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26 dicembre 2017

 

Sono stesa sul sedile posteriore, guardo le nuvole attraverso il vetro del tettuccio colpito dalle gocce di pioggia che sembrano rimanere attaccate per qualche secondo prima di essere portate via dal vento.

Étienne è seduto nel posto del morto.

Nina guida piano, cosa che sembra infastidire Étienne, anche se non dice niente. Io e Nina sappiamo che sta mordendo il freno. Lancia sguardi furtivi e disperati al contachilometri che segna centodieci all’ora benché siamo in autostrada.

Partendo da La Comelle abbiamo fatto un accordo: io e Nina ci alterniamo al volante, con una sosta ogni duecento chilometri per bere un caffè e mangiare qualcosa.

«Avevo detto okay al fatto che mi accompagnavate solo se ero io a guidare... Ho il cancro, mica sono impedito».

Nina ha ceduto.

«Va bene, duecento chilometri ognuno. Dividiamo il viaggio per tre».

Ci siamo anche messi d’accordo per la scelta della radio, sarà RTL2, trasmettono un misto di pop e rock che più o meno si accorda con le nostre vibrazioni.

 

Sulla terra ogni notte

Con te

Ovunque al tuo braccio

So tutto della vita

Dio mi ha detto

Vieni, amico, so tutto di te...

 

Sulle ultime note di Karma Girls, una canzone degli Indochine, mi decido a parlare.

«Sono andata a trovare Py».

Nell’abitacolo la frase fa l’effetto di una bomba. Nina frena bruscamente, io perdo l’equilibrio e mi aggrappo al suo poggiatesta, lei torna sulla corsia di destra infilandosi fra due camion.

Étienne, con una faccia che sembra di cartapesta, spegne la radio e mi guarda nello specchietto retrovisore.

«Quando?» chiede Nina senza staccare gli occhi dalla strada.

«Quando sono tornata a vivere a La Comelle».

«Dove?».

«A casa sua».

«Quanti anni ha adesso?».

«Boh, direi un’ottantina...».

«E perché l’hai fatto?» domanda Étienne.

«Avevo bisogno di guardarlo in faccia con occhi da adulta. Ho suonato, mi ha aperto lui, mi ha subito riconosciuta, ma non è stato capace di dire una parola. Ci siamo guardati forse per un paio di minuti in silenzio, poi gli ho messo in mano Bianco di Spagna. Lui l’ha preso, ammutolito. Sono risalita in macchina. Partendo ho sollevato la testa, lui aveva chiuso la porta».

«Che effetto ti ha fatto rivederlo?».

«Ho messo la parola fine a qualcosa. Per sempre. Ho provato sollievo».

«Credi che l’abbia letto?».

«Non lo so, ma oggi non me ne frega più niente».

 

*

 

Ho dieci anni, sono in quinta elementare. Ho appena conosciuto i miei due amici, un maschio e una femmina. Grazie a loro non mi sento più sola. Li amo.

Per gli altri sono un tipo magrolino senza interesse. Nessuno sa che cè una femmina dentro di me.

È un segreto di famiglia che conosco solo io.

Sono come la figlia bastarda, quella che tengono nascosta in cantina, quella che deve passare da porte e corridoi secondari per non incrociare mai lo sguardo di nessuno.

La figlia illegittima ripudiata dalle religioni e dallo stato civile, quella che non sarà battezzata e non riceverà lestrema unzione, quella che non verrà mai nominata.

No, nessuno mi chiamerà con il mio vero nome.

In seguito, quando mi sarò ritrovata, mi chiamerò da sola.

Faccio liste di nomi. Élodie, Anna, Marianne, Lisa, Angèle, Virginie.

Ho dieci anni. Io e i miei amici siamo inseparabili. Certe volte vorrei dire loro chi sono, ho la femmina sulla punta della lingua, ma non oso, mi rimangio le parole non dette.

Ho paura che mi rifiutino, che mi giudichino.

Noi siamo tre o niente. Siamo noi tre o la solitudine.

Se mi cacciassero via tornerei nellesilio e nel silenzio, quello che vivevo prima di trasferirmi qui, quando gli altri mi trovavano strana.

La timidezza è un sacco in cui si ficca di tutto per non farsi domande.

In classe passo ore a osservare la schiena della mia amica, le spalle, i lunghi capelli neri, la nuca quando si fa le trecce o se li solleva con un gesto della mano.

Una mattina si presenta con un fermacapelli nuovo. Quando si siede al banco e si china per prendere qualcosa dalla cartella vedo una farfallina rossa a puntini bianchi sopra il suo orecchio. Quel pezzetto di stoffa fissato ai capelli mi turba talmente che dimentico tutto, anche dove mi trovo. Smetto di ascoltare il maestro. Tra le mie dita la penna è morta. Sono affascinata da quel fermaglio. Ogni tanto la mia amica se lo risistema. Vorrei levarglielo, prenderglielo dalle mani.

Subito prima della ricreazione la farfallina cade sul pavimento della classe senza fare rumore, come se per terra fosse tutto coperto di neve farinosa. Il maestro si china sul mio foglio bianco, mi un pizzicotto sul braccio, «Stai dormendo o che?», e mi fa saltare la ricreazione. Rimango in classe a copiare la lezione scritta sulla lavagna.

Quello che chiamiamomaestroè un mostro con gli occhiali infilato in un grembiule grigio di cotone ruvido, un serpente infido che striscia tra i banchi.

Tutti escono dalla classe tranne io e il piccolo martire del maestro. Io sono in seconda fila, lui in prima.

Il serpente è uscito dallaula con gli altri compagni, che sento ridere e parlare forte allesterno. Immagino i loro giochi e torno al silenzio della classe vuota.

Per qualche secondo osservo il malcapitato chino sul foglio, si passa la lingua sul labbro inferiore, sembra perso, scrivere gli richiede uno sforzo considerevole.

Io guardo la lavagna, leggo una frase e la ricopio senza difficoltà su un foglio doppio a quadretti grandi, ma continuo a fissare la farfallina a terra, quasi ai miei piedi.

Mi giro più volte, non cè nessuno.

Laltro bambino mi ignora. Quando uno viene perseguitato continuamente dimentica gli altri intorno a . So di che parlo. Prima che avessi i miei due amici tutti mi guardavano come un errore dortografia.

Alla fine mi chino e raccolgo il fermacapelli. È un pezzetto di raso incollato a una pinzetta, uno di quei fermaglietti che tengono pochi ciuffi. Lo apro con cautela e me lo metto sopra lorecchio. Voglio sentirlo nei capelli, capire che effetto fa portarlo.

Tocco a lungo il fermaglio come se fosse un animaletto che si è posato su di me. Sono delusa, mi rendo conto che essere una femmina non sta nel fatto di indossare un accessorio, scopro che è una faccenda molto più complessa, probabilmente più profonda. Sono persa nei miei pensieri quando mi imbatto in due occhi che sprizzano odio: il serpente è rientrato zitto zitto in classe. Mi strappo la farfallina, la stoffa si scolla portandosi dietro qualche capello.

Il maestro non dice niente. Io mi vergogno e allo stesso tempo sono fiera. Non abbasso gli occhi, lo fisso. Sono ricoperta di odio, il suo. I suoi occhietti sputano disprezzo nei miei.

In quel momento il maestro cambia capro espiatorio.

Dora in poi sarò io.