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22 dicembre 2017

 

Per la prima volta in vita sua Nina è andata nella piccola boutique del centro a comprarsi tre camicie, un golf bianco, due paia di pantaloni e un vestito.

“Un vestito e un golf bianco... Che cavolo ci faccio?”.

Da dieci giorni trascorre tutte le serate con Romain Grimaldi. Finita la giornata di lavoro passa a casa per mangiare al volo qualcosa, farsi la doccia e cambiarsi, poi cammina fino a rue Rosa-Muller. Dopo aver fatto l’amore se ne va con la scusa che a casa la aspettano i gatti.

Ha appena dilapidato trecento euro in cose che non si metterà mai. Dio, quanto sono stupide le donne! “Lasciati in pace, take it easy” le sussurra una vocina.

In quel momento è nell’infermeria, sta guardando tre micini che dormono sotto la lampada a infrarossi. Non si sa dove sia la madre e non sono stati svezzati. Alcuni ragazzi delle medie si danno il cambio per nutrirli. Agli adolescenti piace dedicare un po’ di tempo al rifugio per occuparsi dei cuccioli.

È l’anniversario della morte di Éric, il figlio di Simona. Ci vorrebbe una parola diversa per una circostanza del genere, “anniversario” le sembra un termine poco appropriato. Potrebbe chiedere a Romain, visto che è stato così bravo a trovare definizioni per quelli che non hanno figli.

Nina osserva Simona dalla finestra dell’infermeria, la vede attaccare un lungo guinzaglio all’imbracatura dei cani e farli uscire uno dopo l’altro. Ha la schiena ben dritta, un portamento da ballerina classica. Con la giacca di pile e il foulard di Hermès sulla testa sembra una gran dama che si sia smarrita tra le baracche di cemento, una regina d’Inghilterra nelle favelas. Quella mattina, mentre cercava i guanti nella borsa, ha detto a Nina: «Oggi sono tre anni». Poi ha aggiunto: «Verrò a lavorare il 25, puoi prenderti una giornata di riposo una volta tanto».

Sono solo le otto e mezzo di mattina e Simona ha già fatto uscire Rosy, una specie di pastore dei Pirenei, e Pallalpiede, un bel griffone nero che Nina ha ribattezzato così perché per due volte è tornato da solo al rifugio dopo essere stato adottato. A distanza di un anno, dopo essere stato preso da una nuova famiglia, è scappato, ha ritrovato la strada e si è seduto tranquillo davanti al cancello in attesa di tornare nel suo box. Nina l’ha messo nel canile più grande vicino all’entrata, accanto al suo ufficio. Ogni mattina arrivando gli apre la porta perché possa andare in giro liberamente. Non viene più proposto per l’adozione, finirà i suoi giorni lì. È stata anche tentata di portarselo a casa, ma in fondo la sua casa è quella, quanto meno è il luogo dove passa la maggior parte del suo tempo.

La mattinata è fredda, c’è una luce invernale, un cielo color acciaio. Nina entra nel gattile, dove è tutto uno stiracchiarsi, sbadigliare e pazientare. Le bestiole aspettano braccia che le accolgano, un appartamento, una casa, un balcone, un giardino, una vista, abitudini diverse da lì, un vecchio scapolo o una famiglia numerosa, ricca o povera non importa, quel che conta è l’attenzione e l’affetto. Durante gli open days la gente guarda i gatti, li accarezza, ne preferisce alcuni ad altri. Nell’attesa, loro dormicchiano nelle ceste imbottite regalate dai donatori.

Nina si infila i guanti di gomma, cambia le lettiere, pulisce i pavimenti col detersivo, si rivolge ai felini che la guardano con aria stanca e gli occhi socchiusi. I più giovani giocano, si rincorrono, si arrampicano, si fanno le unghie sugli alberelli tiragraffi. Se c’è troppa confusione i vecchi soffiano.

«Ieri sera ho fatto l’amore».

I loro occhi gialli, azzurri o verdi la fissano con interesse. Sembrano bambini che ascoltano una favola.

«Non fate quella faccia. Sono pur sempre una donna, mica soltanto la vostra cameriera... Ricordate il tizio che ha adottato Bob? Be’, è lui. D’accordo, non sono andata a cercare lontano, immagino che mi troviate patetica... faccio quel che posso con quello che c’è a disposizione... Non devo certo insegnarlo a voi».

Simona la raggiunge nel gattile.

«Parli da sola?».

«No, parlo di sesso con i gatti».

«Anch’io ne avrei da raccontare... Vestigia del passato».

Simona li accarezza, li prende in braccio. In quel periodo ce ne sono più di cinquanta, presto Nina non sarà più in grado di accoglierli, dovranno essere dirottati verso altri rifugi. Prima il gattile traboccava di gattini a primavera, ormai è così tutto l’anno, un disastro. Molti, regalati o venduti a chissà chi, vengono ritrovati in mezzo alla spazzatura o per strada, con gli occhi appiccicati, morti di fame e pieni di parassiti.

Nina vorrebbe lanciare una campagna di sterilizzazione con l’aiuto del sindaco.

“Certo che la vita funziona proprio male” pensa. “Loro sfornano cuccioli uno dopo l’altro, io non ci riesco, Simona ne ha fatto uno e le è morto...”.

«Tutto bene?» chiede a Simona.

«Tutto bene. Vorrei che fosse già domani. Da quando Éric se n’è andato vorrei sempre che fosse già domani... Il presente mi pesa... Non so che farne».

«Siamo in tanti, oggi. Puoi tornare a casa se ti senti stanca».

«Per carità! Anzi, meglio che torno al lavoro...».

Nina entra nel canile. È tutta una questione di occhi. Nina sa quale animale è adatto a quale persona. Quando qualcuno si presenta al rifugio e chiede di vedere le “micine bianche” non è raro che se ne vada con un gattone fulvo. Ognuno ha il suo carattere, il suo stile di vita, le sue peculiarità.

Se una persona si innamora di un cane e il cane la ignora, Nina non lo dà in adozione. Sarebbe un fallimento, glielo riporterebbero. Non vuole affibbiare un animale a tutti i costi, vuole costruire una vera e propria storia tra l’uomo e l’animale. In diciassette anni le è capitato di sbagliare, ma fa parte del rischio di qualunque mestiere. Non c’è cosa peggiore di quelli che li riportano indietro: «Alla fine non va bene, ha paura di tutto, guaisce sempre», «È aggressivo, sembra che non gli piacciamo», «Forse era meglio un gatto di un cane», «Sto divorziando e mia moglie non lo vuole», «Puzza, perde peli, è brutto, ha le flatulenze», «Mantenerlo mi costa troppo...».

 

*

 

Mentre sta attraversando il rifugio nota una figura familiare che si dondola da un piede all’altro, un adolescente appostato davanti all’entrata degli uffici. Prende il Ventolin e inala, un colpo secco. Fa freddo, pioviggina, il cielo si è coperto in pochi minuti, ha un brivido. La somiglianza è stupefacente. Man mano che si avvicina è come se ricevesse un cazzotto nello stomaco. Il ragazzo sembra solo. Istintivamente Nina dà un’occhiata al parcheggio per vedere se c’è un adulto che lo aspetta in macchina. Quando arriva alla sua altezza, lui le sorride. Non c’è dubbio, è il suo sorriso! Impallidisce, ha la gola secca e chiusa, immagina subito una brutta notizia, ha paura di parlare per prima.

«Buongiorno, signora» fa lui, allegro.

«Buongiorno».

«Vorrei regalare un gatto a mia nonna per Natale».

La stessa voce. La forma degli occhi è leggermente diversa, sono più arrotondati, ma il colore è identico, così come il naso. La bocca è molto simile. Nina non si sente più le gambe, vorrebbe scappare e allo stesso tempo abbracciarlo, correre lontano ma anche accarezzarlo. Vorrebbe prendergli il viso, respirare il suo odore, passargli la mano tra i capelli.

«Tua nonna sa che vuoi regalarglielo?» domanda con la voce che le trema.

«No, è una sorpresa».

«Pensi che sarà una bella sorpresa per lei?».

«Sì. Da quando è morto il suo è triste. Dice che non ne vuole altri, ma io non ci credo».

«Dove vive?».

«A La Comelle».

«Quanti anni ha?».

«Non lo so bene, direi una sessantina».

Nina non resiste a chiedergli:

«E tu quanti anni hai?».

«Quattordici».

«Come ti chiami?».

«Valentin».

Nina lo guarda. Non ci sono dubbi. È un flashback di una violenza inaudita.

«Valentin... Beaulieu?» azzarda.

Anche il ragazzo la guarda, come colto con le mani nel sacco.

«Come lo sa?».

«Somigli a tuo padre».

Lui sgrana gli occhi fingendosi sorpreso.

«Lo conosce?».

«Eravamo a scuola insieme».

«È con lei che faceva musica?».

Altro cazzotto. Prende il Ventolin e inala di nuovo.

«Cos’è?» chiede Valentin indicando l’inalatore che ha in mano.

«Una medicina per l’asma».

«Fa male?».

“Meno che vedere te” pensa lei.

«No, anzi. Mi fa stare meglio».

«Costa tanto prendere un gatto da lei?».

«Dipende dall’età dell’animale».

«Quanto vive un gatto?».

«Tra i quindici e i vent’anni. Vuoi vederli?».

Valentin sorride.

«Sì!».

«Tu hai animali?».

«Mia madre non vuole... Mi piacerebbe tanto un pastore tedesco».

“Mia madre”... Chissà con quale donna Étienne ha finito per fare un figlio.

«Io avevo un pastore tedesco da piccola... Si chiamava Paola».

«Che fortuna...».

Valentin la segue. Sembra molto turbato dalla presenza dei cani nei box. Abbaiano al loro passaggio, li annusano, uggiolano, guaiscono. Valentin ne vede uno isolato da un’altra parte, con lo sguardo triste come il tempo di quel giorno. Lo indica.

«Perché è lì? È in punizione?».

«È arrivato ieri. Se entro tre settimane il proprietario non lo reclama lo metto con gli altri. Per il momento sono costretta a lasciarlo in quarantena».

«Perché?».

«È la legge».

«Poverino».

«Non ti preoccupare, lo accudiamo bene».

Entrano nell’infermeria, percorrono i corridoi che portano al gattile. Al di là di un vetro Valentin vede tre micini in una gabbia al di sopra della quale è accesa una lampada a raggi infrarossi. Si ferma.

«Sono troppo carini».

«Sì, ed è la loro disgrazia» risponde Nina.

«Perché?».

«Perché tutti vogliono i gatti finché sono piccini, e quando crescono non interessano più a nessuno».

«È una cosa che la fa arrabbiare?».

«Sì, ma non sono qui per giudicare gli esseri umani, il mio compito è proteggere gli animali».

All’interno del gattile regna la calma.

«Ti presento i nostri mici».

Valentin va ad accarezzarli.

«Qui è meno triste che dai cani» mormora.

Nina lascia passare un po’ di tempo. Lo osserva. Poi gli fa la domanda che le brucia sulle labbra.

«Tuo padre lo sa che sei qui?».

«No, non lo sa nessuno, sono venuto da solo».

Il ragazzo ha l’aria di sapere perfettamente quello che vuole.

«Come sta Louise?» chiede Nina.

«Zia? Sta bene».

Zia. Nina pensa che lei non è né madre né zia. Non è niente. Le tornano in mente le parole di Romain che l’hanno fatta ridere: «Senza un cane al tuo funerale».

Con le gambe che le tremano va a sedersi su una panca, quella delle “accarezzatrici”. Ogni settimana studenti delle medie, soprattutto ragazze, vanno lì volontariamente a fare le coccole ai felini. Sono le stesse che danno da mangiare ai micini. Si calma, respira lentamente mentre Valentin continua l’esplorazione e una decina di gatti gli si strusciano contro le gambe.

«Come hai trovato il nostro indirizzo?» gli chiede poi.

«Nonna ha il vostro calendario in cucina».

È un’idea di Simona. Fanno le foto agli animali da adottare e compongono un calendario con l’aiuto di un software. Ogni fine anno i calendari vengono messi in vendita nei negozi per raggranellare qualcosa. “Marie-Laure Beaulieu lo compra” pensa Nina. “Non mi stupisce, è così generosa... È una delle cose che mi fa vergognare di più. Mi ha appoggiato, protetto, sostenuto, voluto bene e io non sono mai passata a trovarla anche solo per sentire come sta”.

«Come faccio a scegliere? Sono tutti fichissimi» mormora Valentin sconfortato.

«Ho un’idea... A Natale metti sotto l’albero una busta per tua nonna con dentro un buono per un gatto del rifugio, e lei verrà a sceglierselo da sola».

La faccia di Valentin si illumina.

«Vieni nel mio ufficio, lo facciamo insieme».

«Dobbiamo ripassare dai cani per andare nel suo ufficio?».

«Sì».

Valentin storce il naso.

«Non c’è un’altra strada?».

«Basterà che tu chiuda gli occhi. Ti tengo per mano. E dammi del tu».

«Va bene».

Nina si toglie i guanti. Vorrebbe che l’attraversamento del rifugio durasse mille anni. Quelle dita che la stringono, quella giovane mano già più grande della sua, ma tenerissima, le ricorda le mani di Étienne e Adrien, la riporta all’adolescenza e alla spensieratezza. È come una presa in cui si infilano due spine, una luce d’inverno, un raggio di sole. Valentin, a occhi chiusi, si lascia guidare. Sembra che cammini su un filo e abbia le vertigini. Ha un profilo perfetto, come quello del padre. Si è messo a piovere. Neve squagliata sui capelli.

Quando entrano in ufficio si lasciano la mano.

Nina è di nuovo sola.

Apre un cassetto, prende il timbro del rifugio, due adesivi e si mette a confezionare una specie di buono di Natale su un foglio di carta a quadretti. Non l’ha mai fatto e non lo farà mai più, gli animali non possono essere dati via in cambio di un biglietto, ma quella è una situazione particolare.

«Com’era mio padre da piccolo?».

«Piccolo non lo è stato mai, l’ho sempre conosciuto altissimo».

A Valentin brillano gli occhi, sono gli stessi lampi di gioia dello sguardo di Étienne. Cala il silenzio mentre Nina disegna un gatto con la biro. Non è un silenzio imbarazzato, è già un silenzio condiviso da due persone che si conoscono bene e non si sentono obbligate a dover fare conversazione.

«Disegni da dio».

«Grazie. Ti riporto a casa» dice Nina dandogli il buono.

«Posso tornare a piedi».

«Sta nevicando».

Il ragazzo tira fuori dalla tasca venti euro.

«Quanto ti devo per il gatto?».

«In via del tutto eccezionale, niente».

«Ma io voglio fare un regalo».

«Non posso prendere soldi da un minorenne».

«Perché?».

«È la legge».

«La legge è stupida. È come per il cane in isolamento, è un’idiozia. Puoi dire che te li ha dati mio padre».

Nina prende i venti euro, li mette in un salvadanaio e in cambio dà a Valentin un po’ di adesivi con il logo del rifugio.

«Tieni, diciamo che ti ho venduto questi. Attaccali dove ti pare».

Si alzano insieme. Valentin la segue. Anche lui rivolge a Nina occhiate furtive. Non la guarda normalmente, come un adottante qualsiasi. Nina non crede più a quella storia del gatto da regalare alla nonna, con tutta probabilità è una scusa. Si volta e lo fissa negli occhi.

«Non sei venuto per caso, vero?».

Valentin fa finta di non capire, guarda da un’altra parte.

«Volevi vedere me?» insiste lei.

L’espressione del ragazzo cambia, si fa più tesa.

«Sì, perché... mio padre sta per morire».