Bacioni da Nizza. Saluti da Cipro. Un abbraccio dal Portogallo. Baci con tutto il cuore. Concludo mandandoti un bacio. Ci auguriamo che stiate tutti bene. Tuo Joseph. Saluti da tutta la famiglia. C’è il sole, ma tira vento. Anche da parte di Georgette. Si prepara un temporale. Andiamo a fare il bagno tutti i giorni. Con grande affetto. Tempo bellissimo. Ci mancate. State bene. Cordialmente. Ti amo. Distinti saluti.
Maggio 2000
Il ritrovamento nelle cassette delle lettere di La Comelle di posta vecchia di cinque anni ha fatto scorrere un bel po’ di inchiostro sul Journal de Saône-et-Loire. France 3 regionale ci ha perfino fatto un servizio alla fine dell’anno scorso. In sei mesi sono state segnalate ben centosessantaquattro buste con il timbro dell’11 agosto 1994, ovvero il giorno prima dell’incidente che era costato la vita a Pierre Beau, il postino dell’epoca.
Dov’erano finite per tutto quel tempo? Perché sono ricomparse all’improvviso subito prima del cambio di secolo? Il mistero appassiona gli abitanti di La Comelle, si aspetta di vedere chi sarà il prossimo a ricevere qualcosa. Normalissime lettere e cartoline che arrivano a intermittenza, come piovute dal cielo.
In realtà la distribuzione di quella posta corrisponde alle trasferte di Emmanuel. Nina le recapita sempre di notte, è fuori discussione farlo in pieno giorno.
Tiene in mano le ultime tre buste. È come la fine di qualcosa. È inquieta. Non fa che ripetersi che, quando le avrà distribuite tutte, partirà. Ancora non sa per dove, ma lascerà La Comelle.
Non le ha lette. Ne leggerà soltanto due, perché la terza è indirizzata a Étienne. La darà direttamente a lui. Lione non è lontana, può andare e tornare in giornata.
Étienne era venuto a trascorrere le feste a La Comelle. Natale in famiglia e Capodanno con gli amici, aveva detto a Nina. Non potevano non celebrare insieme il passaggio al 2000.
«Ci sarà anche Louise. I miei ci lasciano casa. Faremo una serata a base di DVD, musica e vodka».
Sennonché il 23 dicembre Emmanuel aveva detto a Nina:
«Cara, fai la valigia, sorpresa! Mettici dentro solo vestiti leggeri e non ti scordare costume da bagno e crema solare».
«Ma... dovevamo fare Capodanno con i nostri amici...».
«Li troveremo là».
«Anche Étienne e Adrien?».
«No, loro no... Ma ci saranno tutti gli altri».
«Gli altri chi?».
«Quelli di Lione».
L’idea di mettersi in costume da bagno davanti alle naiadi bionde l’aveva tramortita in piedi. Le era sembrato un particolare insormontabile.
Si era ricordata di aver fatto promettere a Adrien che avrebbero passato il Capodanno insieme.
«Preferirei restare qui...» aveva finito per dire con le lacrime agli occhi. «Sto con te a Natale e con i miei amici a Capodanno».
«Non fare la bambina, partiamo fra due ore».
All’aeroporto di Lyon-Saint-Exupéry, subito prima di prendere l’aereo, non aveva avuto il coraggio di avvertire Étienne, così aveva telefonato a Marie-Laure Beaulieu con la morte nel cuore.
«Di’ loro che non ci sarò il 31... Emmanuel mi porta a fare un viaggio».
«Buone vacanze, divertitevi!» aveva risposto Marie-Laure distrattamente, troppo impegnata a risolvere un problema di lavoro per far caso alla voce rotta di Nina.
“Gli altri lavorano” aveva pensato Nina riattaccando. “Io non sono buona a niente”.
Emmanuel aveva organizzato tutto da mesi. Quando Nina si rallegrava all’idea di fare Capodanno con i suoi amici, quando la guardava scegliere vecchie cassette e CD da portare a casa di Étienne per ballare, Emmanuel sapeva già che a Mauritius era stata affittata una grande casa su una spiaggia paradisiaca, che ci sarebbe stata tutta la banda di “un weekend al mese”, stavolta con una sfilza di bambini. Avrebbero festeggiato Natale e Capodanno insieme. Due piccioni con una fava.
Durante quei dieci giorni di vacanza il bel marito di Nina, tutto un sorriso, aveva fatto il bagno, si era abbronzato, aveva corso sulla spiaggia, aveva giocato a pallone con i figli degli altri covandoli con gli occhi e se l’era fatta ogni sera rimanendo a lungo nella sua pancia sterile e ripetendo: «Ti amo, ti amo tanto».
Nina non aveva visto praticamente niente dell’oceano Indiano. Fin dalla mattina a colazione cominciava a bere cocktail e qualunque cosa contenesse alcol. Aveva chiuso il secolo in uno stato vicino all’incoscienza senza che nessuno se ne accorgesse. Tutti erano troppo presi dalla propria felicità.
Eppure la luce era bella, i mauriziani squisiti, il cibo ottimo, ma nessuna camera con vista poteva rimpiazzare un amico.
Prende un libro a caso nella libreria di camera sua e ci infila dentro le ultime tre lettere. Guarda il titolo, Bianco di Spagna. Non l’ha mai letto. L’ha comprato tanto tempo fa e se n’è scordata. Dà un’occhiata distratta alla quarta di copertina e lo rimette insieme agli altri già letti e dimenticati o lasciati a metà.
La radiosveglia indica le 17 in punto, l’ora del primo bicchiere. Tiene le bottiglie dentro gli stivali. Ha imparato l’arte di nascondere. Non ne è fiera, ma nascondere significa ritagliarsi spazi di libertà. Quegli attimi e quei gesti appartengono solo a lei. Nina versa il liquore in un mug di ceramica. Portarsi alle labbra una tazza da tè non desta sospetti.
La cuoca è in cucina. La sente affaccendarsi ai fornelli.
Ha detto mille volte a Nathalie di non arrivare troppo presto a preparare la cena, ma quella se ne frega di ciò che dice Nina, si presenta alle quattro quando non cenano mai prima delle otto. Prima restava per servire a tavola, ora non più. Una liberazione!
«Sono problemi da ricchi, amore mio» le ripete Emmanuel, «smettila di lamentarti... Non fai niente tutto il giorno, smettila di lamentarti. Abbiamo una vita da miliardari, smettila di lamentarti. Siamo fortunati, molto fortunati, smettila di lamentarti. Sforzati, mangia un po’ di carne, smettila di lamentarti. Sei ancora ingrassata o sbaglio? Attenta, potrei metterti le corna, non mancano certo le ragazze che mi ronzano intorno, smettila di lamentarti...».
*
Agosto 2000
A parte Fabien Désérable, tutti ignorano che Sasha Laurent, l’autore del bestseller Bianco di Spagna, sia Adrien Bobin. Ha messo quella storia su carta per vivere, per continuare a vivere, ma non ha risolto niente. Porta e porterà sempre dentro di sé una clandestinità che, ironia della sorte, gli ha permesso di diventare economicamente indipendente a vent’anni.
L’anteprima della sua pièce Figli in comune è fra quindici giorni. Manifesti attaccati un po’ dappertutto a Parigi annunciano l’evento al Théâtre des Abbesses.
Adrien sta assistendo alle ultime prove seduto tre file dietro il regista. Trionfante, osserva gli attori che si muovono, cercano, fanno proposte. È come entrare in un sogno di quelli che da piccolo lo affascinavano alla televisione. Sentirli recitare le sue parole lo galvanizza, parole che appartengono a lui, che sono uscite dal suo cranio.
Per scrivere la commedia Adrien si è ispirato a una domenica in cui era arrivato da poco a Parigi e viveva da Thérèse Lepic a Vincennes. Quel giorno aveva accettato di andare a pranzo da suo padre a rue de Rome, visto che dopotutto gli pagava l’affitto e lo manteneva, e visto pure che la prospettiva di finire al CROUS senza Nina gli sembrava impraticabile. Gli altri studenti non gli interessavano, addirittura gli facevano paura. L’appartamento di Thérèse era il suo unico conforto, un isolotto pulito e accogliente.
«Il codice d’accesso è 6754C, sesto piano» gli aveva detto Sylvain Bobin al telefono. Adrien si era recato al bell’edificio haussmanniano in cui abitava il padre. Nell’ascensore dalla gabbia in ferro battuto si era guardato nello specchio antico. Come al solito aveva preparato in anticipo domande e risposte per evitare i temuti vuoti di conversazione.
Era la prima volta che penetrava nell’universo del genitore, di solito andavano a pranzo al ristorante.
Aveva trovato il nome sulla porta. Lo stesso suo cognome, cosa che aveva sempre avuto il potere di stupirlo. Padre e figlio avevano solo quello in comune: il cognome.
Gli aveva aperto una donna sulla cinquantina. Capelli biondi di media lunghezza, abbastanza carina, una finta aria alla Isabelle Huppert, ben vestita. Adrien era arrossito e si era odiato.
«Buongiorno, io sono Marie-Hélène».
«Buongiorno, io sono Adrien».
«Sì, lo so» si era messa a ridere lei.
Le aveva dato la mano, lei gli aveva preso una spalla e l’aveva baciato goffamente sulle guance. Lui ne aveva sentito il profumo, una robetta di Laura Ashley che gli dava fastidio da sempre. In metropolitana si teneva alla larga dalle donne che se lo mettevano.
L’aveva seguita. Marie-Hélène indossava una camicetta di seta bianca e una gonna nera attillata con lo spacchetto posteriore che le arrivava sotto il ginocchio. Adrien aveva trovato che avesse belle gambe, snelle e muscolose. Aveva pensato anche alla madre, che non aveva mai portato quel genere di gonne, solo sottanoni fucsia o turchesi.
Erano passati davanti alla porta della cucina, da cui emanava un aroma di qualcosa che stava bollendo lentamente in pentola.
«Galletto al vino» aveva detto Marie-Hélène come se gli avesse letto nel pensiero.
Nel corridoio che portava in salotto Adrien aveva visto alcune foto incorniciate, Marie-Hélène più giovane davanti a un albero di Natale o a un oceano, in pareo o in giacca a vento da sci, sempre con Sylvain Bobin al suo fianco. Poi ritratti di sconosciuti, bambini in costume da bagno o vecchi in posa al tavolo di un banchetto con il bicchiere di vino in mano.
Per la prima volta si affacciava nell’intimità di quello sconosciuto che era suo padre, tutta una vita cominciata ben prima della sua nascita e che continuava il proprio corso.
Ma perché la madre era stata con quell’uomo sposato? Di colpo gli era venuta voglia di sapere come si fossero ritrovate a letto insieme quelle due persone che sembravano opposte in tutto. Ne aveva sentito il bisogno conoscendo Marie-Hélène. Aveva spesso visto il padre arrivare a casa loro a La Comelle e bere un caffè in silenzio con Joséphine accanto che non vedeva l’ora che se ne andasse, ma mai si era fatto domande sul mistero del loro rapporto. L’aveva fatta ridere? Si erano amati? Come l’aveva sedotta? Cosa li aveva attratti l’uno verso l’altra? Lui era la caricatura del ragioniere intento a contare i piselli che ha davanti per calcolare il prezzo al centimetro quadrato del piatto del giorno, lei un’ex psichedelica seguace del buddhismo e della medicina naturale.
Sul tavolo del salotto, calici da champagne e coppette di salatini. Sul divano, Sylvain Bobin accanto a due giovanotti di circa venticinque e trent’anni.
Tutti e tre si erano alzati per stringergli la mano. Adrien non aveva mai dato un bacio a suo padre.
«Ciao, io mi chiamo Laurent» aveva detto il più giovane dei due.
«Io Pascal, ciao».
«Buongiorno... io sono Adrien».
Si erano seduti. Pascal e Laurent avevano chiesto a Adrien dove vivesse, cosa studiasse e dove fosse esattamente La Comelle.
Certe volte siamo talmente scollegati dalla realtà che ci mettiamo un po’ a capire l’evidenza. Adrien era sempre stato etichettato come “il timido che vive nel suo mondo” e quel giorno, trincerato nel suo mondo, gli ci erano voluti due calici di champagne per capire che Pascal e Laurent erano i suoi fratellastri. Fratellastri che avevano il suo stesso cognome, che come lui erano stati riconosciuti dal padre, con l’unica differenza che loro erano anche cresciuti col padre.
Quando si era reso conto che quel piccolo mondo parlava come se niente fosse del silenzio delle nazioni riguardo al genocidio in Ruanda e dell’interpretazione di Tom Hanks in Forrest Gump aveva pensato che il mondo era pazzo e gli era venuta voglia di vomitare i salatini al formaggio.
Si erano messi a tavola. Marie-Hélène era andata a prendere gli antipasti preceduta da Pascal.
«Ti aiuto io, mamma».
Adrien aveva osservato a lungo i fratelli chiedendosi se soffrissero del suo stesso male. Ma come saperlo? Era un male invisibile. Inoltre i due ragazzoni che aveva di fronte non gli somigliavano in niente. C’era davvero voluto che il padre andasse a piantare il suo semino altrove perché venisse al mondo un giovane rachitico come lui.
Era andato via verso le quattro del pomeriggio un po’ alticcio promettendo a Marie-Hélène che sarebbe tornato a trovarli.
Ci era tornato, ma col pensiero. Aveva isolato e vivisezionato ogni minuto di quella domenica da estraneo nella propria famiglia per farne un’opera teatrale che gli addetti ai lavori avrebbero definito “magistrale”.
Aveva rivisto il padre a intermittenza, ma sempre in trattorie affollate, durante la settimana e all’ora di pranzo. Sylvain Bobin non aveva più accennato alla sua altra vita. Perché?
Probabilmente non aveva fatto una buona impressione. Troppo riservato, troppo palliduccio, non a livello.
Come se quella domenica non fosse mai esistita.
*
Agosto 2000
Étienne riattacca. Si sente mani e testa appiccicose. Quella storia lo perseguita da troppo tempo.
È stato il gendarme Sébastien Larand ad avvertirlo, un ex compagno di scuola delle medie. Un uomo ha di nuovo telefonato alla gendarmeria di La Comelle affermando che Clotilde ed Étienne erano insieme la sera in cui Clotilde è scomparsa. «Probabilmente la stessa persona che ha telefonato al programma di Pradel nel ’97» ha aggiunto Larand.
Tre anni di silenzio ed ecco che la vicenda riaffiora.
Il caso è stato archiviato, tuttavia i gendarmi non possono ignorare quelle telefonate anonime provenienti da una cabina situata nel quartiere basso di La Comelle.
Sembra proprio che qualcuno si accanisca contro di lui, ma chi? I genitori di Clotilde? Come fare a saperlo? Deve parlare, raccontare quello che ha visto? La macchina sprofondata nel lago c’entra qualcosa? È stato un incidente? L’idea lo fa rabbrividire.
E se cominciasse con l’interrogare la testimone della stazione, quella che sostiene di aver visto Clotilde sulla banchina quella sera?
Richiama subito l’ex compagno di scuola.
«Larand, devo chiederti un piacere».