12 dicembre 2017
Non oso tirare fuori Nicola dalla scatola, ho paura di romperlo. Fa le fusa nel sonno. Ho lasciato in mezzo alla stanza la lettiera e la cassetta ancora imballata in un sacco di carta Label Nature. Guardo il gatto come si guarda una delle proprie idiozie. L’elenco delle mie è cominciato parecchio tempo fa. Tornare dalla fiera col pesce rosso, marinare la scuola, copiare ai compiti in classe, rubare nei negozi, mettermi al volante dopo aver bevuto, far scoppiare petardi nella canicola su un terreno incolto, dimenticare l’acqua del bagno aperta, e poi la proposta di matrimonio, la risposta sbagliata, la persona sbagliata, saperlo e perseverare ugualmente, fare promesse sapendo di non poterle mantenere, perdere treni, prendere un prestito, annullare all’ultimo momento una cosa attesa da sempre, uscire a braccia nude nel freddo, abbassare la testa per non salutare qualcuno perché non è giornata e rimpiangerlo per sempre, firmare un atto di compravendita dal notaio, impegnarsi, disimpegnarsi, l’alcol cattivo, le serate disgustose, il famoso bicchiere di troppo, le mattinate tetre, salire in macchina con uno sconosciuto, comprare un golf colorato per variare un po’ dal nero e non metterselo mai, non riuscire a finire l’ultimo romanzo dello scrittore famoso («Ma stavolta sento che lo adorerò»), andare per saldi, raschiare il fondo del barile, rovistare, spettegolare, criticare, ridacchiare, i pantaloni di una taglia impossibile da mettere dopo essere dimagrita, tutte quelle cose riposte negli armadi delle nostre vite, ma che costituiscono le nostre vite.
E, a ventiquattro anni, vergognarmi di Nina, incontrarla a Parigi nella hall di un teatro e comportarmi da stronza. Si era avvicinata per abbracciarmi, io mi ero irrigidita, lei mi aveva salutato timida e felice: «Ciao, sono venuta, hai visto? Sono fiera di te».
«Ah, ciao».
Davvero. Le avevo risposto soltanto «Ah, ciao».
Un comportamento vergognoso. Io ero giovane, vestita bene, e c’era il mio nome sul manifesto dello spettacolo che era venuta a vedere. Mi prendevo per quello che non ero, per quello che nessuno è mai. Non bisogna mai prendersi per ciò che non si è.
Sentivo il suo accento da provinciale, sentivo solo quello. Eppure Nina non ha mai avuto accento. Volevo parlare con quelli che sapevano parlare, quelli che usavano belle parole, non con gli abitanti di La Comelle. Era come se puzzasse di un’infanzia che avevo rinnegato, se emanasse l’odore delle mie origini altrettanto provinciali.
Nina era impallidita, aveva sorriso. Era vestita con abiti che intuivo nuovi, doveva essersi fatta bella per l’occasione, voleva farmi una sorpresa.
Non se n’era andata, non mi aveva voltato le spalle, aveva preso posto in sala con in mano il suo biglietto, un biglietto che aveva comprato.
Non le avevo mandato un invito.
Era nelle file in fondo. Alla fine dello spettacolo l’avevo vista applaudire fino a spellarsi le mani.
Ero sparita nei camerini. L’avevo immaginata aspettarmi un po’ sul marciapiede, non vedere nessuno e tornare a casa da sola. Mi ero cercata delle attenuanti.
La vergogna e i rimpianti non si attenuano con gli anni.