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10 novembre 1989

 

Sono in terza media, è la prima lezione della giornata. La configurazione dei posti è la stessa che nella classe di Py: Nina seduta accanto a Étienne e, dietro, Adrien che le osserva la nuca. Si è tagliata i capelli, somiglia un po’ a un ragazzo, a Adrien non piace tanto, e ha cominciato a mettersi la matita sugli occhi, un tratto maldestro che le fa risaltare lo sguardo scuro. Étienne dice che «sembra sporco», al che lei gli rimprovera di essere «davvero poco rock».

Il signor Schneider, il professore di tedesco, entra in classe totalmente elettrico. Dev’essere successo qualcosa. Di colpo tutti smettono di chiacchierare per osservarlo. In genere è un uomo riservato con la testa incassata nelle spalle, come se gliel’avessero presa a martellate per farla sparire poco a poco all’interno di un corpo goffo e rigido, un individuo che parla a bassa voce e annoia intere generazioni di ragazzi da più di vent’anni. Ha uno zaino sulla schiena, come se fosse passato a salutare gli studenti prima di partire per un viaggio.

«Eins, zwei, drei, die Mutter ist in der Küche...».

Di solito nessuno smette di chiacchierare quando entra nell’aula, ma quel mattino c’è qualcosa di diverso. Il professore ha gli occhi lucidi, tanto da far pensare a Nina che abbia bevuto. Aprendo la cartella fa cadere per terra i suoi libri. Tutta la classe si mette a ridere. È una classe piccola composta di alunni di seconda e terza media: solo in quindici hanno scelto tedesco.

Schneider sale sulla pedana, fa un respiro profondo e annuncia solennemente:

«Meine lieben Kinder, ich habe gute Nachrichten, eine Nachricht, die das Gesicht der Welt verändern wird: Die Berliner Mauer ist gefallen».

Nessuno reagisce. Nessuno ha l’aria di capire un accidente di quel che dice. È la prima volta che si rivolge a loro in tedesco, a parte le lezioni.

Ma ciò che segue li lascia ancora più sbigottiti, proiettandoli in una specie di sogno a occhi aperti. Schneider tira fuori dallo zaino quattro bottiglie di champagne e le apre una dopo l’altra ridendo e lanciando buffi gridolini. La gioiosa follia di cui è preda sembra sconcertare gli alunni che, pur detestando la rigida cornice in cui li costringe la scuola, la trovano rassicurante. Il professore dispone i bicchieri di plastica sulla cattedra e si mette a riempirli gridando:

«Lang lebe die Freiheit!».

Sono le nove e dieci e tutti cominciano a bere. Il professore brinda allegramente con ogni alunno.

È crollato il muro della vergogna, dice, la Germania è riunificata, stenta a crederlo, è un evento storico, incredibile, miracoloso, insperato! Alla fine capiscono che a mettere il professore in quello stato di euforia è stata la caduta del muro di Berlino. Schneider racconta precipitosamente, e a tratti con le lacrime agli occhi, che molte persone sono rimaste uccise nel tentativo di passare il muro. Nina gli chiede se abbia famiglia a Berlino e da quale parte. Turbato, lui risponde che i suoi genitori erano a Est.

Dopo due bicchieri bevuti d’un fiato Schneider entra nelle altre classi senza bussare e invita tutti i professori e i loro alunni a festeggiare l’avvenimento con lui. Alle dieci, al terzo piano del padiglione Charles-Baudelaire, più di duecento persone ascoltano o ballano African Reggae di Nina Hagen. Il signor Schneider ha infilato una cassetta nel lettore di cui si serve di solito per le lezioni di grammatica. Appena la canzone finisce riavvolge il nastro per riascoltarla.

Il professore balla scatenato gridando:

«Lang lebe die Freiheit!».

Uno dopo l’altro, volteggia con ragazze e ragazzi senza fare distinzioni.

Per la prima volta in vita sua Étienne prova interesse per la scuola. Pensa che dovrebbe essere sempre così, che tutti i muri del mondo dovrebbero crollare.

Mai avrebbero pensato che il professore di tedesco ascoltasse Nina Hagen e ancora meno che avesse un briciolo di fantasia nelle vene.

Quella mattina Adrien realizza quale sia la conseguenza della libertà: una gioia senza ritegno che trasforma facce e corpi.

La sera davanti al telegiornale, seduto accanto alla madre che stringe in pugno un fazzoletto e si asciuga gli occhi quando l’emozione la sommerge, Adrien guarda le immagini diffuse nel mondo intero: tedeschi in lacrime, famiglie che si ritrovano, ragazze che baciano le guardie, martellate, pezzi di muro che cadono, folla, gente che si infila in tasca frammenti di cemento per farne preziosi souvenir.

Adrien si interroga sul proprio muro, quello che lo divide da se stesso, quello dietro cui si nasconde da quando è nato: quant’è alto?