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25 dicembre 2017

 

Mi si è gelato il sangue. Ho riconosciuto il suo fuoristrada con targa di Lione. Lui non mi ha vista quando l’ho incrociato, non ha proprio guardato nella mia direzione. Sul sedile posteriore ho scorto i capelli biondi di Louise. Neanche lei si è accorta di me. Come avrebbe potuto pensare che ero io? Quante probabilità c’erano che ci ritrovassimo davanti al rifugio il giorno di Natale? Mentre loro scendevano dalla macchina ho rallentato e mi sono fermata.

Li ho osservati nello specchietto retrovisore. Me la sono presa comoda, li ho scrutati ben bene. Mi tremavano le mani, mi sono aggrappata al volante come se il mio corpo fosse sospeso nel vuoto.

Avevo appena prenotato a Nina una sorellina per Nicola. «Vieni a prenderla fra tre settimane» aveva detto guardando sul calendario. «Il 16 gennaio. È un martedì. Il martedì è un buon giorno per adottare». Non so perché mi abbia detto così. Sono riandata con la memoria ai martedì della nostra infanzia, ma non ho trovato niente.

Sono stata tentata di scendere dalla macchina, seguirli al rifugio, mettermi in ascolto, sentire le loro voci.

Étienne indossava un giaccone e aveva il cappuccio sulla testa. Il suo modo di camminare non era cambiato. Gli ho visto il naso e la bocca, ma non gli occhi, teneva la testa china. L’adolescente accanto a lui era il suo ritratto sputato. Poi è comparsa Louise. Sembrava scossa.

Sono rimasta lì, incapace di ripartire, incapace anche di spegnere il motore e scendere. Di colpo ho pensato che Étienne avrebbe preso la sorellina adottiva di Nicola, che Nina si sarebbe vendicata dandogli il mio gatto del 16 gennaio, che si sarebbero portati via tutti e tre i micini per non separarli. Mi sono messa a piangere. Non so per quanto tempo sia restata lì a singhiozzare sul volante.

Quando ho risollevato la testa li ho visti di nuovo nello specchietto insieme alla signora che aveva ricevuto me e mi aveva portato dai gattini. Teneva un cane al guinzaglio. Intorno a lei c’erano Nina, Étienne, il figlio e Louise. Hanno guardato nella mia direzione. Nina ha detto qualcosa. Étienne si è voltato, ha fissato a lungo la mia macchina, ha esitato un po’, poi si è avvicinato da solo. Io non mi sono mossa. Non ce la facevo a ripartire. Ho aspettato con il cuore che mi batteva all’impazzata.

Arrivato alla mia altezza ha bussato contro il vetro dicendo: «Polizia. Documenti, per piacere».

Nei suoi occhi ho visto la nostra infanzia riapparire come una pelle morta. Il suo sguardo era un cocktail di divertimento e disperazione. Diciassette anni che non ci vedevamo, quattordici senza rivolgerci la parola.

L’ultima volta ci eravamo quasi azzuffati. Mai ho odiato qualcuno quanto lui.

Era lì, piegato verso di me nella mattinata gelida.

Ho abbassato il finestrino, è entrata una folata di freddo. L’ho guardato a lungo, lui pure. Probabilmente ci siamo scrutati le rispettive rughe, quelle sotto gli occhi, quelle all’attaccatura del naso e tra le sopracciglia, i solchi all’angolo delle labbra. Chi avevamo baciato? Quante volte?

«Perché stai piangendo?» mi ha chiesto.

«Perché stai per prenderti il mio gatto».