12 dicembre 2017
Ventisette anni dopo rivedo tutto di quella mattina d’aprile. Un momento sospeso, noi che guardiamo Pierre Beau impietriti, i due schiaffi, la violenza del nonno che si scaglia sulla nipote nel cortile della scuola, la scena incomprensibile tra sogno e realtà. Anche la rapidità. Dura meno di un minuto. La testolina nera di Nina che sembra staccarsi dal collo, la sua felpa nera con le farfalle grigie che sembrano fiori appassiti, lei che chiede scusa al nonno. Risento ancora quello «Scusa» detto in un soffio. Non si difende, non ha l’aria di avercela con lui. Tutti che si chiedono cos’abbia fatto, sia quelli che hanno visto sia quelli che non hanno visto niente. Più tardi, dopo l’accaduto, una volta tornati a casa, è tutta una ridda di supposizioni e fantasie.
«Il vecchio deve averla beccata a scopare e non gli è andata giù. È come la madre. Scopa con Beaulieu o con Bobin? O con tutti e due? È incinta. Incinta a nemmeno quattordici anni. Di sicuro. Ha un marmocchio in panza. Bella rogna».
Appena andato via Pierre Beau, la prima domanda passata di bocca in bocca per tutto il cortile era stata: «Chi è quel vecchio?». E subito dopo era arrivata la risposta: «Il nonno».
Facce imbarazzate, volti contratti, risate forzate. «Che hai nel pomeriggio?». «Solo un’ora. Quella di ginnastica è malata. E tu?». «Inglese. Due ore di matematica e compito...». Qualche ragazza aveva chiesto a Nina se stava bene. Si tenevano a qualche decina di centimetri da lei, come se ci fosse stato un perimetro di sicurezza da rispettare, una barriera che separava Nina dagli altri, come se Étienne Beaulieu e Adrien Bobin avessero l’esclusiva e la cosa fosse ben presente nelle coscienze di tutti, in ogni sguardo, parola o gesto: «Non si tocca».
Ricordo che Adrien aveva trascinato Nina in infermeria ed Étienne era rimasto come un allocco in cortile, poi era andato a mensa con la sorella. Quel giorno i due ceffoni del nonno avevano fatto saltare il terzetto.
Nina aveva dato la colpa alla madre. Aveva raccontato a Adrien di aver passato tutto il giorno prima a rovinarsi gli occhi sulle foto che aveva portato Étienne e che per quello si era scordata il resto. Il resto era giustappunto ciò che il nonno aveva trovato sotto il cuscino, le lettere rubate, la cosa che solo Adrien sapeva, il loro segreto.
La madre le avrebbe sempre portato sfortuna. Doveva lasciarla perdere, smettere di cercare foto e prove della sua esistenza, smettere di chiedersi come fosse e perché l’avesse mollata come un sacco di biancheria sporca dal nonno, l’unico che le aveva voluto bene e che lei aveva deluso.
Sto preparando la busta di Natale per il rifugio degli animali abbandonati. Ci infilo dentro le banconote e scrivo NINA BEAU, STRETTAMENTE RISERVATO a lettere maiuscole per evitare che riconosca la mia scrittura. Come se potesse immaginare che sono io.
Per associazione d’idee ripenso alla lettera anonima che l’ha tradita, quella da cui è partito tutto. Credo che Nina non abbia mai saputo cosa ne avesse fatto il nonno, se l’avesse consegnata o distrutta. L’unica cosa che so è che il destinatario di quella lettera infame, Jean-Luc Morand, è tuttora vivo e vegeto così come la sua prevista vedova. Partecipano a tutti i tornei di briscola.
Aspetto sempre la sera per andare al rifugio come una ladra e infilare il mio regalo nella cassetta delle lettere. Faccio come quelli che non hanno il coraggio di affrontare lo sguardo degli altri alla luce del giorno e preferiscono abbandonare il cane legandolo a un cancello durante la notte.
Dall’inizio del mese è la terza volta che vado al rifugio. Non era mai successo. Ho posato la busta sul sedile del passeggero.
D’inverno non esco mai dopo le nove di sera. Ho le mie piccole abitudini, ormai, perché sì, spesso le abitudini sono piccole. Ho il mio lavoro, le mie serie, i miei programmi, i social, le cene e un mucchio di romanzi accanto al letto.
I miei fari illuminano Babbi Natale di plastica aggrappati alle case, corone di agrifoglio sulle porte, ghirlande di lucine intermittenti intorno alle finestre, un Merry Christmas semistaccato da una vetrina, pronto a cadere.
È un Natale senza neve. Qui arriva più tardi, verso metà gennaio.
Costeggio il terreno vuoto sul quale fino a un mese fa la scuola media del Vieux-Colombier invecchiava e marciva da sola, abbandonata da tutti, anche dalle materie che ci piacevano, musica, disegno, lavori manuali.
Stasera è come se fosse colata a picco.
C’è un po’ di nebbia, un po’ di ghiaccio, devo rallentare. Imbocco la stradina che porta al rifugio. Due o tre case sparse. Luci rosse e verdi sulla facciata di una di esse, in lontananza.
Natale. Fra una decina di giorni Étienne tornerà dai suoi per le feste come tutti gli anni, come un figlio ubbidiente che torna a casa puntuale. È l’unico periodo dell’anno in cui lo vediamo di nuovo attraversare le strade di La Comelle per andare a comprare le sigarette, in cui vediamo la sua grossa macchina parcheggiata sulla piazza della chiesa nello stesso punto in cui si incontrava con Nina e Adrien per andare alle piscine.
Chissà se pensa a loro. Chissà se pensa alla faccenda della macchina ripescata! Si preoccuperà se viene fuori che le ossa ritrovate sono di Clotilde?
Le due volte in cui l’ho rivisto mi sono bloccata. Ho fermato la macchina in un angolo e ho aspettato che passasse come una corrente d’aria gelida, uno scroscio di pioggia o un colpo di sole.
Étienne Beaulieu mi paralizza, non riesco più a muovermi né a parlare.
L’anno scorso l’ho quasi sfiorato entrando in chiesa. Non mi aspettavo di incontrarlo, anche se so che gli unici giorni in cui ho una probabilità di imbattermi in lui sono tra il 23 e il 26 dicembre. Erano le sei e venti di sera. A La Comelle la messa di mezzanotte viene celebrata alle sei e mezzo. Imbacuccata in un lungo cappotto stavo camminando verso l’entrata, qualcuno scambiava due chiacchiere sul sagrato, e a un certo punto ho riconosciuto la sua figura, il suo modo di muoversi. Era ad appena un metro da me, solo, con addosso un grosso giubbotto di pelliccia e la testa nascosta in un cappuccio. Mi è venuta la pelle d’oca. “È lui”. Étienne non si è accorto di niente, io ho intravisto la sua bocca, la sigaretta, una mano, uno sbuffo di fumo. Alto, altissimo. Dimentico sempre quant’è alto. Mi sono voltata, l’ho visto di spalle avviarsi verso il centro del paese o ciò che ne resta.
Poi ho tremato a lungo, molto a lungo. Quella sera ho fatto alcune foto di Gesù Bambino per il giornale, ma sono venute sfocate. Rivedevo Étienne vicinissimo a me, passavo al setaccio ogni millesimo di secondo di quel momento.
Il parcheggio del rifugio è vuoto. Non si sente il minimo rumore. Forse i cani dormono. Scendo dalla macchina lasciando motore e fari accesi. La cassetta delle lettere è arrugginita. Il coperchio cigola quando lo sollevo per infilare la busta. Mi viene un brivido, ho quasi paura, come se stessi facendo qualcosa di illecito.
«Sei tu?».
Sussulto. Fermo la mano a mezz’aria.
«Sei tu?» ripete lei.
Come se fosse una cosa ovvia, come una coppia sposata da vent’anni che si ritrova la sera: «Sei tu? Com’è andata la giornata? Mettiti comodo, ti porto qualcosa da bere». «I bambini sono tornati? Tua madre ha chiamato? Che c’è in frigo?».
La sagoma di Nina si staglia come un fantasma dietro le sbarre del cancello. Poi la sua faccia entra nel cono di luce dei fari. È pallida. Ha i capelli cosparsi di pioggerella e scagliette di brina.
«Sì, sono io».