto ancora? Qui, quando una fabbrica perde un operaio vanno persi anche i suoi figli. Da vent’anni a questa parte troppi piani di ricollocazione, troppi pensionamenti anticipati. La Magellan, che fabbrica pezzi di ricambio per automobili, è passata da tremila dipendenti nel 1980 a trecentoquaranta nel 2017. Il colpo di grazia è stato nel 2003, quando la ditta di trasporti Damamme è stata venduta e pochi anni dopo delocalizzata.

Piove sul mio tiglio.

Sto lavorando alla correzione di un manoscritto in attesa di saperne di più sulla macchina trovata in fondo al lago. È stata portata ad Autun. Gli agenti non mi hanno fatto avvicinare. Ho scattato qualche foto della carcassa ripescata dall’acqua. Stamattina il caso occupa poco più di un trafiletto sul giornale, ma se all’interno trovano uno o più cadaveri finirà in prima pagina. Ho la sensazione che la gendarmeria si muova con i piedi di piombo coi giornalisti. Stando a un informatore, pare che nell’abitacolo ci siano delle ossa. Non posso fare a meno di pensare a Clotilde Marais.

Prima, facendo un po’ ordine, l’ho riconosciuta sulla foto di classe della quinta elementare. Nel marzo del 1987 aveva undici anni. Non ricordavo che fosse in classe con noi. È stato uno shock rivederla bambina. A lungo l’avviso di ricerca con la sua foto era rimasto attaccato nei negozi, ma dato che una testimone l’aveva categoricamente identificata alla stazione la sera della scomparsa tutti avevano pensato che fosse partita senza lasciare un recapito.

Sulla foto si vede anche il maestro Py col grembiule grigio nonché le tre B fianco a fianco: Beaulieu, Beau, Bobin. Io sono in seconda fila, la quarta da sinistra, diafana, trasparente, inesistente.

L’anno di Py, dieci minuti prima che suonasse la campanella, Nina, Étienne e Adrien si ritrovavano davanti alla scuola Pasteur. Non avevano altri compagni all’infuori del loro terzetto. Stavano incollati fra loro come fratelli di una stessa cucciolata. Eppure non si somigliavano in niente, né nel fisico né nei comportamenti.

Undici anni è un’età in cui di solito le femmine stanno con le femmine e i maschi con i maschi.

Nina era spesso stanca perché andava a dormire tardi. Si diceva che aiutasse il nonno a dividere per strade e quartieri la posta che avrebbe distribuito l’indomani, il che era del tutto falso, perché la selezione veniva fatta la mattina all’ufficio postale. Probabilmente disegnava fino a notte fonda. Aveva sempre le dita grigie di matite a carboncino. Per quanto se le lavasse con spazzolino e sapone, il piombo delle mine le tingeva le unghie.

A me piacevano da morire le borse che aveva sotto gli occhi. Gliele invidiavo. La invecchiavano, le davano un’aria seria. Avrei voluto rubarle le occhiaie, avrei voluto rubarle tutto, il naso piccolo, l’aspetto, il portamento, il sorriso.

A dieci anni Nina somigliava a Audrey Hepburn. Anche dopo, ma in versione triste. È vero che lo sguardo di Audrey ha sempre avuto una venatura di malinconia, ma in Nina era più nero, come se fosse reduce da una vita già vissuta, mentre in realtà era ancora una bambina. Nessuno sapeva chi fosse il padre, tutti però pensavano che dovesse essere originario del Nordafrica o dell’Italia del Sud, perché stando alle chiacchiere la madre era una rossa con gli occhi verdi, mentre Nina aveva occhi così scuri che non si distinguevano le pupille.

Le tre B andavano a scuola a piedi. Étienne e Adrien si riservavano lo skateboard per la sera, il mercoledì pomeriggio, dato che all’epoca il mercoledì non si andava a scuola, e per l’estate.

Nina e il nonno vivevano in un quartiere operaio, abitavano in una di quelle case di mattoni tutte uguali attaccate l’una all’altra che occupavano una decina di vie, con un orto sul retro. Ogni orto sfamava una famiglia intera e, se la stagione era buona, anche qualche vicino.

Adrien e la madre Joséphine abitavano in un appartamento di tre stanze al quarto e ultimo piano di un edificio degli anni Sessanta.

Étienne, i genitori e la sorella Louise vivevano in una bella casa circondata da alberi centenari. Il fratello maggiore, Paul-Émile, frequentava l’università a Digione.

Nina cresceva con un vecchio.

Étienne era figlio di un vecchio.

Adrien era figlio di un padre assente e di una madre sessantottina che fumava sigarette rollate e ascoltava Say It Aint So, Joe di Murray Head pulendo i vetri del soggiorno.

Con un’approssimazione di duecento metri, si trovavano tutti alla stessa distanza dalla scuola.

E tutti e tre avevano la stessa idea in testa: andarsene quando sarebbero stati grandi, lasciare il paesello per andare a vivere in una città piena di semafori, rumore e furore, piena di scale mobili e vetrine, con luci dappertutto anche a notte fonda, con gente sui marciapiedi, estranei dei quali non si può spettegolare.

Trascorrevano insieme tutto il tempo libero, ricreazione e mensa comprese. Ridevano per le stesse cose: prendere l’elenco telefonico, sfogliare le pagine a caso e fare prenotazioni camuffando la voce; guardare Magnum, P.I. e Saranno famosi con porte e finestre chiuse mangiando caramelle; giocare a Mastermind e a battaglia navale; leggere insieme Tintin o l’Almanach de létrange stravaccati sul letto di Nina. «Finito» dicevano Étienne e Adrien all’unisono, e Nina girava pagina solo dopo che avevano parlato.

Adoravano farsi paura, raccontarsi storie, seminare bombette puzzolenti nelle corsie del supermercato, registrare le loro voci per ore su una musicassetta, giocare agli intrattenitori radiofonici e riascoltarsi scoppiando a ridere come scemi. Étienne era il capo, Nina il cuore, Adrien seguiva senza battere ciglio.

I loro rituali erano cadenzati anche dagli attacchi d’asma di Nina. Tutti e tre erano appesi ai suoi capricciosi bronchi. Certi attacchi potevano durare ore nonostante il Ventolin. Quand’erano particolarmente acuti Nina preferiva rimanere sola col suo respiro scassato.

Adrien ed Étienne tornavano a casa ognuno per conto proprio, Adrien per leggere o ripensare a quello che si erano detti, Étienne per fare skate o guardare la fine di Récré A2 in televisione con la sorellina Louise.

A unirli era Nina. Senza di lei Adrien ed Étienne non si vedevano. O erano in tre o niente.

Ai due maschi Nina piaceva perché non giudicava mai nessuno, mentre a La Comelle tutti davano giudizi su tutti. Le dicerie venivano ereditate, passavano di generazione in generazione. Nina si portava dietro la reputazione della madre, era considerata «la bastardina di una che non valeva niente». Adrien, data la sua timidezza, non interessava nessuno a parte Nina, che lo trovava intelligente e misterioso. La madre di Adrien, Joséphine Simoni, era la nuova recluta dell’asilo nido comunale, una fricchettona con le gonne lunghe che strusciavano i marciapiedi. Il padre non c’era. Madre e figlio erano considerati due hippy. Quanto a Étienne, molti lo tenevano alla larga perché “figlio di borghesi”. A La Comelle non ci si mischiava, i tovaglioli stavano con i tovaglioli e gli strofinacci con gli strofinacci. Si rispettavano gli operai, un po’ meno i capireparto. I figli dei dirigenti erano visti male, benessere e ricchezza apparivano sospetti.

I tre andavano sempre al cinema insieme e si sedevano sempre in prima fila. Adrien non stava dietro come in classe, ma seduto accanto a Nina. Lei al centro, lui a destra ed Étienne a sinistra.

Il giorno in cui avevano visto Manon delle sorgenti Nina aveva preso la mano dei due ragazzini nel momento in cui Ugolin si cuce il nastro di Manon sulla pelle e le aveva tenute strette nelle sue per parecchio tempo dopo che Ugolin si era impiccato.

Checché ne dicessero, Manon delle sorgenti era il film preferito di Étienne e Adrien. Se chiedevano loro «Qual è il tuo film preferito?» rispondevano «Il ritorno dello Jedi», ma era una bugia.