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25 dicembre 2017

 

Nina apre gli occhi. Romain sta dormendo profondamente con la testa sotto il cuscino. Si sono addormentati cercando l’uno il calore dell’altra. Sul comodino e sul vecchio carrello ci sono ancora i resti del pranzo di Natale.

Devono essere più o meno le cinque del pomeriggio. I gatti sonnecchiano sulle poltrone tenendo d’occhio Bob beatamente steso sul piumino.

Si alza senza fare rumore.

Fa il punto della situazione: deve chiamare Simona e andare al rifugio per organizzare la partenza, ma prima prende l’album da disegno che Romain le ha regalato e con un carboncino si mette a disegnarne il profilo. Di lui vede solo una parte di faccia con i capelli scarmigliati. Sente di nuovo il desiderio nelle dita, grazie ai movimenti della mano si ricollega al proprio corpo, anche alla propria sensualità. Il polso sfiora la carta, gli occhi passano dalle linee del viso di Romain a quelle che traccia sul foglio. È immersa in un piacere manifesto che non provava da anni, quello di riprodurre un’individualità attraverso il naso, la bocca, gli occhi e la fronte del soggetto. Scrive “Natale 2017” alla base del foglio e lo lascia accanto a lui sul letto.

Ripensa a quello che ha detto Simona stamattina a proposito dell’adozione di Cannelé e della notte d’amore che aveva trascorso con l’apprendista ballerino: «Sai, Nina, si crede. Poi ci si accorge di aver sbagliato».

“È una vita che non mi faccio un bagaglio” pensa guardando i vestiti. Ha conservato la valigia della nonna Odile, quella brutta in similpelle e cartone con cui era andata a Saint-Raphaël nel 1990. L’aveva riutilizzata a settembre 2000 per andare alla prima di Figli in comune. Avrebbe potuto prendere una delle valigie che le aveva comprato Emmanuel, più grande e solida, con le rotelle, ma per “partire” ci teneva a usare quella della nonna.

Arrivando alla gare de Lyon l’aveva lasciata al deposito bagagli. Dentro, ben sistemati e stirati, c’erano i resti di sei anni di vita con Damamme.

Era la prima volta che andava a Parigi.

Con in mano la mappa della metropolitana, dalla gare de Lyon aveva preso la nuova linea 14 ed era scesa a Madeleine, da dove era andata a piedi a rue des Abbesses passando per place Blanche. Un paio di volte aveva dovuto chiedere indicazioni e passando davanti al Moulin-Rouge l’aveva trovato minuscolo, una scenografia da cinema.

A rue des Abbesses era andata a sedersi al caffè Le Saint-Jean, proprio accanto al teatro. Sapeva che la sera della prima Adrien sarebbe stato presente, forse sarebbe addirittura andato lì a bere una cosa o vedersi con gli amici.

Alle sei gli aveva mandato un messaggio.

 

Passa al caffè Le Saint-Jean, in rue des Abbesses, cè una sorpresa per te.

 

Per due ore aveva guardato la strada, i passanti e i clienti sussultando ogni volta che un’ombra appariva dietro la porta. Alle otto era andata alla biglietteria del teatro senza aver ricevuto risposta da Adrien.

Aveva pensato che fosse dietro le quinte con gli attori, che non avesse il telefono con sé, che si sarebbero visti dopo, che verso le undici, bevendo champagne, gli avrebbe detto: «Ho mollato La Comelle, vorrei restare a Parigi, puoi ospitarmi per il tempo che mi guardo in giro?».

Adrien ne sarebbe stato felice e sollevato. Nina pensava spesso alla frase che le aveva detto all’orecchio il giorno in cui si era sposata: «Avremo sempre una macchina nuova con il pieno di benzina per te». La aspettava da allora.

Erano passati sei anni tra il giorno in cui i ragazzi erano partiti e quella prima a teatro. Nina ci aveva messo sei lunghi anni a lasciare Emmanuel, e c’era stato bisogno che lui andasse in Australia perché trovasse il coraggio di scappare. Non aveva detto niente a nessuno, non aveva fatto neanche una telefonata ai suoceri. Emmanuel era capace di qualunque cosa, soprattutto delle cose peggiori. Prima che tornasse in Francia e scoprisse che lei non c’era più Adrien avrebbe trovato il modo di nasconderla da qualche parte. Aveva conoscenze, ormai.

A rue des Abbesses, vedendosi riflessa nelle vetrine, si era detta che doveva dimagrire, smettere di bere tutti i giorni e imbottirsi di ormoni, e soprattutto ricominciare a disegnare... e magari a cantare.

Guardando sfilare il paesaggio tra La Comelle e Parigi si era lasciata andare ai sogni: perché non rimettersi a fare musica? Ora che era famoso e stimato, Adrien avrebbe scritto le parole e lei le avrebbe cantate, e se avessero insistito un po’ Étienne sarebbe tornato con loro. Era davvero felice in polizia, a Lione? Nina avrebbe saputo trovare le parole giuste per convincerlo a unirsi a loro. Avrebbero rimesso insieme i Tre. Erano ancora giovani. La vita, quella vera, sarebbe cominciata con un ritardo di sei anni.

Al teatro aveva ritirato il biglietto prenotato il giorno prima per telefono, poi si era avviata nella hall in mezzo a una folla compatta sulle ali dell’orgoglio e della gioia di essere amica dell’autore il cui nome campeggiava sul manifesto.

Temeva anche un po’ quell’incontro, non vedeva Adrien dal giorno in cui la Francia aveva vinto la coppa del mondo di calcio.

Stava calcolando quanto tempo fosse passato, due anni, per l’esattezza ventisei mesi, quando aveva incrociato i suoi occhi.

In ventisei mesi il suo sguardo era cambiato, forse non il modo in cui guardava gli altri, ma quello in cui guardava lei di sicuro. Per prima cosa era arrossito realizzando che si trattava proprio di Nina, della sua Nina. Pochi metri li separavano.

Adrien aveva cercato con gli occhi con chi fosse venuta, sperando di vedere Étienne e temendo di vedere Emmanuel. Alla fine aveva constatato che era sola. Tuttavia non si era mosso, non aveva fatto un passo verso di lei. Era stata Nina ad avvicinarsi a lui sorridendo. Abbracciandolo l’aveva sentito contrarsi.

Troppo emozionato. Pudico. Immensamente timido.

Si erano guardati, avevano scambiato qualche parola.

«Come stai?».

«Bene».

«Hai fifa?».

«Un po’».

Di fronte al suo mutismo, alla sua mimica un po’ forzata genere “non è il momento”, ai suoi vestiti impeccabili, alle sue Tod’s nuove e al taglio di capelli sofisticato Nina aveva tirato fuori qualche banalità che non c’entrava niente in quella non conversazione, così come lei stessa non c’entrava niente in quel luogo che di colpo le appariva immenso e gelido. Aveva balbettato qualcosa tipo «Sono venuta in treno, ti avevo mandato un messaggio, vabbè, io vado a sedermi, a dopo».

Lui si era guardato intorno come se cercasse qualcuno o controllasse che nessuno li osservasse, Nina non avrebbe saputo dirlo.

«A dopo» le aveva risposto con un sorrisino complice.

“Poverino, è terrorizzato, per questo non si comporta come al solito” si era detta prendendo posto sulla poltroncina.

Alla fine dello spettacolo era stata una delle prime ad alzarsi per applaudire. Era felice, le era piaciuto tutto, la recitazione, l’allestimento, le parole, le situazioni. Era pronta a tornare a teatro ogni sera.

Ricordava che Adrien era andato a casa del padre e che lì aveva scoperto la sua “altra famiglia”, due fratelli più grandi di lui e una matrigna piovuta da chissà dove. Dopo quel pranzo le aveva telefonato: «Nina, non puoi immaginare quel che mi è successo». Avevano parlato dieci minuti, poi Emmanuel si era spazientito, aveva cominciato a farle segnali indicando l’orologio: «Ti spiace riattaccare?». Lei aveva chiuso gli occhi per non vedere il marito, si era tappata l’orecchio sinistro con la mano e aveva parlato con Adrien per un’altra ora, poi aveva litigato violentemente con Emmanuel. Quel giorno aveva bevuto più del solito per mettere a tacere il dolore che provava. Con l’alcol si attenuava, dentro di lei scendeva il silenzio, l’alcol trasformava l’inferno in paradiso illusorio.

Dieci minuti di applausi.

Adrien aveva un talento impareggiabile per la narrazione. Il modo in cui aveva raccontato quelle poche ore della sua vita era strabiliante. Gli attori avevano fatto salire regista e autore sul palcoscenico. Applausi e “bravo” erano raddoppiati. A vederlo tra quei “grandi” Nina era stata travolta dall’emozione. Adrien ce l’aveva fatta.

Poi si era chiuso il sipario o era sceso il buio sulla scena, Nina non ricorda più. C’erano state voci e rumori di passi verso l’uscita. Si era ritrovata nell’atrio del teatro in mezzo a sconosciuti. Nessuno con cui parlare. Aveva aspettato Adrien in un angolo facendo finta di sfogliare i dépliant degli altri spettacoli.

Quando la hall si era svuotata non aveva avuto il coraggio di chiedere agli ultimi dipendenti dove fosse Adrien. Era tornata al caffè Le Saint-Jean per aspettarlo. Gli aveva mandato un altro messaggio.

 

Ti aspetto al caffè qui accanto.

 

 

Era suonato il telefono. Finalmente la richiamava, di sicuro le avrebbe detto di raggiungerla nei camerini, le avrebbe presentato gli attori, i costumisti, i tecnici, l’avrebbe invitata a festeggiare il trionfo insieme a loro.

Numero di telefono sconosciuto. Aveva risposto col cuore che le batteva.

«Pronto?».

«Sei tu?».

«Prego?».

«Non riconosco la tua voce».

«Sono Nina».

«Mi scusi, ho sbagliato».

Perché certi sbagli sono più crudeli di altri?

Si era morsa l’interno della guancia per non mettersi a piangere davanti a tutti.

Dopo due ore e quattro bicchieri di bianco era tornata a piedi a Madeleine e aveva ripreso la linea 14 per tornare alla gare de Lyon. Aveva recuperato la valigia della nonna al deposito bagagli. Era mezzanotte passata, il primo treno per Mâcon sarebbe partito alle sei e mezzo.

Aveva camminato nelle vie dietro la stazione e trovato un albergo senza pretese, una semplice cameretta a 394 franchi. Non era riuscita a dormire. Aveva ripensato alla serata col telefono in mano, aspettando una chiamata di Adrien. Quando finalmente aveva suonato erano le quattro. Col cuore che le batteva e il respiro spezzato aveva pensato: “È lui, è tornato a casa dove aveva dimenticato il cellulare, ha visto i miei messaggi, mi ha cercato dopo lo spettacolo, si scuserà, mi dirà di andare da lui, sarà preoccupatissimo”.

«Pronto?».

Era Emmanuel. Euforico.

«Amore mio! Sono in transito, non ho tempo di parlare. Ti amo. Ti penso. Fai la brava».

E aveva riattaccato.

In fondo era sola al mondo. Sola per sola, tanto valeva esserlo a casa sua, tanto valeva scegliere la facilità. Due ore dopo aveva preso il treno per Mâcon. Era arrivata a casa nella tarda mattinata, aveva disfatto la valigia, rimesso a posto le sue cose, preso Bianco di Spagna dallo scaffale per rimetterci dentro la lettera indirizzata a Étienne.

Dopotutto perché no. Aveva posato Bianco di Spagna sul comodino e aperto la busta...

 

«Stai sognando?» chiede Romain.

Persa nei suoi pensieri, Nina sobbalza.

«Vecchi ricordi che tornano a galla».

Romain l’ha trovata in cucina con una valigia aperta sul tavolo e lo sguardo rivolto verso l’esterno, come se osservasse qualcuno entrare in giardino. Le dà un bacio sul collo.

«Hai un buon odore».

«Odoro di cane. E in via accessoria di gatto» scherza lei.

«No, in via accessoria odori di me...». Le annusa il collo. «Sai di caldo, come stessi tutto il giorno al sole... Adoro il tuo odore».

«Cos’è che non va in te?».

«Tutto» risponde lui.

Romain si stiracchia, si fa un caffè.

“Che ci fa questo bell’uomo nella mia cucina?” si chiede lei. “Una cucina malridotta che non è stata ridipinta dal primo mandato di François Mitterrand. Non esiste un tipo così nella vita vera. Non nella mia. È un articolo destinato ad altre donne, quelle belle, pulite e sorridenti. Oppure è un dono caduto dal cielo, come nel filmaccio che abbiamo visto prima. Domani Babbo Natale lo rimetterà nella sua gerla per regalarlo a qualcun’altra l’anno prossimo”.

«Mi sa che non facevo un sonnellino pomeridiano dai tempi dell’asilo...» dice Romain bevendo il caffè.

Si avvicina e la abbraccia. Lei lo lascia fare, sente un esercito di formiche nella pancia, non dice niente, chiude gli occhi.

«Mai nessuno mi aveva fatto un ritratto...» le sussurra lui all’orecchio. «Grazie».

Nello stesso momento in cui Romain le mormora quel “grazie” Nina risente le parole di Simona: «Sai, Nina, si crede. Poi ci si accorge di aver sbagliato».

 

*

 

Ho dato una copia delle chiavi a Elisa, la gentile e graziosa ragazza che si occuperà del gatto. È impazzita vedendo il musetto di Nicola, eppure dovrebbe esserci abituata, al rifugio ne vede di analoghi ogni settimana. Vede anche musi spaccati, gatti vecchi e zoppi, ma la sua reazione mi ha sorpreso. Forse le anime sensibili non si abituano mai a niente.

Da domani dormirà a casa mia finché non sarò tornata. Sa che starò fuori per un periodo indeterminato e che sarò difficilmente raggiungibile. Sa anche che Nina viaggerà con me.

Elisa va ancora a scuola, prenderà quest’anno la licenza media. Frequenta il nuovo istituto Georges-Perec, il cui preside è il tizio che va a letto con Nina. Almeno, credo che ci vada a letto. È quel R. Grimaldi di cui ho visto il nome scritto a penna sulla cassetta delle lettere della casa in cui è entrata la settimana scorsa. Non si va a casa della gente come se niente fosse alle undici di sera. E poi mi sono informata. Il tipo vive solo, si chiama Romain Grimaldi e, a quanto mi ha detto un collega del giornale, sarebbe stato buttato fuori da Marne-la-Coquette per una storia di molestie. Pare che un’alunna l’abbia denunciato, ma siccome nessuno è riuscito a dimostrare niente è stato trasferito e non licenziato. L’hanno ricollocato qui, dai bifolchi, lontano dalla città. Forse hanno pensato che in campagna ci saremmo accontentati, abbiamo pure una scuola nuova di zecca!

Mi domando se Nina non abbia il dono di attrarre gli psicopatici.

Ho chiesto a Elisa che ne pensasse del preside. Mi è sembrata stupita.

«Simpatico» ha risposto.

Nient’altro. Allora ho insistito.

«Simpatico come?».

«Simpatico normale. Credo che a scuola stia simpatico a tutti. E poi è un bell’uomo».

Ho tagliato corto. Sono gelosa. Tutto ciò che riguarda Nina mi rende stupida e cattiva.

Elisa mi ha chiesto che facevo nella vita. Le ho detto delle traduzioni e degli articoli.

«Da che lingua traduce?».

«Dall’inglese».

«Bello... Le sta bene quindici euro al giorno tutto compreso?» mi ha chiesto poi.

«Sì, perfetto».

«A inizio gennaio, quando ricomincia la scuola, mi porterò qui la cena. C’è un microonde in casa?».

«Sì».

«Posso farle un’ultima domanda?».

«Certo».

«È una sua scelta stare da sola il giorno di Natale?».

«Scelta completamente responsabile».

«Okay, sennò poteva venire a cena da noi stasera. Mamma fa la zuppa di cipolle per tutto il vicinato».

«Grazie, ma vado a dormire presto».

Di sicuro, una ragazza che mi invita per Natale senza conoscermi si occuperà bene del gatto.

Chiudendo la valigia penso anche che devo avvertire il giornale. Sarei tenuta ad assicurare la presenza fino al 2 gennaio, data in cui il giornalista che sostituisco tornerà dalle ferie. Racconterò una frottola, dirò che devo farmi operare d’urgenza, causa di forza maggiore.

 

Non l’ho sentita entrare in casa, né ho sentito il motore o la porta che si apriva. Louise mi abbraccia da dietro. Riconoscerei il suo odore tra mille. Sento il suo respiro sul mio collo.

«Buon Natale...».

«Come va?».

«Mio fratello sta per morire».

«Sai che partiamo tutti e tre domani?».

«Sì».

«Vuoi bere qualcosa?».

«Sì».

«Dormi qui?».

«No. Voglio essere a casa domattina, quando Marie-Castille scoprirà che Étienne se n’è andato. Dovrò stare vicina ai miei genitori. Povera mamma...».

«Racconterai la verità?».

«Sì, sono stufa di inanellare bugie. E per Valentin è meglio, sarà tutto più chiaro».

 

*

 

Il padre pedala in fretta. Il bambino è seduto sul portapacchi, aggrappato alla sua maglietta, una t-shirt di cotone bianco con la faccia di Jim Morrison che indosserà per anni. La sua schiena e i suoi capelli al vento sono il primo ricordo che ha del padre, di quell’uomo alto, forte e bello, il suo eroe, quello che lo protegge, che non lo sgrida mai e gli sorride sempre. «Oggi ho cinque anni!» grida Valentin a squarciagola. E il padre pedala, si mette a ridere, inventa dossi che non ci sono e urla: «Buon compleanno, figlio mio!».

Sono in vacanza sull’isola di Porquerolles, su una strada fiancheggiata da pini. Ogni tanto intravedono il mare che gioca a nascondino dietro gli alberi. Arrivano a una spiaggia. L’acqua ha perso l’azzurro, è trasparente, come un’insenatura decolorata. Percorrono un sentiero di sabbia bianca, gettano a terra gli asciugamani e corrono in mare.

Il padre è abbronzato, gli altri uomini lo guardano. Il bambino si rende conto molto presto di quella bellezza speciale, del fatto che papà non sia come i comuni mortali. Tutti non fanno che dirgli quanto somigli al padre: «Due gocce d’acqua».

“Quindi da grande sarò come lui”. Valentin ha costruito se stesso ripetendosi sempre “Da grande sarò come mio padre, farò tutto come lui”.

 

“Ma non esiste fare tutto come lui, perché lui è lui e io sono io. E questa ne è la prova”.

Le sei di sera.

Sono seduti uno di fronte all’altro nella camera che occupa Valentin quand’è dai nonni. Un letto inerpicato su un soppalco.

«Perché non ti fai curare?» domanda l’adolescente fissandosi la punta delle scarpe. «Siamo nel 2017, mica nel Medioevo».

Étienne si chiede che motivo ci sia di venire al mondo per poi ritrovarsi in un momento come quello. È una punizione? Sta vivendo quell’incubo perché ventitré anni prima ha mollato Clotilde? Perché ha nuotato fino a riva dicendole che era pazza?

Nel giorno di Natale gli tocca dire al figlio:

«Devo parlarti, Valentin, sono malato... ma questo lo sai già... E ci sono malattie che non si curano».

«Non è vero» risponde il ragazzo sull’orlo del pianto, stringendo i pugni.

«Sì, figlio, è vero».

Étienne gli prende le mani. Valentin lo lascia fare mordicchiandosi un labbro. Gli piace la pelle del padre. Si chiede se da grande avrà la barba dura e bionda come lui, quella che si lascia crescere nei giorni in cui non lavora.

«Zia dice che non vuoi curarti, non che non puoi».

«Zia sbaglia... E non voglio che tu ti faccia illusioni».

«Ti rivedrò?».

Étienne vorrebbe mentire, rassicurarlo, ma che motivo c’è? Stanno lì proprio per dirsi la verità. Non si fida della verità, certe volte la trova subdola, è piena di percorsi alternativi, vie traverse, sfumature, non è mai così semplice come sembra. Ne sa qualcosa lui, col mestiere che fa. Tuttavia in quel momento ha il dovere di dirla al figlio.

«Oggi mi vedi come sono. Quando la malattia prenderà il sopravvento non voglio che... Voglio andarmene prima. È importantissimo per te, molto più importante per te che per me».

«Vai a suicidarti?».

La domanda è così brutale che Étienne ha un moto di rinculo.

«Non lo so... No. No, non vado a suicidarmi. Zia mi ha dato delle medicine per non farmi sentire dolore».

«Hai paura della morte?».

«No. Ho paura per te, ho paura di lasciarti solo... ma mamma è formidabile, con una madre come la tua non sarai mai solo. Capito, Valentin? Mai».

«Allora perché parti senza dirglielo?».

Étienne non risponde. Abbassa gli occhi, poi li solleva verso il figlio. Si guardano, si capiscono. Si sono sempre capiti.

«Le ho scritto una lettera per spiegarle tutto... Sarà dura per lei, ma alla fine sono sicuro che capirà».

«Vai via da solo?».

«No, viene Nina con me. E anche la persona che hai visto prima davanti al rifugio».

«Perché non parti con me e mamma?».

«Perché è più semplice così. Più semplice per me e per voi».

Scende di nuovo il silenzio. Dal salotto al piano di sotto giungono le voci ovattate della famiglia che sta giocando a carte.

È Valentin il primo a parlare di nuovo.

«Non dirò niente».

«Ti telefonerò spesso. Farò in modo di chiamarti ogni sera, quando sarai da solo in camera tua. Te lo giuro. Te lo giuro, capito? Numeri nascosti, numeri di cellulari che non conosci: rispondi a tutte le chiamate, okay?».

«Dove vai?».

«Non lo so, decideremo strada facendo... Non voglio che tu mi senta addosso l’odore dell’ospedale, delle medicine... Puzzano».

Abbraccia il figlio.

«Voglio che ricordi l’odore di tuo padre, l’odore dell’uomo che ti vuole bene, non quello di un malato».