23 dicembre 2017
La scuola Georges-Perec è vuota. Le aule sono chiuse.
C’è solo Romain Grimaldi, al lavoro nel suo ufficio. È passato così, perché è solo, perché a casa si annoia. Portare a spasso Bob un paio di volte è piacevole, ma fuori si gela. Si è messo una stufetta vicino ai piedi, non si è tolto il cappotto, legge la posta, risponde a qualche mail.
Gli alunni delle medie devono essere ancora a letto o a guardare la televisione in attesa dei regali. La gente sta in famiglia. Quella di Romain è in Australia.
Ieri sera ha chiesto a Nina di trascorrere insieme la serata di Natale. Lei ha risposto di sì senza pensarci. Lui non se lo aspettava.
Nina.
Qualche telefonata, tra cui una all’archivio del dipartimento “da parte di...”, e Romain ha ricevuto frammenti del suo fascicolo scolastico. Brandelli. Ha letto note e commenti alla sua licenza liceale sopravvissuti al tempo. Un’alunna brava in tutte le materie. Ha ricostruito il puzzle: promossa con menzione speciale, indirizzo arti plastiche, diciassette su venti. Avrebbe dovuto proseguire gli studi. Perché è rimasta lì? Nel fascicolo c’erano le scansioni di alcuni suoi disegni, ritratti a carboncino di due ragazzi, sempre gli stessi, di cui aveva colto i tratti salienti in maniera notevole. Un talento innegabile. Il mestiere di Romain consiste proprio nell’individuare gli alunni migliori, e forse è ciò che ha percepito in Nina la prima volta che l’ha vista al rifugio.
Ieri sera è passata a casa sua. Da dieci giorni si presenta senza avvertire. Suona alla porta e pochi minuti dopo fanno l’amore. Per il momento non capisce se quelle intrusioni gli piacciano o no. I suoi alunni lo chiamano “avere una crush”, espressione che Romain non conosceva e che significa provare attrazione per qualcuno. «Vuol dire andarci sotto, prof. Qualcosa che le piace, insomma».
Nina è rapida, le sue mani hanno qualcosa di brusco, non perde tempo. I suoi gesti esprimono esattamente il contrario della profondità e della dolcezza che hanno la sua voce e il suo sguardo. Sembra provata, diffidente, tesa, come se nel letto di Romain si servisse di lui e gli restituisse il favore soddisfacendolo. Senza amarlo.
Eppure se stasera non si facesse viva lui proverebbe una sensazione di vuoto vertiginosa.
*
Étienne apre gli occhi, ha difficoltà a riemergere. Quando la testa gli dice che è l’ora di alzarsi qualcosa dentro di lui si rifiuta, il corpo glielo impedisce. Vorrebbe ripiombare in un sonno immediato, sfuggire alla mattina, sfuggire alla giornata, continuare a sognare. Svegliarsi significa rientrare in sé, e lui non ne ha la forza.
Marie-Castille si è alzata da un pezzo. Fuori c’è una luce grigia invernale. Étienne sente le voci al piano di sotto, prima quelle dei genitori, poi il timbro acuto di Valentin, che sale fino a lui. Suo figlio. Dio, quanto ama suo figlio! Non avrebbe mai creduto di essere capace di amare un altro essere più di se stesso. Odore di caffè e pane tostato, odori del pranzo in preparazione. Tutto si mescola nella casa della sua infanzia. Dà un’occhiata alla sveglia, le undici e un quarto. Deve alzarsi, lavarsi, vestirsi. Come al solito Marie-Castille starà raccontando a qualcuno che il marito aveva bisogno di riposo, che sta recuperando, che «bisogna lasciarlo dormire, poverino».
Ripensa a Nina, al colpo che gli è preso ieri sera vedendola. Non è cambiata. Forse la pelle, un po’. Prima aveva una grana come seta, cipria, sabbia bruna. Ripensa a quello che gli ha detto. Valentin sa. Come fa a sapere? Lui non ne ha parlato con nessuno e ha lasciato i risultati degli esami clinici in ufficio, in un cassetto chiuso a doppia mandata. Non ha mai portato a casa la malattia. Quando Marie-Castille verrà a saperlo perderà la testa ed Étienne vuole vivere la propria vicenda lontano dal tumulto. Non può neanche immaginare come cambierebbe lo sguardo degli altri, non reggerebbe la loro empatia, la loro pietà. Il suo mestiere è fatto solo di quello, di vittime. Non ci tiene a ritrovarsi dall’altra parte.
Louise è l’unica al corrente, ma tiene la bocca chiusa. Ha sempre tenuto la bocca chiusa.
È al terzo stadio, ovvero “localmente avanzato”. Il che significa che ormai sono interessati anche i linfonodi. Deve farsi operare per frenare il dilagare del danno, poi sottoporsi a una prima chemioterapia, un protocollo di sei mesi per vedere come si comporta il tumore, se il cancro indietreggia di fronte all’avversario. Una seduta ogni due settimane, in ambulatorio, con un catetere nel braccio che gli inietterà il veleno. Potrà leggere il giornale, se vuole. Gliel’hanno detto: «Durante la seduta niente le impedirà di guardare un film o fare quello che le piace». Sennonché a lui piace nuotare controcorrente, fare surf, suonare la chitarra, portare il figlio a scuola, osservarlo di nascosto mentre scherza con i compagni, bere un bicchiere di rosso alla mescita vicino al commissariato, gli piace l’adrenalina di cogliere un delinquente in flagrante reato e metterlo alle corde, sorprendere Marie-Castille che mangia un gelato di nascosto per non tentarlo, l’odore della sua crema da notte quando si infila a letto accanto a lui, ascoltare musica.
Non si farà curare.
Preferisce morire all’aria aperta, in riva al mare, anziché trascinarsi per mesi nel deperimento fisico fino a che la moglie e il figlio si ricorderanno più del suo numero di camera d’ospedale che della sua faccia.
*
«Che cazzo di regalo di Natale» sibila Nina tra i denti. C’è un cane legato davanti al rifugio con tre centimetri di corda, terrorizzato quando lei gli si avvicina. Sembra quasi che si vergogni di essere stato mollato lì. Da quante ore si sta strangolando? È giovane, avrà sì e no un anno, è fradicio, affamato, un disastro. Un incrocio tra un pastore dei Pirenei e la iella. Le viene da piangere. Non ne può più. Quanto tempo ancora reggerà? “E tutti quei coglioni che si regalano cagnolini per Natale! Chi andrà a recuperarli a fine luglio, quando avranno smesso di essere ‘così carini’? Toccherà a me. ‘Che fai per le vacanze?’. ‘Mi sbarazzo del cane. E forse anche dei figli e della moglie se rompono troppo il cazzo. La vita è breve, bisogna godersela’. Quanto a te, ragazza, raccogli la merda degli altri”.
Lo stacca dalla cancellata, lo porta in ufficio, lo asciuga, lo tranquillizza. Il bastardino puzza e trema. Lo esamina, scopre i parassiti e i segni che ha sul corpo, guarda se ha un tatuaggio o un chip che lo identifichi.
Gli dà una ciotola d’acqua e una di croccantini. Lui non si fa pregare.
Sente il motore della macchina di Simona con sollievo, stamattina non ce la fa proprio ad affrontare da sola quell’abbandono. Simona posa una scatola di cioccolatini sul tavolo di Nina dicendo: «È per tutti!». Poi guarda in basso, sgrana gli occhi ed esclama:
«Ohibò, e questo da dove spunta?».
«Regalo di Natale. Era attaccato fuori».
«Dove lo mettiamo?».
«Bella domanda. Gli facciamo delle foto e lo segnaliamo alla municipale».
«A quest’ora i vigili dormono».
«Lo so».
«Sei venuta a piedi?».
«Sì».
«Coraggiosa».
«Meno di te».
Simona non risponde. Indica il cane morto di freddo che si riscalda sotto la coperta guatando le due donne come un imputato in attesa del verdetto.
«Come lo chiamiamo? Natale? Gesù? Maria?» chiede Simona accarezzandolo. «Ha il colore di un cannelé» dice poi. «Sai, i dolcetti di Bordeaux...».
«Vada per Cannelé» decide Nina.
Nel tempo che impiegano a pulire, portare fuori e accudire tutti gli altri animali si sono fatte le tre del pomeriggio. Due volontari si sono uniti a loro per aiutarle con le passeggiate. Dato che il rifugio è un edificio ormai vecchio, col freddo Nina mette un po’ di paglia in ogni box benché sia vietato per misteriosi motivi sanitari. Mette anche una coperta nelle ceste e dentro le cucce.
Durante l’inverno Simona fa cuocere gli scarti che il macellaio le tiene da parte. Nina detesta quell’odore di frattaglie che Simona fa rosolare in grandi tegami, ma è una pietanza che riscalda gli animali. Prima di andarsene Simona fa qualche scatto di Cannelé che Nina posta sui social network.
Trovato stamattina legato al cancello del rifugio dell’ADPA. Maschio, circa un anno, non identificato. Se qualcuno lo riconosce è pregato di contattarci.
Pubblicare un annuncio così è come parlare a un muro, ma spera che qualcuno si impietosisca e decida di prendere Cannelé. Le adozioni sono come le sparizioni, più passa tempo e meno probabilità ci sono di avere notizie.
*
Il furgone del rifugio non è più davanti a casa mia. Non so quando Nina sia venuta a riprenderselo, non l’ho sentita.
Guardo un po’ ovunque se mi ha lasciato un biglietto, nella cassetta delle lettere, sotto la porta, nella cesta di Nicola, due parole qualsiasi, solo un “Ciao, baci, buon Natale, passo uno di questi giorni, stai bene, mi ha fatto piacere vederti”.
Sì, due parole qualsiasi.
Non so più quel che faccio.
Sto scrivendo un articolo per informare i lettori del giornale che le ricerche col sonar nel lago della foresta si sono definitivamente interrotte, nessun altro corpo è stato trovato nell’area in cui è stata ripescata la macchina e neppure gioielli, metalli o armi. Ormai sembra assodato che ci sia una sola vittima, quella ritrovata tra le lamiere.
C’è solo un indizio in più che mi è stato confermato da una persona che conosco, un gendarme di La Comelle: il corpo era sul sedile posteriore e non davanti. Si stanno vagliando tutte le ipotesi. Suicidio, incidente, omicidio, solo il tempo permetterà di sapere.
La notte scorsa ho sognato Clotilde Marais, era seduta accanto a me, sul bordo del letto. Un incubo. Mi sono svegliata in un bagno di sudore, credo di aver urlato nel sonno.
«Virginie, è incredibile che sia proprio tu a parlare del mio caso sul giornale» diceva. Si burlava di me, parlava a voce altissima. Le rispondevo tremando: «Ma Clotilde, non sei mica tu in quella macchina». Lei mi sorrideva come faceva sempre quando ci incontravamo nei corridoi del liceo. Sorrideva al muro alle mie spalle, e quel muro era Étienne. Mi voltavo, Étienne era lì, aveva diciott’anni e piangeva lacrime di sangue.