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22 dicembre 2017

 

Marie-Laure Beaulieu è in cucina. La sera prima sono arrivati tutti e tre i figli. È l’unico momento dell’anno in cui l’intera famiglia è riunita, una parentesi di cinque giorni. Le altre volte non vengono mai negli stessi periodi, ma per niente al mondo salterebbero il Natale in famiglia.

Sta preparando due polli ruspanti per il pranzo. Ci infila dentro aglio, sale e timo, mai grasso, solo spezie che ha messo a marinare il giorno prima in olio d’oliva. Farà le patate arrosto per Valentin ed Étienne, che ne vanno pazzi, fagiolini in soffritto di cipolle per Louise e zucchine al gratin per Paul-Émile.

Scostando la tenda vede il furgone del rifugio che si ferma davanti alla casa. Pensa che Nina sia finalmente venuta a trovare Étienne, invece Valentin scende e Nina riparte subito senza darle il tempo di uscire per trattenerla, invitarla a entrare, offrirle un caffè, guardarla, sentirla, toccarla. Sono anni che non la vede. Certe volte la incrocia al volante del furgone, mai su un marciapiede. Sa che Nina lavora al rifugio da molto tempo, potrebbe andare a trovarla lei, potrebbe pure passare a casa sua, ma non osa. Anche dopo tanto tempo è ancora addolorata che Nina ed Étienne non si parlino più.

«Che facevi con Nina Beau, tesoro?» chiede al nipote appena entrato in cucina.

«Ciao, nonna. La conosci?».

«È stata come una figlia per me. Tanto tempo fa».

«Viene qui stasera».

«...».

«L’ho invitata per l’aperitivo alle sei. Prima vuole passare a casa sua per lavarsi e avere un buon odore. Così mi ha detto».

Marie-Laure osserva Valentin, perplessa. Come fa a conoscerla? E come è riuscito a farla venire a casa loro?

«Vado a vedere se papà si è svegliato!» esclama il nipote sparendo su per le scale.

Marie-Laure accende il forno per farlo riscaldare, centottanta gradi, poi avvicina una sedia per sedersi con lo sguardo nel nulla, nell’assenza del presente.

Era il 12 agosto 1994, una data che non dimenticherà mai. In ogni vita ci sono dei prima e dei dopo.

Tornava dal mare. Ogni pomeriggio rientrava da sola lasciando Marc e i figli sulla spiaggia. Adorava quel momento tutto per lei, la casa vuota, gli occhi che si riabituavano alla penombra, le persiane chiuse per schermare il sole cocente, il pavimento freddo sotto le piante dei piedi, il calore dei muri, il frinire delle cicale, la doccia fresca, la crema di cui si spalmava il corpo e, prima di preparare la cena, mettersi su una sdraio all’ombra a leggere un romanzo sorseggiando un rosé col ghiaccio, il paradiso sul palato.

Aveva sentito suonare il telefono della casa. Prima di rispondere l’aveva lasciato squillare una decina di volte pensando che non fosse per lei, ma per i proprietari che d’estate davano in affitto la casa. Era troppo presto per la telefonata di Nina e Adrien, gli unici ad avere quel numero, che di solito chiamavano la sera verso le nove. All’altro capo del filo aveva sentito qualcuno che singhiozzava, sbuffava, piangeva, tirava su col naso. Non aveva riconosciuto subito Adrien, non aveva capito quel che diceva. Quando l’aveva capito era stata tentata di riattaccargli il telefono in faccia, fare dietrofront, tornare in spiaggia, togliersi i vestiti, guardare il mare, uccidere il cielo. Era solo riuscita a dire:

«Nina lo sa?».

«Ancora no, non credo. È al lavoro».

«Dov’è tua madre, Adrien? Dov’è Joséphine?».

«Fuori per tutto il giorno. Sono solo. Che faccio?».

Marie-Laure non sapeva che ore fossero. Dopo quattro settimane a Saint-Raphaël non si ricordava più dove avessero messo gli orologi. “Non c’è un orologio da parete in questa casa” aveva pensato, “e neanche un calendario”.

«Adrien, che ore sono?».

«Le quattro e venticinque».

Aveva fatto un rapido calcolo: se andava subito a chiamare Marc e i figli, facevano i bagagli e partivano, sarebbero arrivati a La Comelle non prima delle due o tre di notte.

«Che giorno è oggi?».

«Venerdì».

«Bene, vuol dire che domani tu e Nina non lavorate».

«Io sì, Nina no».

«Okay, pazienza... Ascolta bene. Mi stai ascoltando?».

«Sì».

«Asciugati le lacrime e vai a prenderla all’uscita dal lavoro, trova una scusa qualsiasi e portala lontano, più lontano che puoi, finché non arriviamo noi. Non deve tornare a casa. Falle credere che avete due giorni liberi... Inventa».

«Non ci riuscirò mai! Vedrà subito che ho pianto!».

«Sì che ci riesci!» aveva quasi urlato Marie-Laure. «Fallo per Nina!».

Aveva sentito nella cornetta i singhiozzi di Adrien. “Ha solo diciott’anni, gli sto chiedendo l’impossibile”. Aveva pensato ai Damamme, forse doveva passare attraverso loro, chiamarli per avvertirli. Nina li conosceva appena, è vero, ma loro avrebbero trovato il modo di portarla da qualche parte per il tempo che lei fosse rientrata a La Comelle a gestire il “seguito”. Le era tornata in mente Marion, l’aveva rivista nel cortile della scuola e risentita ridere. Erano così giovani e spensierate! Perché Marion aveva deciso di tagliare i ponti con tutti? Perché la gente si perdeva di vista? Il padre era appena morto. Come avvertirla? Come aveva potuto abbandonare Nina? Perché? Non stava a lei giudicare...

La voce di Adrien l’aveva riscossa.

«Ci riuscirò» aveva mormorato il ragazzo prima di riattaccare.

 

*

 

Nello stesso momento Nina, seduta a una scrivania, stava archiviando vecchie fatture del 1993 per mese e per ordine alfabetico. Era arrivata a marzo e si era chiesta cosa facesse lei nel marzo del 1993. Era ancora in quarta liceo e non le sarebbe piaciuto tornarci. Affrontare di nuovo l’esame? No grazie. Non sapeva ancora che di lì a poco avrebbe dato qualunque cosa per rifarlo, anche tutti gli anni, se solo avesse avuto la possibilità di tornare al marzo del 1993.

Fuori era bel tempo. In ufficio si annoiava. Vedeva settembre e la partenza per Parigi come una liberazione. Ci pensava come fosse il mare, un campo di possibilità, un infinito, una non-tranquillità: scoprire, disegnare, cantare, comporre, conoscere, e ogni sera ritrovare Étienne e Adrien, vivere tutti e tre insieme.

Da sei giorni stava con Emmanuel Damamme, che la aspettava la sera dopo il lavoro. Mangiavano insieme. Nina non aveva mai visto una cosa del genere, una cena per due che li aspettava sul tavolo della cucina, solo da riscaldare. Come al ristorante, con vari antipasti, un primo, un secondo e un dessert. Ecco quindi cosa significava avere persone di servizio: non fare più la spesa, non passare l’aspirapolvere, non lavarsi la biancheria. A Emmanuel rifacevano perfino il letto. Viveva nella proprietà dei genitori in una casa isolata e indipendente. Il giorno prima era partito per andare a trovare degli amici a Saint-Tropez, dove si sarebbe trattenuto per qualche giorno. Quella mattina l’aveva chiamata in ufficio per chiederle ridendo se stava lavorando bene. «Mi manchi» le aveva detto. «Anche tu» aveva risposto lei.

Non riusciva a credere di piacere a quel figlio di papà, quando lei stessa si vedeva come una reietta a causa di “quella puttana” della madre. Aveva sempre la sensazione di essere come un cane abbandonato raccolto da un’anima buona.

Al Club 4, la sera in cui avrebbe dovuto esserci il presunto concerto di Daho, Emmanuel l’aveva fatta bere. Erano rimasti al bar appiccicati l’uno all’altra. Nina aveva dimenticato Adrien sulla pista, aveva dimenticato tutto. Si sentiva un’altra, era come una ragazza di cui avesse preso in prestito la vita per il tempo di un po’ di felicità. Emmanuel l’aveva baciata. Sentire la sua lingua era stato come una magnifica promessa. Nina ignorava che esistessero baci come quelli di Emmanuel. Quel ragazzo era di una sensualità innegabile, avrebbe potuto fare di lei quel che voleva, le dava la sensazione di non toccare più terra, di offrirsi, come quando la vita si rivela molto più grande di quanto si sia immaginato. L’aveva accarezzata, aveva posato le mani sul suo vestito, dopo tre gin aveva osato scendere più in basso, toccarle l’inguine attraverso la stoffa, sempre più pressante. Nina aveva emesso un gemito, la pelle le formicolava di desiderio, era percorsa da un pizzicore delizioso. Lei non aveva voglia di fare la stessa cosa, gli aveva appena sfiorato il pene in erezione e si era terrorizzata, le era sembrato qualcosa di violento.

Alla fine Emmanuel aveva mormorato: «Dobbiamo andare». Le aveva preso la mano, l’aveva fatta salire sulla sua cabriolet e aveva detto: «Dato che è la prima volta non scoperemo in macchina. Andiamo a casa mia».

“Scopare”. Quella parola l’aveva scioccata. Era tornata sulla terra, l’effetto dell’alcol era svanito, come se qualcuno le avesse dato una spinta. Aveva avuto paura. Avrebbe sentito male? Avrebbe sanguinato? Avrebbe saputo come fare? Quando Emmanuel era entrato al Club 4 e si erano dati il primo bacio non pensava che le cose sarebbero andate così in fretta. Non era passata neanche un’ora, erano in macchina insieme e non aveva avuto nemmeno il tempo di avvertire Adrien. Quella sera sarebbe venuta Joséphine a prenderli dopo la chiusura del locale: «Appuntamento alle quattro al parcheggio, come al solito». Nina sperava di tornare con Emmanuel, l’aveva detto la sera prima a Adrien ridendo, pregando e saltando sul letto, ma in quel momento non rideva più, aveva paura. Restavano solo le preghiere. “Dio, non so dove ti nascondi, ma fa’ che tutto vada bene”.

Che avrebbe pensato Joséphine quando al parcheggio avrebbe trovato Adrien senza Nina?

Non si capacitava di essere seduta in quella macchina, un’automobile che le faceva battere il cuore appena la scorgeva per strada. Era ancora una bambina e si trovava su un’Alpine A610 rossa, una macchina sportiva, da ricchi, da persone importanti. Cenerentola nel paese dei Damamme.

Il Club 4 distava trenta chilometri da La Comelle. Un mondo separava Nina Beau da Emmanuel Damamme, un miliardo di anni luce. Allora significava quello essere “bella come il sole”, espressione che le rivolgevano sempre? Significava piacere a un uomo che sembrava il principe azzurro?

Emmanuel le aveva detto di scegliere la musica.

«Guarda nel cassettino e sul cruscotto».

C’erano decine di cassette tra cui due album di Étienne Daho, Pop Satori e Pour nos vies martiennes. Tanto per ridere aveva infilato nel mangianastri una cassetta degli Oasis. Era risuonata la voce di Liam Gallagher. Emmanuel aveva abbassato il volume.

«Parlami ancora di te, Nina».

Si era sentita inutile, stupida, minuscola, ignorante. La timidezza aveva preso il sopravvento.

«Preferirei che fossi tu a parlarmi di te» si era sentita rispondere.

«E se non parlassimo affatto?».

Aveva preso la mano di Nina e se l’era posata sul cazzo. Si era accarezzato con le dita di lei, lentamente, con una leggera pressione sui jeans, non in maniera brutale. Era delicato, ma terribilmente determinato. Ancora una volta Nina aveva detestato quella sensazione di violenza. Dopo averlo tanto sognato, il sogno stava prendendo una strana piega. Aveva fretta di arrivare a casa di Emmanuel e bere ancora, riempirsi di quell’alcol che fa credere che sia bel tempo anche se piove. Dopo aver oltrepassato un cancello Nina aveva visto più avanti una sontuosa dimora circondata dagli alberi davanti alla quale aveva intuito la presenza di una piscina. Tutto era immerso nell’oscurità.

«Mi riaccompagni a casa, dopo?» l’aveva quasi supplicato.

Lui aveva sorriso e risposto: «Sempre che ci sia un dopo». Poi, notando il disagio di Nina, l’aveva tranquillizzata.

«Andrà tutto bene, te lo prometto».

Dopo circa duecento metri si era fermato davanti a una casa in pietra, più piccola, con i muri tappezzati di edera. Le persiane di legno erano aperte e avevano l’aria di esserlo da sempre. La porta d’ingresso non era chiusa a chiave. All’interno c’era odore di candele. Era ancora più bella della casa di Étienne, c’era un che di vecchio e prezioso, Nina non aveva mai visto tanti quadri alle pareti.

Emmanuel aveva preparato due gin tonic con molto gin, avevano brindato. Prima di salire in bagno le aveva indicato l’impianto stereo dicendo: «Mettiti comoda, scegli la musica».

Aveva voglia di mangiarla, di scoparla, stava impazzendo di desiderio, ma di fronte alla sua espressione impaurita si dominava.

“Controllati” si era detto davanti allo specchio del bagno.

Quella ragazza gli piaceva davvero, era di un’intensità sessuale che fino a quel momento non aveva mai provato. Nessuna delle ragazze con cui era andato a letto gli aveva fatto quell’effetto. Tuttavia era goffa e giovane, molto giovane. Doveva andarci cauto. Stentava a credere che non avesse mai fatto l’amore, era una che usciva molto ed emanava qualcosa di vivo, di sfrontato. In ufficio l’aveva osservata guardare gli altri, sicura di sé. Aveva pensato che mentisse, come per la storia di Étienne Daho, che lo prendesse per un coglione, ma da quando erano usciti dal Club 4 la sua espressione disfatta, i suoi sorrisi pallidi, la tensione dei suoi gesti e la voce incerta le avevano fatto perdere dieci anni. Emmanuel aveva visto in lei non più la giovane donna, ma la ragazzina, e aveva capito che era effettivamente vergine.

Era tornato da lei, l’aveva trovata in piedi appoggiata a un armadietto della cucina con il bicchiere già vuoto. «Vieni di là» le aveva detto abbracciandola. Si erano stesi sul divano vestiti. L’aveva accarezzata per tranquillizzarla, e aveva sentito che si rilassava. Doveva farle tornare la voglia, come poco prima in discoteca. Era importante che il momento fosse condiviso, altrimenti non c’era gusto. Bisognava che Nina provasse piacere e, qualsiasi cosa fosse successa, conservasse di lui un bel ricordo. Emmanuel non era un rozzo, accordava molta importanza all’immagine che dava di sé, voleva assolutamente piacere.

Vedendolo tornare dal bagno Nina l’aveva trovato bellissimo. Era spettinato, aveva gli occhi come due braci, trasudava desiderio per lei, Nina lo sentiva, lo vedeva, lo respirava, il suo sguardo emanava una brama animale ed era la cosa che la terrorizzava. Sapeva che sarebbe uscita da quella casa diversa da prima, che lui l’avrebbe sverginata. Aveva pensato a Étienne e Adrien. Che avrebbero detto se l’avessero vista in quella casa con lui? Étienne l’avrebbe di sicuro presa in giro, non avrebbe sopportato che qualcuno l’avesse toccata, quindi si sarebbe rifugiato dietro risolini e sarcasmi. Adrien le avrebbe sorriso in quel suo modo enigmatico che fin dall’infanzia non era mai riuscita a decifrare. Ne aveva brutalmente sentito la mancanza e li aveva scacciati dalla propria mente come si scaccia una mosca.

Emmanuel l’aveva presa per mano, «Vieni di là», e la dolcezza era passata dall’uno all’altra, l’aveva portata sul divano, si era steso sulla schiena e lei si era messa sopra di lui leggera come una piuma. Le aveva sollevato il vestito, le aveva sganciato il reggiseno, Nina l’aveva lasciato fare, Emmanuel era già esperto in molte cose che lei ignorava, gesti che la facevano gemere, che le suscitavano vampate di calore e piacere e si irradiavano fino alle parti intime senza che lui la toccasse, bastava che le mettesse la lingua nell’orecchio o la mordicchiasse nei punti sensibili, zone del corpo che le risvegliava e le rivelava.

Una notte, facendo zapping mentre Étienne e Adrien si erano addormentati accanto a lei, era capitata su un film porno. Si era sincerata che i ragazzi dormissero sodo, teneva in mano il telecomando, pronta a cambiare canale se uno dei due avesse aperto gli occhi. Avrebbe preferito morire piuttosto che farsi beccare. Aveva abbassato il volume e guardato quel sesso esibito, bagnato, disgustoso e allo stesso tempo affascinante. Gli attori non si accarezzavano, non c’era amore nella scena, era un fatto meccanico, pura carne, come in un mattatoio o nella cella frigorifera di una macelleria.

Il giorno dopo aveva detto ai ragazzi:

«Ieri notte ho visto un film porno, sono rimasta scioccata».

«Zitta, non voglio sapere niente della tua vita sessuale» le aveva risposto Étienne.

«Tu però mi racconti come sono le tette delle tue amichette!».

«Non è la stessa cosa».

«Perché no?».

«Tu sei una ragazza».

Adrien si era prodotto in un sorriso timido.

Emmanuel l’aveva accarezzata a lungo. Ogni tanto la guardava, le chiedeva come stava, era rosso in viso, sudava, aveva perso la sua superbia, sembrava fuori fase. Lei rispondeva di sì.

Non sapeva dire altro, soltanto sì.

Si era alzato per spegnere la luce. L’aveva fatto per lei, lui se ne fregava. L’aveva stesa sulla schiena, con mossa sicura le aveva tolto il vestito nonché il reggiseno che le penzolava sulla pancia, poi si era spogliato a sua volta liberando un odore che era un misto di profumo e sudore. Nudi l’uno contro l’altra, Nina l’aveva trovato un po’ pesante. Era sceso con la faccia, l’aveva leccata tra le gambe. Per Nina essere esposta in quel modo alla lingua di uno sconosciuto e sentire le sue dita che la frugavano dentro era una miscela di felicità e malessere. Voglia e repulsione andavano a braccetto, piacere e disgusto erano avvinghiati l’uno all’altro. Lui si era riportato all’altezza della sua faccia, la sua bocca sapeva di sesso umido, Nina aveva desiderato scappare di corsa, tornare a essere una bambina di sette anni, non più alta della staccionata di legno bianco che sorgeva davanti alla casa del nonno. Le aveva allargato le gambe, era entrato dentro di lei senza forzare, lei aveva sentito male, aveva smesso di respirare, lui aveva fatto avanti e indietro nel suo corpo sbuffando, aveva stretto i pugni, si era teso, «Ho troppa voglia di te» le aveva detto in un soffio, poi era finito tutto, aveva smesso di muoversi. Nina aveva sentito il suo respiro sul collo. Emmanuel si era tolto il preservativo e le aveva sussurrato che l’avrebbero rifatto con calma.

“Così è questo che fa girare il mondo e scrivere canzoni” aveva pensato Nina. “Devo rilavorare un po’ sulle parole”.

 

*

 

Adrien rivedeva la scena a ciclo continuo. Stava facendo il pieno a una Renault 5 bianca con targa di Lione quando il camion dei pompieri era passato davanti alla stazione di servizio a sirene spiegate. Non ci aveva fatto caso, aveva gli occhi fissi sulle cifre che scorrevano sul quadrante della pompa, non vedeva l’ora di finire per tornare nel suo gabbiotto a leggere un romanzo che lo stava appassionando.

Il mezzo si era fermato trecento metri più avanti senza spegnere la sirena. Istintivamente Adrien aveva guardato da quella parte, aveva visto un assembramento, gente che correva. «Ci sono appena passata davanti» aveva commentato la proprietaria della Renault, «una scena orribile, qualcuno ha detto che una macchina ha travolto un postino». Adrien aveva subito capito che si trattava di Pierre. Conosceva il suo giro, le sue strade, sapeva che faceva lui la parte bassa di La Comelle.

La sera prima aveva cenato a casa di Nina perché Emmanuel era andato a Saint-Tropez. Da quando ci era andata a letto non lo mollava più, tralasciava perfino di telefonare a Étienne la sera. «Allora com’è stato, lo ami?» le aveva chiesto Adrien, ma Nina era rimasta evasiva fino a che aveva detto una buffa frase: «Non è poi tutta questa fine del mondo». Quelle parole gli erano sembrate talmente inattese, talmente fuori luogo che gli era venuta la ridarella. E Nina con lui, senza aggiungere altro.

Mentre cenavano in giardino Pierre si era lamentato che gli facevano male i muscoli e aveva detto con un sorriso: «Non sono più giovanissimo».

Adrien aveva smesso di premere il grilletto dell’erogatore, le cifre avevano smesso di scorrere, aveva lasciato il serbatoio aperto e spiccato la corsa verso i lampeggianti. Quei trecento metri gli erano parsi interminabili come negli incubi in cui si corre senza avanzare o si cerca di urlare senza riuscire a emettere suoni. Poi aveva visto l’uomo steso a terra, le gambe immobili, chiazze di sangue, schizzi scarlatti. “E ora che farà Nina?” aveva pensato. Il camion che l’aveva investito non aveva subìto danni, non c’erano tracce sulla carrozzeria, come se l’autista si fosse fermato in mezzo alla strada per fare una commissione. Pallido, stravolto e indenne, il camionista continuava a ripetere: «Non l’ho visto, non l’ho visto». Da sotto il mezzo sporgeva una ruota della bicicletta di Pierre, come se il camion avesse inghiottito quello che voleva e sputato il resto. La faccia e la parte superiore del corpo del postino erano sotto una coperta, come nei film in cui la vittima è appena stata uccisa. Adrien aveva visto la borsa della posta abbandonata su una panchina un po’ in disparte. Che ci faceva lì? Era ammaccata, spiaccicata. Istintivamente l’aveva presa ed era entrato in una cabina telefonica. A casa sua il telefono suonava a vuoto, si era ricordato che la madre era andata a Lione per la giornata. Si era sentito solo al mondo, alzando la testa aveva visto i pompieri che portavano via il corpo di Pierre su una barella. Si era frugato in tasca, aveva trovato il foglietto su cui Nina aveva scritto il numero di telefono della casa che i Beaulieu prendevano in affitto.

Il telefono aveva squillato più volte prima che Marie-Laure rispondesse.

Dopo aver riattaccato Adrien si era messo a correre come un pazzo, era tornato nel gabbiotto e aveva preso duemila franchi dalla cassa. Era una follia, quel lavoro gli serviva per poter andare a Parigi, sistemarsi, mangiare. L’avrebbero di sicuro licenziato, ma agiva d’istinto, la sua ragione se n’era andata con Pierre Beau sulla barella. Doveva portare Nina lontano da lì in attesa che i Beaulieu tornassero da Saint-Raphaël.

E doveva farlo in fretta, prima che qualcuno avvertisse Nina.

Era entrato alla Damamme senza presentarsi, rosso come un papavero. L’impiegata all’accoglienza, una donna grossa con i capelli bianchi e gli occhiali dalla montatura nera, l’aveva guardato interdetta. Lo conosceva di vista, si era ricordata che era un amico di Nina Beau, forse il suo ragazzo, i giovani ormai andavano per le spicce, si presentavano direttamente in ditta durante l’orario di lavoro.

«Devo vedere Nina!».

«Buongiorno. Sta lavorando» le aveva risposto, asciutta.

«Devo portarla lontano».

«Prego?».

«Lo sa già?».

La donna l’aveva guardato come se fosse fuori di testa o drogato. Nello stesso istante la gendarmeria aveva chiamato per informare la signora con gli occhiali dalla montatura nera che un autista della società aveva investito un uomo in place de Gaulle. Incidente mortale. Aspettavano il signor Damamme con la massima urgenza, non avevano ancora stabilito cause e responsabilità dell’incidente.

Nel frattempo Adrien apriva tutte le porte: uffici, sala stampanti, magazzini. Aveva nascosto la borsa della posta su una mensola in alto, dietro alcuni scatoloni, Nina non doveva assolutamente vederla.

Alla fine l’aveva trovata seduta alla scrivania. Vedendolo, lei l’aveva interrogato con gli occhi senza dire una parola. Adrien era riuscito a infinocchiarla. Non lo faceva da sempre, del resto?

«È venerdì, siamo giovani, fra un mese partiamo, Nina, andiamo a Parigi. Prima però ho voglia di fare una pazzia, abbiamo un weekend tutto per noi, ti porto dove vuoi, subito. Ho già avvertito tuo nonno, sa che sei con me, è d’accordo, si è pure messo a ridere. Vieni, andiamocene».

Lei aveva sorriso. Di fronte a quel sorriso Adrien si era dato un violento pizzicotto sull’interno del braccio per non crollare. Nina era sua sorella, la sua preferita, la persona a cui voleva più bene al mondo, l’aveva definitivamente capito in quel momento, in quella stanza grigia con vista su altri muri. Avrebbe sofferto, e a lui non andava giù. Nel frattempo le avrebbe regalato gli ultimi due giorni di spensieratezza, gli ultimi due giorni di infanzia. Nina avrebbe avuto tutto il tempo di scoprire la verità, di diventare adulta dall’oggi al domani.

Per evitare di ripassare dall’accoglienza aveva aperto la finestra alle sue spalle e l’aveva scavalcata dicendo:

«Seguimi».

«Ma non ho ancora finito di lavorare!».

«Chissenefrega, vai a letto col capo».

«Cretino...».

Si era infilata la giacca e aveva preso la borsa. Avevano percorso stradine laterali per andare alla stazione senza essere visti da nessuno. Erano arrivati a Mâcon con il regionale delle 17.10. Lì Nina aveva guardato il tabellone delle partenze e scelto Marsiglia. Adrien aveva comprato due biglietti con il denaro rubato.

«Da dove saltano fuori tutti questi soldi?».

«Me li ha dati mio padre perché ho preso la lode... Tanto vale goderseli!».

Erano arrivati alla gare Saint-Charles, la stazione di Marsiglia, alle undici di sera. Mentre Nina comprava due frittelle banana e cioccolato Adrien aveva chiamato la madre. Joséphine aveva saputo di Pierre Beau, erano tutti preoccupatissimi, Emmanuel Damamme stava cercando Nina ovunque, il gestore del distributore aveva telefonato infuriato a Joséphine, voleva denunciare Adrien, lei gli aveva riportato i soldi rubati, gli aveva spiegato la vicenda del nonno di Nina pregandolo di metterci una pietra sopra. Adrien aveva detto alla madre di passare a casa dei Beau per dar da mangiare a Paola e ai gatti, «La porta è sempre aperta, ma casomai c’è una chiave sotto il vaso rosso accanto allo zerbino», loro sarebbero tornati domenica, dalla stazione avrebbe portato Nina direttamente da Étienne, che li aspettassero lì a fine pomeriggio per darle la notizia tutti insieme. Aveva già riattaccato quando Joséphine aveva chiesto: «Ma voi dove siete?».

Adrien aveva comprato i biglietti di ritorno per la domenica, poi avevano preso un autobus che andava verso il mare e si erano fermati in una caletta chiamata la spiaggia del Profeta. L’aria era tiepida, alcuni giovani avevano acceso un fuoco, Adrien e Nina si erano uniti a loro, avevano parlato, bevuto birra, mangiato pizza, ballato sulle note di Sous le soleil de Bodega, Nina sembrava felice, guardava Adrien come si guarda una persona a cui si vuole bene. La sabbia era fredda, Adrien le aveva chiesto se le andasse di dormire sotto le stelle, lei aveva risposto: «Dài, fichissimo». Alle due si erano messi contro una capanna della spiaggia e si erano sdraiati abbracciati. «Ti voglio bene, Nina, te ne vorrò sempre» le aveva sussurrato lui. «Lo so» aveva risposto lei. Adrien non aveva chiuso occhio pensando alla morte di Pierre, alle conseguenze, alla tristezza. Com’era possibile che la vita facesse svolte così radicali?

Nina si era svegliata con la luce del sole. Si erano spogliati ed erano entrati nell’acqua del Mediterraneo. Faceva ancora fresco, ma il cielo era azzurro, prometteva bene. Di fronte a loro le isole dell’arcipelago delle Frioul avevano un riflesso bianco, quasi lunare. Erano rimasti a lungo nell’acqua calma come un lago, come se le onde fossero soltanto una leggenda.

Era pieno agosto, avevano trascorso la giornata sulla spiaggia affollata godendosi ogni secondo. Nina adorava l’accento marsigliese, ascoltava parlare la gente come se si trattasse di parole di una canzone.

Nel pomeriggio, mentre lei si riposava, Adrien aveva comprato una saponetta, dentifricio, spazzolino da denti, due bottiglie d’acqua, pomodori, un cocomero e una torta salata. Avevano portato gli stessi vestiti per due giorni, jeans, maglietta e giacca che si mettevano di notte. Durante il giorno stavano in mutande. Nina non aveva voluto andarsene dalla spiaggia. Davanti alle capanne c’erano docce pubbliche, a fine giornata si erano lavati e asciugati al sole seduti su una roccia a guardare le barche a vela e gli ultimi bagnanti. «È il più bel giorno della mia vita» aveva detto Nina. «Se solo ci fossero anche Étienne e nonno...».