1999
Quattro anni che è sposata.
Nina ha ventitré anni e ne dimostra trenta. Da due anni Emmanuel cerca di farle fare un figlio, ma lei continua a non rimanere incinta.
Prende farmaci a base di ormoni per aumentare la fertilità, però non succede niente. Cure pesanti che la fanno ingrassare e le danno la nausea. Ha il viso gonfio. Non si guarda più allo specchio. Lei ed Emmanuel hanno fatto una quantità di analisi, tutto sembra funzionare perfettamente, a parte loro.
Ha smesso di chiamare Étienne e Adrien una volta alla settimana. Poco a poco i rapporti si sono allentati. Ha saltato una domenica perché non era in casa, un’altra perché se n’è scordata, una terza perché non si sentiva bene... Parole d’assenza della vita, quando la separazione diventa un’abitudine, parole come “Dopotutto non siamo più ragazzini”.
E poi nei posti nuovi si stringono nuove amicizie. Per Étienne si tratta di colleghi. Per Adrien di attori, registi, autori. Le Madri è stato un successo. Da allora ha scritto altre due pièce, di cui una è stata comprata dal Théâtre des Abbesses. Sarà l’evento teatrale di settembre 2000.
Così quella mattina, quando risponde al telefono e riconosce la voce di Adrien, Nina pensa subito a qualcosa di grave. Altrimenti perché l’avrebbe chiamata durante la settimana?
«Come stai?» comincia Adrien.
«Bene, grazie».
«Perché parli piano?».
«Perché la cuoca origlia».
«E perché lo fa?».
«Perché non le piaccio».
«Tu piaci a tutti, Nina».
«Piacevo a tutti quand’ero giovane».
«Sei ancora giovane».
«Allora quand’ero piccola. Perché mi hai chiamato? Stai bene?».
Trattiene il fiato aspettando la risposta.
«Sì».
«Étienne?».
«Penso che stia bene anche lui».
«Allora perché mi hai chiamato? Non è mica domenica».
«La notte scorsa mi è venuta in mente una cosa».
«...».
«Ho nascosto una borsa alla Damamme».
«Che borsa?».
«La borsa della posta di tuo nonno».
«...».
«L’ho trovata su una panchina il giorno dell’incidente. Nel trambusto, qualcuno doveva averla posata lì. L’ho presa, e quando sono venuto alla Damamme per portarti a Marsiglia, prima di entrare nel tuo ufficio l’ho nascosta in una stanza, su uno scaffale».
«Adrien, sono passati cinque anni! Perché non me l’hai detto prima?».
«Me l’ero completamente dimenticato. Ma stanotte l’ho sognato. Un sogno stranissimo, come se...».
«Come se?».
«Ho sognato lui... Pierre mi parlava».
«...».
«E nel sogno mi diceva di dirtelo, perché tu la ritrovassi».
Adrien le aveva dato indicazioni precise. «Una porta più piccola delle altre non lontana dall’ufficio in cui ti ho trovato quel giorno. C’erano casse dappertutto, scatole di cartone, ricordo anche un poster sul muro, mi pare di montagne o di un lago, comunque un paesaggio». Nina non deve cercare a lungo, sale su un tavolo e la vede.
Nessuno l’ha toccata. La borsa dorme da cinque anni tra l’ombra e la polvere sul quinto scaffale della parete di sinistra. È un po’ schiacciata.
Ora che ce l’ha tra le mani Nina trema, riflette, è sottosopra, non osa aprirla. Probabilmente di quando in quando una lampadina l’ha illuminata, ma nessuno ha mai riposto una scatola d’archivio in quel punto inaccessibile. Come diavolo ha fatto Adrien a ficcarla lassù?
In seguito le racconterà di avercela tirata con la forza della disperazione.
Nina accarezza il cuoio. Il nonno era morto senza aver finito il giro, quindi dev’esserci ancora della posta dentro. La stringe a sé, la nasconde sotto il cappotto ed esce sotto lo sguardo incuriosito di Claudine, un’ex collega, la sola in cui si sia imbattuta arrivando alla Damamme con il cuore che le batteva. Nina le aveva detto che voleva ritrovare una vecchia borsa dimenticata su uno scaffale subito prima che si sposasse, quando lavorava con Yves-Marie Le Camus. Aveva parlato senza fermarsi mentre l’altra la guardava. Aveva letto nei suoi occhi che l’ex collega l’aveva riconosciuta a stento quand’era entrata.
«Ha trovato quel che cercava?».
Nina sobbalza. Si era quasi scordata di Claudine.
«Sì, grazie mille... Mi raccomando, non dica a mio marito che sono venuta, voglio fargli una sorpresa».
«Mi cucio la bocca... Quant’eravate belli il giorno delle nozze...».
Nina vede che Claudine la sta squadrando dalla testa ai piedi... Che rimane del giovane cigno gracile? Non sa nemmeno dove sia finito il suo bell’abito avorio, probabilmente perso tra una scatola e l’altra, tra un nuovo arredamento e l’altro, tra un riordino e l’altro, tra un armadio nuovo e l’altro. Emmanuel ha la mania di cambiare arredamento, comprare mobili, buttarli via o cambiarli di posto, fare fuochi in giardino per bruciare il “vecchiume”.
«Oh, santo Dio, ma lei è incinta!» esclama Claudine fissando le rotondità di Nina, inclusa la borsa che si tiene stretta al petto sotto il cappotto.
Nina è incapace di rispondere. Impallidisce e abbassa gli occhi mormorando: «No. Arrivederci». Poi scappa come una ladra, sale in macchina, mette in moto e si affretta a uscire dal parcheggio per paura di incontrare Emmanuel. Non c’è motivo, visto che è in viaggio.
Prima, quando lui partiva, ne sentiva la mancanza. Adesso è felice quando gli prepara la valigia per stare fuori una settimana, si pregusta il riposo e il sollievo, si alleggerisce del peso che le grava sullo stomaco. Nina non lavora, ma è sempre stanca.
Ha messo la borsa da postino sul sedile del passeggero con la sensazione di avere il nonno accanto a sé, un po’ sciupato, appiattito. Ecco cosa rimane di quell’uomo, unica prova della sua tragica scomparsa. Dato che la madre si è portata via tutto, Nina non possiede niente di lui a parte i ricordi, neanche un vestito. Per fortuna, conserva in una scatola una fotografia seppia, quella del matrimonio dei nonni.
Verso la fine Pierre partiva per il giro con due borse, una per le raccomandate e l’altra per la posta ordinaria. Nina ha in macchina quest’ultima, la stessa in cui pescava le lettere per leggerle di nascosto.
In fondo, l’unica cosa che la madre le ha lasciato in eredità è il furto. Non osa guardare la borsa. A cose normali dovrebbe andare a restituirla alle poste o alla polizia, ma non lo farà mai.
*
Étienne è ancora lontano dal fare il suo primo interrogatorio. Benché effettivo, rimane in disparte, osserva. A interrogare è il commissario Giraud.
Una banale storia di borseggio. Due ragazzette con l’aria da santarelline, minorenni, faccine d’angelo, pulite. Una delle due ferma un passante per chiedergli l’ora o la strada, l’altra si fa le tasche o la borsa della vittima. Soldi, sigarette, portafogli di pelle, orologi: sono queste le cose di loro interesse. Dei documenti se ne fregano, li buttano in un cassonetto. In compenso da un paio d’anni sempre più gente utilizza un telefono cellulare, e con la proliferazione dei telefonini si è creato un bel mercato nero a Lione. Il commissario spera che le due ragazze gli permettano di risalire all’organizzazione a cui li rivendono.
Si sono fatte beccare da una guardia in un negozio di lusso con le mani nel sacco, o meglio in una borsa Vuitton. Hanno cercato di scappare, si sono divincolate, difese a calci e pugni, finché due marcantoni le hanno immobilizzate e consegnate alla polizia.
Negano tutto, hanno l’atteggiamento del “Avete sbagliato persona”.
Eppure da mesi imperversano dalle parti del parco della Tête d’Or. Sono state identificate e gli identikit corrispondono. Si chiamano Émilie Rave e Sabrina Berger.
Delle due, Émilie sembra essere il cervello. Sfrontata, non fa che sorridere quando il commissario le fa una domanda e da quando è entrata nella stanza degli interrogatori sfida Étienne con lo sguardo. Sabrina è più riservata, non parla, sta con gli occhi bassi, si tiene in disparte.
Trattandosi di minorenni sono assistite da un avvocato. Tutt’altro genere rispetto ai piccoli delinquenti con cui la polizia ha a che fare di solito. Sono due figlie di ricchi che si divertono a giocare alle Arsenio Lupin e si comportano come puttane di lusso. Due facce da schiaffi.
I genitori arriveranno da un momento all’altro.
Da quando è in polizia Étienne ha sentito di tutto. «Non sono stato io, non ho fatto niente. È colpa delle voci che ho nella testa, mi danno ordini. Non c’entro niente. Non l’ho fatto apposta. State sbagliando persona, vi confondete con mio fratello gemello». «Tu non hai fratelli». «Sì, glielo assicuro, ho un cugino che è come un fratello, un sosia, tutti le confermeranno che ho un sosia, avevo bevuto, non ricordo più, ho dei buchi neri nella memoria, sono sonnambulo...».
E immancabilmente: «Giuro che non lo faccio più». Quante volte Étienne ha sentito quella frase...
«Va bene, confesso tutto» dice a un certo punto Émilie, «ma voglio rimanere sola con quello lì» aggiunge indicando Étienne.
Tutti gli sguardi convergono su di lui, che replica prontamente:
«Non credo che tu sia nella posizione di pretendere qualcosa».
«Oh, sulle posizioni ho le mie idee» lo provoca la ragazzina.
«Ma piantala, hai ancora la bocca sporca di latte».
«Lasci in pace la mia bocca, ho altre idee, le dico».
«Ora basta!» tuona il commissario Giraud. «Non stiamo giocando. Rischiate la prigione, signorine!».
«Siamo minorenni, non rischiamo niente» ribatte Émilie alzando gli occhi al cielo.
«Non ti illudere» le risponde Étienne, «non è la prima volta che mandiamo minorenni in galera... Di solito le ragazzine come te vengono separate dalle adulte, ma credimi, le celle sono una attaccata all’altra... Fossi in te vuoterei il sacco... a meno che non ti ecciti l’idea di strusciarti a brave donne che ti insegneranno a vivere».
«La prego di moderare i termini» interviene l’avvocato.
Étienne non fa caso all’uomo di legge. Non stacca gli occhi dalle ragazze, passa dall’una all’altra. Giraud lo lascia fare. Ha una fiducia totale in quella giovane recluta capace di far sputare il rospo ai più duri. Con quelle due sarà una passeggiata. Étienne ha un lato spietato, non si arrabbia mai, quando si trova di fronte a un sospettato punta tutto sull’azzurro acciaio dei suoi occhi, due celle frigorifere.
«A chi rivendete i telefonini?» domanda.
Émilie non sorride più, ma non abbassa lo sguardo, continua a sfidare Étienne con gli occhi.
«Mio padre non permetterà che finisca in prigione...» dice poi.
«Tuo padre non può decidere niente» replica Étienne. «Ci penserà la giudice minorile... una tipa tosta, neanche immagini quanto, e che non sopporterà quel tuo sorrisino... Avvocato, dovrebbe spiegare alle sue clienti che stanno rischiando grosso. Abbiamo decine di testimoni che le hanno viste all’opera e sono pronti a identificarle. Il giochino di queste due va avanti da mesi. Cominceremo con una bella perquisizione a casa loro, poi le metteremo a confronto con le vittime per farle crollare... Ci andremo giù duro, a meno che non ci dicano subito il nome del ricettatore...».
Un’ora dopo la faccenda è sistemata. A battere il rapporto provvederà una collega con cui Étienne è d’accordo. Lui ha un odio viscerale per le scartoffie, ma in cambio si rende utile in altri modi, telefona agli informatori, cose così.
A lui piacciono le perquisizioni e i pedinamenti, detesta battere a macchina. Anche se il commissariato ha in dotazione alcuni computer, Étienne vuole la strada. Girare per i bar, fare domande, osservare, appostarsi: quello è il suo mondo.
In quel momento sta sorseggiando una birra sul divano di casa sua e ascolta Where Is my Mind?. Adora quel pezzo dei Pixies. Lo ascolta a ripetizione pensando a Nina e ai sogni musicali di un tempo. Ai sogni e basta.
Apre un’altra lattina dicendosi che prova un gusto particolare ad avere a che fare con le sospettate. Le ragazzine sono rare, ma quanto gli piace metterle con le spalle al muro! Non c’è bisogno di ricorrere alla psicologia spicciola per capire che in tutto ciò c’entra la storia con Clotilde. È una specie di vendetta personale che porta avanti da cinque anni.
L’immagine della macchina che sprofondava nell’acqua scura del lago della foresta non l’ha mai lasciato. L’ha sognata o l’ha vista davvero? E se l’ha vista, di chi poteva essere? C’era qualcuno a bordo? Chi l’ha spinta nel lago? Lei? Ma Clotilde non aveva macchina né patente. Chi c’era al volante? Forse ha intravisto un’ombra. Perché non ha detto ai gendarmi di La Comelle che quella sera avevano fatto il bagno insieme e che lui si era addormentato accanto a lei stremato dal whisky, dalla stanchezza e dall’emozione suscitata dal funerale di Pierre Beau?
Poteva limitarsi a dire di aver visto una macchina nell’acqua, oltre al pancione di Clotilde.