65

Lunedì mattina. Nina ha due settimane davanti a sé. Emmanuel è partito con una grossa valigia.
Finalmente respira. Alleluia.

La cuoca è in ferie. È andata sull’isola di Madera in viaggio organizzato.

Sogno e realtà si sincronizzano. Alleluia.

Dieci ore di fuso orario tra la Francia e l’Australia. Venti ore d’aereo la separeranno da Emmanuel. Decollerà stasera da Parigi. Per due giorni non potrà telefonarle.

Emmanuel non si allontanava da novembre scorso. Nina non aveva la minima libertà. Era impensabile che lui tornasse a casa e non la trovasse. Se succedeva, il ritornello era sempre lo stesso: «Dov’eri, con chi, perché? Ero preoccupatissimo. A che serve averti regalato un cellulare se lo tieni sempre spento? Ti amo».

Le aveva annunciato che partiva per Sydney due giorni prima di prendere il volo.

«Amore mio, ho una brutta notizia, devo stare fuori quindici giorni. Mi dispiace. Ho cercato di evitarlo fino all’ultimo momento, ma non posso fare altrimenti, ho la possibilità di stipulare un contratto gigantesco. Mi secca che capiti proprio durante le ferie di Nathalie... Non mi va di lasciarti tutta sola».

Da principio Nina aveva pensato che fosse uno scherzo, che avrebbe concluso il discorso dicendo: «Ci sei cascata! Non è vero niente, non parto! Resteremo insieme noi due soli, io e la mia mogliettina... E stavolta sento che funzionerà, che metteremo in cantiere un figlio».

Poi aveva visto il biglietto aereo sul letto insieme al passaporto, accanto alla camicia che aveva preso dal cassetto, e aveva capito che era vero, che sarebbe partito.

“Non devo farmi vedere contenta”.

Aveva sgranato gli occhi e risposto con l’aria più innocente del mondo:

«Non ti preoccupare, amore, quindici giorni passano in fretta».

«Potevi almeno supplicarmi un po’ di rimanere» aveva sorriso lui con un’aria a metà tra il divertito e l’accusatorio.

La stessa aria da vittima incompresa che aveva sempre. E sempre sul tono dello scherzo, perché voleva passare per un tipo cool.

Sempre più spesso Nina aveva voglia di picchiarlo. L’amore che aveva provato per lui si era mutato in disgusto. Non era un astio costante, ma intermittente, vampate di odio che potevano dissolversi dopo poco o durare per un pezzo, come un veleno che le scorresse nelle vene. Empatica e disponibile com’era, si trasformava in strega, diventava la nemica di se stessa. Le capitava di immaginare l’omicidio del marito, spingerlo giù per le scale, bruciarlo vivo, tramortirlo e metterlo al volante della sua macchina sportiva per poi lanciarlo da un dirupo, scenari alla Hitchcock che la paralizzavano. Le venivano in mente soprattutto la mattina, quando lui se la scopava prima di andare in ditta, un lavoretto veloce e pulito, tanto per piantare il seme. “Crepa” pensava chiudendo gli occhi mentre lui copulava.

Ma in quel momento non doveva assolutamente fargli cambiare idea. Quel viaggio in Australia era un dono insperato.

“L’occasione della mia vita”.

L’aveva abbracciato, aveva chiuso gli occhi, aveva pensato al nonno, a Étienne, a Adrien ed era scoppiata a piangere sussurrando all’orecchio del marito:

«Sono disperata all’idea che te ne vai, ma non preoccuparti per me, so quanto ti dai da fare per noi e per la ditta... Ti amo... Sono così fiera di te...».

Poi si era stesa sul letto chiamando a raccolta tutta la propria dolcezza e docilità. Pensava spesso che non ci fosse differenza tra lei e una puttana, tranne il fatto che il cliente era sempre lo stesso e che lei dormiva in lenzuola ricamate con lo stemma della proprietà. Diventiamo ciò che ci fanno diventare e che accettiamo.

Prende Bianco di Spagna e tira fuori le ultime tre lettere dell’11 agosto 1994, tra cui quella indirizzata a Étienne. Perché deve portargliela a Lione? Non le rivolge la parola da quel Capodanno mancato, ce l’ha con lei perché ha preferito festeggiare il cambio di millennio all’isola Mauritius.

Tornata dal viaggio l’aveva chiamato, lui non aveva risposto, allora gli aveva lasciato un messaggio vocale: «Sono io, Nina... Buon anno e buon secolo... Mi manchi. Sono passata a trovarti, ma tua madre mi ha detto che eri appena ripartito... Spero di vederti presto... Ti voglio bene... Ancora buon anno... Arresta tanti ladri cattivi e feroci assassini».

Étienne le aveva risposto tre giorni dopo con un SMS freddo e distaccato.

 

Buon anno a tutta la famiglia. Baci.

 

Famiglia? Quale famiglia, quella dei Damamme? Più che un bacio, nella parola “baci” percepiva raffiche di collera.

Come quando da piccolo le teneva il muso.

Apre la prima busta, indirizzata a una certa Julie Moreira, e trova all’interno una cartolina con un disegno di Marsupilami, il personaggio dei fumetti.

 

Cara Juju,

ho lasciato François. Due anni con uno psicopatico! Ho perso i cento chili che mi pesavano sullo stomaco. Finalmente respiro! Da quando me ne sono andata è come se mi avessero ridato lossigeno. Era diventato così geloso da non sopportare neanche lombra di qualcuno che mi sfiorasse. Quanto tempo perso. E quanti rimpianti, anche se non servono a niente. Ora tiro avanti a panini e non ho più un soldo, ma chissenefrega.

Non vedo lora di rivederti. La settimana prossima ci tufferemo dalla piattaforma dei cinque metri come quando eravamo bambine e succhieremo lecca-lecca. Molto meglio del cazzo di uno stronzo.

Un grande bacio, amica mia,

Lolò

 

Nina legge e rilegge la cartolina. Le parole “psicopatico” e “respiro” le rimbalzano nella testa, come se quella Lolò le avesse fornito le istruzioni per l’uso per andarsene. Andarsene, mollare tutto, le sembra esaltante e facilissimo.

Apre la seconda busta, indirizzata all’ADPA. Ci mette un po’ a realizzare che la sigla indica il rifugio per animali di La Comelle. Non ci ha mai messo piede, se ne è sempre tenuta alla larga per paura di restare traumatizzata. Ricorda il piccolo spaniel che avevano trovato quand’erano ancora in tre, il loro porta a porta per rintracciare l’eventuale proprietario, la sfuriata del nonno quando li aveva visti tornare con il cane in braccio, il suo rifiuto di tenerlo. I ragazzi l’avevano portato al rifugio mentre lei piangeva tutte le lacrime che aveva in corpo.

 

Gentili signori,

la presente per informarvi che un cane tipo labrador o golden retriever vive giorno e notte chiuso su un balcone che su un cortile interno privato. Campa in mezzo ai suoi stessi escrementi e dubito che venga nutrito con regolarità. La proprietaria è spesso assente.

Per un eventuale controllo, questo è lindirizzo: Cristelle Barratier, 10 chemin des Cent-Pas, La Comelle.

 

La lettera non è firmata né c’è il nome del mittente sul retro della busta. È la vendetta di qualcuno che ha un problema di vicinato o si tratta di un vero caso di maltrattamento? Sono passati sei anni. Che è successo poi? L’animale è stato tolto dal balcone? Come che sia, probabilmente a questo punto è morto.

Richiude le due buste, rimaste intatte.

Infila di nuovo la lettera per Étienne in Bianco di Spagna e rimette il libro in mezzo agli altri.

Poi compone il 12 sul telefono fisso. Una centralinista del servizio informazioni le risponde subito.

«Buongiorno, vorrei il numero di telefono del Théâtre des Abbesses a Parigi, XVIII arrondissement, A-B-B-E-S-S-E-S».

Si segna il numero, chiama il teatro e prenota un posto per l’indomani. Dato che è la sera della prima tutti i posti buoni sono già stati venduti, ne resta solo qualcuno in fondo alla sala. Poco male, l’importante è esserci. Andrà a vedere Figli in comune, la commedia scritta da Adrien. Gli farà la sorpresa di presentarsi allo spettacolo senza avvertirlo prima.

Fra poco andrà all’agenzia di viaggi a comprare il biglietto del treno, poi aspetterà che faccia buio per andare a cercare le cassette delle lettere di Julie Moreira e della Protezione animali.

Si fa la doccia ascoltando Corps et Armes, l’album di Étienne Daho. Gliel’ha regalato Emmanuel specificando: «In ricordo del concerto che non c’è mai stato la sera in cui ti ho baciato per la prima volta».

Nina conosce a memoria le parole di La Baie, una canzone che è come un viaggio immobile. Segue mentalmente la strada che costeggia il mare descritta dal cantante, la strada di chi parte.

Si asciuga i capelli, poi comincia a fare la valigia.

Stavolta se ne va.

 

*

 

Alle nove di mattina di quello stesso lunedì Étienne fa il suo ingresso a La Comelle. Ha appuntamento con Sébastien Larand, l’ex compagno di scuola diventato gendarme.

È partito da Lione alle sei. Non andrà a trovare i genitori, non ha avvertito nessuno, come il giorno in cui è andato a raccogliersi sulla tomba di Joséphine. Pensa a Nina, che probabilmente sta vegetando da sola a casa nella sua quotidianità di donna sposata che non lavora. Potrebbe farle una sorpresa, passare da lei a bere un caffè, ma non ne ha nessuna voglia.

E il fatto di non averne voglia lo fa stare male. Mai l’avrebbe creduto possibile. Non ha ancora digerito il brutto tiro che gli ha fatto a Capodanno, partire all’ultimo momento quando dovevano trascorrerlo tutti insieme. Sa che non è colpa sua, che è stato il marito, ma lei avrebbe potuto rifiutarsi. Ce l’ha con Nina perché subisce senza batter ciglio tutto ciò che quel tizio le impone.

Stamattina Étienne deve incontrare la testimone che dice di aver visto Clotilde alla stazione la sera in cui è scomparsa. Si chiama Massima Santos. Sébastien Larand le ha dato appuntamento in un bar. Meno ufficiale che in gendarmeria, più informale.

Étienne ha bisogno di sapere cos’abbia visto quella donna e perché conosca Clotilde. Ricorderà qualcosa dopo sei anni? Sébastien Larand gli ha mandato per mail la sua deposizione, raccolta cinque giorni dopo la presunta partenza di Clotilde.

Il 17 agosto 1994, alle sette di sera, Massima aveva chiuso la merceria in cui lavorava. Era tornata a casa per fare la valigia e dare le chiavi ai vicini perché innaffiassero le piante e dessero da mangiare al gatto, poi era andata alla stazione a piedi a prendere l’ultimo treno per Mâcon, quello delle 22.17. Clotilde Marais era seduta su una panchina del secondo binario con una borsa da viaggio accanto a sé. Massima l’aveva salutata ed era salita sul regionale. Aveva visto salire anche Clotilde? Non era in grado di affermarlo. Cinque giorni dopo, quando era tornata a La Comelle, la proprietaria della merceria le aveva detto dell’avviso di ricerca diramato per la scomparsa di Clotilde Marais, allora Massima aveva chiamato la gendarmeria.

Étienne entra nel bar. Alcuni uomini stanno giocando a carte intorno a un tavolo vicino alla finestra. Al suo arrivo sollevano appena la testa. Sébastien è già dentro, ha il kepì sottobraccio, sta bevendo un caffè al banco mentre fa due chiacchiere con il proprietario, un tipo che Étienne conosce di vista. A La Comelle tutti si conoscono di vista. È la prima volta che entra nel locale, è un posto da vecchi, un po’ buio, rimasto agli anni Cinquanta, senza videogiochi né musica rock.

Étienne e Sébastien vanno a sedersi in fondo alla sala. Ordinano entrambi un caffè e un bicchiere d’acqua. Sono un quarto d’ora in anticipo. Ne approfittano per raccontarsi i rispettivi percorsi lavorativi. Sébastien è impressionato da quello di Étienne. Tenente di polizia non è poco, concorso e studi sono maledettamente difficili.

Poi parlano del caso. Prima di sparire Clotilde aveva lavorato come cameriera, un lavoretto estivo.

«All’epoca ero ancora studente» racconta Sébastien, «ma i colleghi che hanno condotto l’inchiesta mi hanno detto che la ragazza aveva bruschi sbalzi di umore. Questo non è stato detto al programma di Pradel, ce l’ha riferito il proprietario della pizzeria in cui lavorava. Pare che gli ultimi giorni guardasse sempre verso l’esterno, come se aspettasse qualcuno».

Étienne ascolta senza lasciar trasparire la minima emozione. Ha imparato a dominarsi per gli orali del concorso, a indossare la maschera dell’ascolto e della riflessione.

«Quella sera Clotilde non è venuta all’appuntamento, così dopo un po’ me ne sono andato... Chi diavolo è il tizio che vi telefona per affermare il contrario?».

Sébastien fa un’alzata di spalle.

«Delazioni, ne riceviamo in continuazione... Per maggiore tranquillità bisognerebbe che prima o poi l’amico da cui hai dormito rilasci una sua testimonianza. Non si sa mai».

«Non si sa mai cosa?» lo interrompe Étienne.

«Dài e dài potresti avere delle noie. L’unico che si è fatto vivo dopo la trasmissione di TF1 è il tizio che ci telefona ogni tanto per fare il tuo nome... qualcuno che ce l’ha con te».

«Ma quando telefona non mi accusa direttamente».

«No, ma è come se lo facesse... Dice che quella sera tu e Clotilde eravate insieme al lago e riattacca...».

Quando entra Massima Santos alzano tutti e due la testa.

Sembra intimidita. Forse non è stata una buona idea convocarla lì, non è il tipo di persona che frequenta i bar. I giocatori che avevano a stento degnato di uno sguardo Étienne posano le carte sul tavolo verde come se fossero stati colti in flagrante e la salutano con aria contrita. Massima li gratifica di un cenno di testa e ordina un cappuccino come scusandosi di essere lì.

Étienne conosce di vista anche lei, ne ricorda i vestiti scuri, la pelle chiara e delicata, gli occhietti neri infossati e il crocifisso nero al collo. Una donna magra e un po’ zoppicante. Probabilmente l’ha vista accompagnando la madre in merceria o l’ha incrociata sui quattro marciapiedi del centro come tutti gli abitanti del posto.

Sébastien ed Étienne si alzano insieme per indicarle una sedia sulla quale Massima si siede un po’ a disagio posando sul tavolo di fòrmica le mani bianche e magre, che a Étienne fanno subito venire in mente zampe di gallina.

Sébastien le chiede come sta e le presenta Étienne, «importante tenente di polizia a Lione». La donna sembra colpita e impaurita. Étienne la tranquillizza subito assumendo un tono il più gentile possibile, come quando vuole mettere a suo agio un testimone o farlo parlare. Le rivolge un gran sorriso, anche se l’acidità di stomaco gli fa un male cane. Troppi caffè bevuti nelle aree di servizio dell’autostrada fra Lione e La Comelle, troppe notti in bianco, troppi incubi nei quali vede Clotilde sprofondare nell’acqua salmastra.

«Conoscevo Clotilde Marais» comincia, «per un periodo siamo anche stati insieme... La sera in cui lei l’ha vista alla stazione la stavo aspettando, avevamo appuntamento. Può dirmi cosa ha visto esattamente?».

«Be’, quello che ho già dichiarato. Era alla stazione seduta su una panchina».

«Sola?».

«Sì».

«Ne è sicura?» insiste Étienne con un tono che vorrebbe essere rassicurante.

«Sì».

«Che stava facendo? Leggeva, ascoltava musica? Aveva le cuffie del walkman sulle orecchie?».

Massima strizza gli occhi frugando nella memoria.

«No. Guardava dritto davanti a sé».

«Aveva un’aria arrabbiata? Felice? Stanca?».

«Aveva l’aria di una che aspetta il treno».

Étienne tace e riflette. Si fa per l’ennesima volta le domande che lo ossessionano e che rimugina da anni: che ore erano quando Clotilde è arrivata al lago? Ha avuto il tempo di andare alla stazione? Come c’è andata? Chi c’era nella macchina che ha visto sprofondare in acqua? L’ha vista davvero? Quella sera aveva bevuto non poco.

La donna mescola il cappuccino guardando dentro la tazza.

Étienne sa che molte testimonianze non valgono niente. Le persone dimenticano, si sbagliano, si confondono, sono piene di certezze e molto poco fisionomiste, pensano solo a se stesse e fanno poco caso agli altri. Travisano facilmente, e la dimostrazione sono gli identikit. Quante volte ha cercato l’individuo sbagliato perché i testimoni l’avevano messo su una falsa pista? «Era biondo». «Ne è sicuro?». «Sicurissimo». «Eppure qualcuno ha visto un uomo bruno che sembra corrispondere... Guardi questa foto». «Ah, sì, forse, era notte...». Quante volte ha sentito cose del genere?

Era notte! Étienne reprime subito due domande che i gendarmi, pensando a una banale fuga di adolescente, probabilmente non hanno mai fatto a Massima Santos: «Era notte quando dice di aver riconosciuto Clotilde alla stazione? Lei porta occhiali da vista?».

“Ad agosto il sole tramonta verso le nove” pensa, “quindi dopo le dieci è buio. La vecchia non deve aver visto Clotilde distintamente... Ci sono luci su una banchina di stazione... Quando mi sono svegliato e ho visto la macchina scivolare nell’acqua era già parecchio scuro, saranno state almeno le nove e mezzo”.

Guarda di nuovo Massima. Avrà una sessantina d’anni, quindi nell’agosto del 1994 ne aveva più di cinquantacinque. Quanta gente ci vede ancora perfettamente a quell’età?

Sebbene nel caso in questione la testimonianza di Massima lo sollevi da ogni responsabilità, Étienne vuole sapere se la vecchia bigotta si sbagli o dica il vero. Così gli viene un’altra idea. A La Comelle, nel 1994, c’era qualcuno che somigliasse a Clotilde? Altre ragazze alte e bionde con la stessa fisionomia e lo stesso portamento? Con tutta probabilità molte. Clotilde aveva qualche segno particolare? Solo a pensarci gli fa male lo stomaco, come se fosse stato colpito da una sbarra di ferro. Concentra la memoria sulla sua faccia, cerca di ricordare se avesse un neo, un tatuaggio, una voglia. Niente. Clotilde aveva la pelle immacolata. Evita di pensare alla sua pancia.

Sébastien lo riscuote dalle sue elucubrazioni rivolgendosi a Massima.

«Come conosceva Clotilde Marais?» le chiede.

«Da piccola veniva in negozio con la madre. Certe volte anche da sola. Faceva cucito».

Étienne interviene suo malgrado. Non ci si può controllare sempre.

«Forse si sbaglia... Clotilde non era il tipo di ragazza che cuce».

La donna lo guarda.

«Sì, invece. Si faceva le camicie da sola, modelli carini... La signora le diceva sempre di aprire un’attività, che avrebbe avuto successo... Diceva proprio così, successo».

“E che successo...” pensa Étienne.

La maggior parte delle volte si vedevano da lui, raramente da lei, ma non ricorda di aver mai notato una macchina da cucire in camera sua o in un’altra stanza, né lei gli ha mai parlato di vestiti o di cucito. Era femminile, ma orientata semmai verso l’abbigliamento sportivo. Étienne cerca di ricordare che progetti avesse una volta finito il liceo. Doveva andare a Digione a studiare scienze motorie, non certo per diventare una stilista o cose del genere.

«Controlleremo dai genitori se a casa sua c’è una macchina da cucire» dice Sébastien sollevando il braccio in direzione del cameriere. «Prende qualcos’altro?».

«No, grazie».

“Che sto facendo?” si interroga Étienne. “Mi sto scavando la fossa da solo. Se la testimonianza di questa donna crolla gli occhi di tutti si punteranno su di me, soprattutto quelli dei genitori di Clotilde. Agli altri fa comodo pensare che sia andata a vivere da qualche parte, ma non ai suoi. E poi chi è che a intervalli regolari chiama la gendarmeria per dire che quella sera era con me al lago? Forse è arrivato il momento di chiedere una mano a Adrien”.

 

*

 

Adrien apre gli occhi.

Come deve vestirsi per partecipare alla trasmissione letteraria Vol de nuit?

È la prima domanda che si pone.

Ieri sera c’è stata l’anteprima di Figli in comune. Ha ancora la testa piena di stelline.

Tutta la Parigi dell’ambiente era in piedi ad applaudirlo, attori, autori, critici di quelli che vanno in televisione o scrivono su settimanali e mensili di grido.

Non si stanca mai di leggere le belle critiche che gli piovono addosso da quando Le Madri è andato in scena. Spera che le legga anche il vecchio Py. Ma no, che idea! Il vecchio Py appartiene a un’altra vita.

Non fa che rileggere i titoli. Adrien Bobin, il piccolo principe. Adrien Bobin ci sorprende con una lingua maestosa e fluida che va dritta al cuore. Cè qualcosa di Shakespeare nel giovane Bobin. Adrien Bobin è levento dellanno. Adrien Bobin svecchia il teatro contemporaneo... Cammina a dieci centimetri dal suolo. Mette da parte gli inserti culturali in cui appare, sono il suo giardino segreto.

«C’è qualcuno nella sua vita?».

«Sì, ma non vi dirò niente».

Per strada cominciano a riconoscerlo, soprattutto gli studenti e gli attori agli inizi.

Thierry Ardisson era presente all’anteprima per preparare Tout le monde en parle, il programma televisivo più seguito dai francesi, al quale parteciperanno i tre attori principali.

Patrick Poivre d’Arvor, che ha adorato lo spettacolo, prevede una puntata di Vol de nuit sugli autori di teatro, vuole invitare Adrien a un dibattito insieme ad altri commediografi. «Come si arriva alla scrittura?», «Perché il teatro? Qual è la parte di vissuto e quale quella di finzione?», «Pensa a un attore o un’attrice per ispirarsi?», «Come appaiono le scene nel suo immaginario? Cosa prova quando sente le sue parole in bocca agli attori?».

Quando gli dicono «I suoi genitori saranno molto fieri» si porta un fazzoletto alla bocca e con aria desolata risponde: «Mamma è morta». Non dice altro. La gente non osa insistere né fargli domande a proposito del padre, meno che mai quelli che hanno visto l’anteprima di Figli in comune.

Adrien non chiama Sylvain Bobin da mesi. A che pro? Per andare insieme in una birreria che puzza di fritto e di salsa al Madera a guardar volare le mosche? A dirsi banalità per riempire i vuoti della conversazione? A sopportare lo sguardo tetro e vuoto del padre?

Domani sera c’è la prima di Figli in comune. Dovrà confrontarsi col pubblico vero.

Non ha invitato nessuno. Né il padre né la matrigna e meno che mai i fratellastri.

Si è servito di loro, ha attinto a quel materiale drammatico per scrivere la sua trama. Fine della storia.

L’addetto stampa gli ha chiesto se voleva invitare qualche amico, Adrien gli ha risposto che li aveva persi. Avrebbe potuto invitare Louise, ma ciò significava estendere l’invito a Étienne. Étienne a teatro, che assurdità! Quanto a Nina, non si muove senza il suo playboy, che mai sarebbe venuto ad assistere a un suo lavoro. Adrien non ha neanche cercato di proporglielo.

Si impone di non pensare a Nina, sennò ci sta male. Ha la sensazione di averla abbandonata nonostante la promessa che le ha fatto: «Avremo sempre una macchina nuova col pieno di benzina per te». E sempre la stessa solfa che torna a galla: «L’amore non esiste, esistono solo le dimostrazioni d’amore».

Si impone di non pensare che forse avrebbe dovuto fare lui un passo. Alla fine si convince che ognuno ha la sua vita, che è impossibile salvare il mondo intero, che pure gli altri dovrebbero fare qualcosa per salvarsi.

Okay, ma Nina non è gli altri. E poi, quante volte le ha proposto di venire a vivere con lui da Thérèse Lepic?

«Hai più avuto notizie della signora da cui abitavi quando sei arrivato a Parigi?» gli aveva chiesto Désérable una sera che cenavano insieme al ristorante L’Arpège per festeggiare i suoi successi e sotterrare definitivamente la speranza di un secondo romanzo.

«Non ci sta più con la testa» aveva risposto Adrien, secco.

Trascinato dal vino delizioso che stavano bevendo, l’altro aveva preso coraggio. Non si era mai avventurato a chiedere a Adrien della sua vita privata, aveva sempre mantenuto un certo riserbo nei confronti di Sasha Laurent, il suo pseudonimo.

«Le persone di cui parli in Bianco di Spagna... l’hanno letto?».

«Bianco di Spagna è solo un romanzo».

Désérable l’aveva guardato e per la prima volta aveva osato un: «Non penso». Adrien era arrossito portandosi alle labbra il Montrachet dell’84.

«Pensa quello che vuoi».

Adrien è ancora a letto. Sono circa le nove, a giudicare dalla luce che filtra dalle veneziane e dai rumori della strada.

Oggi è libero. Probabilmente andrà al cinema. Gli piacciono le proiezioni della tarda mattinata. Non ha ancora visto Harry, un amico vero.

Da qualche mese non riesce più a scrivere come prima. Si rende conto che va cercando le belle frasi, che volendo stupire il pubblico sta perdendo sincerità.

Scrivere Bianco di Spagna è stata una necessità. Ormai scrivere non è più salvarsi la vita, ma brillare agli occhi degli altri, e quello che prima era un piacere immenso è diventato soltanto un duro lavoro.

Sarà la stanchezza. Da quando vive a Parigi non si è mai fermato. Già sei anni.

Come passa il tempo... Pensa a Louise ed Étienne. Gli piace vederli a La Comelle, ma non a Parigi. L’idea che sbarchino alla gare de Lyon lo disturba. È andato qualche volta a prendere Louise alla stazione, ma appena la vede apparire in fondo alla banchina si sente a disagio, ha l’orribile sensazione di non sapere cosa farne. La porta per ristoranti e musei come fosse una turista. Si sente un mostro dal sangue freddo, e quando lei riparte prova sollievo.