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Due mesi senza scoprire dove si è nascosta. Emmanuel ha cercato Nina dappertutto, anche nei fossi, sotto i letti e dentro gli armadi di casa.

Ci è diventato pazzo.

Ha percorso tutte le strade di campagna dei dintorni, notte e giorno, ha bussato alle porte a casaccio mostrando la sua foto, ma nessuno l’ha vista. Ha pagato il Journal de Saône-et-Loire perché pubblicasse la sua fotografia con la scritta SCOMPARSA.

Il che non è vero. Nina ha scritto a Adrien, Étienne ed Emmanuel proprio perché fosse chiaro che la sua partenza era una scelta.

I detective assunti da Emmanuel sono ormai sicuri che non abbia trovato rifugio presso nessuno dei due amici.

Da Adrien Bobin con c’è traccia di Nina, né nel suo appartamento né nel giro delle sue conoscenze. Stessa cosa a Lione. Étienne Beaulieu vive da solo e vede poca gente al di fuori delle ore di lavoro, tutt’al più qualche collega o incontri di una sera.

Chi rimane? Da chi può essere andata?

Come ultima risorsa Emmanuel pensa alla madre di Nina. Non sa molto di lei, solo che si chiama Marion Beau ed è nata il 3 luglio 1958 a La Comelle. «Sì, col codice fiscale dovrei riuscire a trovarla» gli ha detto uno dei detective qualche settimana fa.

Gli batte il cuore mentre legge l’indirizzo che ha appena ricevuto via SMS.

Trovato lindirizzo di Marion Beau: 3, but au Vilain, 14640 Auberville.

 

Emmanuel controlla subito su una carta stradale. La madre di Nina vive in Normandia, il paese è vicino a Deauville, località balneare che conosce bene per esserci andato in vacanza più volte.

Segue un secondo SMS del detective.

 

Devo andarci?

 

No.

 

Emmanuel lascia l’ufficio avvertendo i collaboratori che sta partendo.

«Ma... c’è la teleconferenza, gli appuntamenti di...».

«Arrangiatevi» taglia corto lui.

Mai aveva mancato loro di rispetto. Da quando Nina se n’è andata si è trasformato, non si riconosce più, ha sempre lo sguardo perso nel vuoto. Alle sue spalle si mormora che «finirà male».

Divora cinquecento chilometri senza pensarci, con l’acceleratore a tavoletta. Si ferma due volte per fare il pieno, bere un caffè e mangiare una barretta di cioccolato.

All’indirizzo indicato trova una ventina di casette prefabbricate a schiera. È quasi mezzanotte, la strada è deserta. Pochi lampioni gettano una luce smorta sull’asfalto bagnato e sugli alloggi popolari. Una pioggerella gelida gli colpisce il parabrezza. “Qui deve fare freddo anche d’estate” pensa.

Al numero 3, dietro una tenda in poliestere, l’ambiente è illuminato dalla luce di un grande televisore. A quanto pare Marion non sta dormendo. A meno che non sia Nina. Verrà lei ad aprirgli la porta? Se viene lei la picchia, se lo sente nei pugni, non le permetterà di parlare né di scusarsi, la trascinerà per i capelli. Nina potrà urlare e divincolarsi, quando Emmanuel l’avrà trovata non la lascerà più.

Esce dalla macchina barcollando. Si regge male sulle gambe, probabilmente la stanchezza delle ultime settimane. Continua a prendere gli antidepressivi, senza i quali si sarebbe già sparato un colpo di pistola. Ma se deve andarsene al creatore non lo farà da solo, porterà Nina con sé, è la sua ossessione.

Apre un cancellino usurato dal tempo con una serratura che ha l’aria di non aver mai chiuso niente in vita sua. Suona alla porta. Aspetta un minuto. Gli apre una donna dagli occhi cisposi, probabilmente stava dormendo.

«Lei è Marion?».

Marion non risponde, si domanda cosa ci faccia a mezzanotte quel bel giovane elegante con le scarpe nuove sul suo zerbino logoro. Dà un’occhiata alla macchina sportiva parcheggiata sotto un lampione alle sue spalle. È una candid camera? Certe volte capita che Patrick Sabatier e la sua squadra si presentino a casa di gente come lei per fare regali a sorpresa. Come si chiamava quel programma? Ma alla televisione non lo fanno più.

«C’è Nina?» finisce per chiedere il bel giovanotto.

La domanda la coglie talmente di sorpresa che riesce appena a dire:

«Che Nina?».

«Sua figlia».

Nessuno le ha mai parlato di lei chiamandola “sua figlia”.

Quando l’ha mollata al vecchio la piccola era appena nata. Quando pensa a lei la chiama sempre “la piccola”, come per tenerla a distanza. Non dice mai “mia figlia”, perché niente è suo, niente le appartiene.

Da un pezzo le hanno tolto tutto.

Quando le chiedono se ha figli Marion risponde di no, così smettono di farle domande. Comunque nessuno si interessa a lei, nessuno le chiede mai niente.

«Posso entrare?».

Marion ci pensa un attimo, poi si ricorda che la casa è pulita, quel pomeriggio ha fatto le faccende, spolverato e passato lo straccio, allora gli fa un cenno con la testa: «Prego».

C’è puzzo di sigaretta spenta.

La televisione occupa tutta la stanza principale. Divano grigio in similpelle proprio di fronte, tavolino basso e, sul fondo, una cucina in cui troneggia un microonde.

«Sono il marito di sua figlia» dice Emmanuel in tono abbattuto sedendosi sul divano.

Chiude gli occhi. Gli è bastato uno sguardo per capire che Nina non ha mai messo piede in quel luogo. Si sente stanco. Vorrebbe non muoversi più. Si è appena fatto più di cinquecento chilometri inutilmente, solo per ritrovarsi di fronte a quella donna di cui Nina gli aveva detto che era magra e volgare. Non è più magra, è gonfia, grassa, con le pantofole sformate e l’aria scoraggiata.

«Ah, non sapevo che si fosse sposata» fa Marion infilandosi un gilet. «Vuole bere qualcosa?».

«Se mi fa compagnia».

Marion sorride. Apre un armadietto della cucina in cui ci sono bottiglie cominciate di sciroppi, pastis, porto e amaro.

«Sennò ho del moscato in frigo».

«Vada per il moscato».

Versa un po’ di liquido ambrato nel bicchiere di Emmanuel e un po’ per sé.

«Da dove viene?».

«Da La Comelle».

«Uh, mi fa strano sentir parlare di laggiù».

«Vive sola?».

«Sì... E perché la sta cercando?».

Non riesce a dire né “Nina” né “mia figlia”.

«Perché è sparita».

«Sparita come?».

«Se n’è andata dall’oggi al domani».

«Perché?».

«È quello che vorrei capire».

Emmanuel trangugia il suo moscato d’un fiato.

«Posso averne ancora un po’?».

Marion gli riempie il bicchiere quasi fino all’orlo e già che c’è ne versa un po’ nel suo. Benché lei non gliel’abbia proposto, Emmanuel ha deciso di dormire sul divano. Non ha il coraggio né la forza di trovare un albergo nei paraggi a quell’ora. Marion, seduta di fronte a lui su una sedia, lo osserva sorseggiando il vino dolce. Ha quasi finito di bere il secondo bicchiere. Quell’uomo ha subito trovato il suo punto debole.

«Che posso dirle, buon sangue non mente... Anch’io me ne sono andata».

«Nina le ha dato sue notizie ultimamente?».

«No» risponde lei come se le dispiacesse.

Sembra sincera.

«Secondo lei dov’è?» chiede Emmanuel con la forza della disperazione.

Marion lo guarda come se fosse uscito di senno o avesse sbagliato persona. Non sa che l’ha abbandonata quando non aveva neanche due mesi?

Anzi, non l’ha abbandonata, l’ha affidata al vecchio. E quando aveva pensato di riprendersela era troppo tardi, il tempo era passato, la figlia camminava e parlava già come una bambola rotta cresciuta troppo in fretta.

Era tornata a trovarla due volte, aveva abbracciato la piccola sconosciuta, ma non aveva provato niente. La bambina apparteneva al vecchio, Marion si era resa conto che affidandola a lui l’aveva persa.

E comunque che ne avrebbe fatto? La piccola stava meglio dove stava.

Il giovanotto seduto di fronte a lei, che si sta versando il terzo bicchiere, sa che lei non l’ha mai vista adulta?

L’ultima volta è stata in occasione del funerale del vecchio. Marion sente l’alcol riscaldarle il sangue. Le fa sempre quell’effetto, le viene voglia di parlare, di vuotare il sacco.

«Prima ero una ragazza come si deve, carina e allegra. Ridevo sempre e andavo bene a scuola... Non bisogna credere alle apparenze. Sapevo parlare bene, prendevo bei voti. Poi mia madre si è ammalata. Per mesi l’ho implorata di farsi curare, ma mio padre non ha mai voluto... Lei diceva: “Ma no, non ti preoccupare, mi passerà”. Lui non voleva che varcasse la porta, che se ne andasse, che finisse all’ospedale, voleva tenersela per sé e voleva che lei si curasse nel suo letto, a casa. Faceva venire il medico di famiglia, che non ci capiva niente e le dava le medicine sbagliate. Io li supplicavo, dicevo a mio padre: “Porta mamma all’ospedale, dove sanno come curarla”. Lui cocciuto come un mulo. Se si potesse tornare indietro, ce la porterei io... La cosa è andata avanti un anno. Quando il vecchio si è deciso era troppo tardi, è morta appena arrivata in ospedale, non ha avuto neanche il tempo di disfare la valigia... Quando ho perso mia madre la mia testa ha fatto il botto. La sua scomparsa mi ha... ucciso. Mi sono messa a fare la vitaccia, a uscire senza permesso, sono diventata ingestibile, come diceva lui. Lo dicevano anche i vicini: “La Marion è ingestibile”. Tutti lo compiangevano, “Poverino” dicevano. Povero stronzo, altroché».

«Chi è il padre di Nina?».

Marion si accende una sigaretta. Tabacco nero che appesta l’aria.

«Sto cercando di smettere, ma non ci riesco... Vuole un altro bicchiere?».

«Volentieri».

«Il padre... se n’è andato lontano. L’ho avuta da sola. Gliel’ho detto, facevo la vita... quella sbagliata, non la bella vita».

«Perché non ha tenuto Nina con sé?».

«Non potevo, non ne ero capace. Posso chiederle una cosa?».

«Sì».

«Ha il numero di telefono di... Nina?».

«Sì».

«Può darmelo?».

«Non ci fa niente, ha il cellulare perennemente spento».

«È per avere qualcosa di suo, anche se è solo un numero».

Emmanuel si stende.

«Posso dormire un po’?».

«Prego».

Lei spegne la sigaretta e osserva l’uomo steso sul divano comprato da Conforama in dieci rate senza interessi quando ha lasciato Arthus. Alla fine l’Arrangino aveva la mano troppo pesante. A forza di prendersi schiaffi Marion a un certo punto è scappata.

Come Nina. Ma Nina perché se n’è andata? Il marito sembra un tipo gentile, dopotutto.

Esistono i mariti gentili?

“Ora sto tranquilla” pensa Marion. “Do da mangiare ai gatti randagi del quartiere, d’estate innaffio i gerani, lavoro part-time in una mensa e prendo qualcosa di sussidio sociale, non è una gran vita, ma è pur sempre vita. E nessuno mi rompe più i coglioni. Uomini non ne voglio più, né nel letto né in cucina. Ho già dato... Ma lei perché se n’è andata?”.

 

*

 

Cinque del mattino. Nina viene svegliata da un cane.

Nel corso delle settimane ha imparato a riconoscerli. Quello che abbaia è Paprika, un vecchio spaniel incrociato con un cocker. Ha la voce spezzata di chi ha latrato troppo. Dà un’occhiata alla radiosveglia. Perché abbaia così presto? Ha sentito qualcosa o qualcuno? In genere i cani cominciano ad agitarsi più tardi, quando arriva Lili con gli altri impiegati e i volontari.

La macchina della paura si mette in moto: è lui e i cani l’hanno sentito.

È più forte di lei: mani, muscoli, stomaco, tutto si contrae, si chiude, si stringe. Paralizzata dal terrore, rimane a lungo sdraiata con gli occhi spalancati a guardare il soffitto con i sensi all’erta, cercando di cogliere il minimo rumore inconsueto. Le sembra perfino di sentire qualcuno che sta manomettendo il saliscendi dell’ingresso.

Si alza con sforzo alle cinque e trentacinque, non accende la luce, fa tutto al buio, si è abituata a lasciare spenta la plafoniera, a vivere nell’oscurità.

Si trascina fino alla finestrella del bagno, sale sulla tazza del gabinetto, scosta la tendina. Non c’è anima viva. Le gambe le tremano talmente che per poco non cade. Mette a scaldare l’acqua, una tisana la calmerà.

Alza un po’ il termostato del riscaldamento, si copre le spalle. Sale di nuovo sul gabinetto, osserva a lungo, i suoi occhi scrutano la notte, i canili sono immersi nel buio. Paprika deve aver fiutato un altro animale, una volpe o un topo.

Lili aveva ragione. Da principio si stringe il cuore a vedere quelle povere bestie nei canili, poi ci si abitua. La prima volta ti guardano come se rappresentassi un’occasione di fuga, oppure sono talmente abbacchiati da stare tutto il giorno nascosti dietro una paretina che li protegge dal freddo e dagli sguardi, poi ti vedono come quello o quella che li porta fuori e dà loro da mangiare.

Gli animali affluiscono dai posti più disparati, ma soprattutto da strade, boschi e cassonetti. La settimana scorsa ne hanno ritirati cinque da un allevamento non affidabile.

Da due mesi Nina dorme accanto a loro.

L’unica differenza tra lei e gli animali è che lei non aspetta nessuno che venga a prendersela. Desidera solo la tranquillità e appena sente il motore di una macchina invece di essere contenta si nasconde, sparisce all’interno del proprio corpo. Sa che Emmanuel la sta cercando dappertutto, lo sente, si sveglia ogni notte in un bagno di sudore perché ha il suo odore nel naso, come se lui fosse nella stessa stanza, chino sul suo letto.

Lili le ha mostrato l’avviso di ricerca che Emmanuel ha fatto pubblicare sul giornale locale e lei ha guardato spaventata quella vecchia fotografia di se stessa. Il marito deve aver rovistato fra le sue cose alla ricerca di una traccia, come si fa per catturare un animale nel corso di una battuta di caccia. È talmente fuori di testa che con tutta probabilità ha annusato la sua biancheria.

È capace di tutto.

Nina lo sapeva da un pezzo, ma allontanarsi l’ha resa ancora più consapevole, le ha fatto capire a fondo la perversione del marito.

Certe volte se ne sente responsabile. «Era carino quando l’ho conosciuto, è diventato così per colpa mia». Quando tira fuori frasi di quel genere Lili le risponde con aria ironica: «Ti darei due schiaffi, tanto per rimetterti a posto le idee».

L’unica cosa che Nina rimpiange è di non essere mai ripassata da casa a recuperare qualche effetto personale, la maglietta e il golf preferiti, i libri e la scatola delle fotografie. Ce n’era una del matrimonio dei nonni e tante di Étienne, Adrien, Louise, Joséphine e Marie-Laure.

Il giorno della fuga le cose sono andate talmente in fretta che non ha avuto il tempo di voltarsi indietro, ha fatto tabula rasa della propria vita lasciandosi tutto alle spalle, come quando uno muore in un incidente stradale e sul tavolo di casa sua vengono ritrovate le briciole della colazione, la tazza di caffè ormai freddo e la gruccia vuota un po’ di traverso da cui prima di uscire ha staccato il cappotto.

Doveva andare così, senza starci a ragionare.

Dopo essersi conosciute, uscendo dalla caffetteria del centro commerciale Lili e Nina erano andate al parcheggio dove avevano lasciato le rispettive macchine e si erano guardate.

«È sicura di voler tornare da suo marito?» le aveva chiesto Lili.

«Non ho scelta».

«Non ha una famiglia?».

«Nessuno».

«Amici?».

«Potrei andare dai genitori di Étienne... insomma, dai genitori di un amico... ma mio marito li conosce, mi ritroverebbe in cinque minuti».

Lili aveva caricato nel bagagliaio le scatolette di cibo per animali, poi aveva sollevato la testa.

«Io recupero cani e gatti. Mi è anche capitato di salvare porcellini d’India e galline... ma mai una giovane donna».

Nina aveva sorriso per la prima volta da quando Lili l’aveva fermata nel reparto frutta e verdura.

Mezz’ora dopo la Polo era nascosta in un garage di cui solo Lili aveva la chiave e Nina nella sua camera degli ospiti. Poi più nulla, un silenzio abissale.

«E ora che faccio?».

«Aspetti» aveva risposto Lili. «Aspetti tutto il tempo che ci vorrà».

Era come stare in prigione, chiusa tra quattro mura, con la differenza che in prigione si possono ricevere visite, si ha diritto a un incontro in parlatorio una volta alla settimana.

Per evitare che la polizia la cercasse Lili le aveva consigliato di scrivere una lettera d’addio al marito. Nina l’aveva scritta in tre copie, una per Emmanuel, le altre due per Étienne e Adrien.

Quando aveva dato le tre buste a Lili perché le imbucasse aveva avuto la sensazione di gettare il proprio passato nella spazzatura. Rimaneva solo il vuoto del presente. Tutto da costruire.

Quindici giorni dopo essere arrivata Lili aveva dato una bella ripulita e l’aveva invitata a trasferirsi in un piccolo monolocale situato all’interno del rifugio, proprio in fondo, al riparo dagli sguardi, anche da quelli degli altri collaboratori.

«Così avrai la tua privacy. E la sera dovrai solo attraversare la strada per venire a cena da me».

Nina abita in una stanza spartana di venti metri quadrati con due finestre sul retro del rifugio che affacciano sulla campagna circostante. Solo la finestrina del bagno dà sui canili. In quello stesso locale ha vissuto a lungo Annie-Claude Miniau, la fondatrice del luogo.

«Qui ti sentirai a casa tua. C’è la televisione, molti libri e il frigo pieno».

«Io non ho niente, Lili, neanche un centesimo per risarcirti».

Nina si era tolta la fede, l’anello con lo zaffiro e quello di diamanti.

«Vendendo questi potrei reggere per un po’».

«Metti via quei gioielli, ci penseremo poi» le aveva risposto Lili.

Ma poi quando? Quanto tempo dovrà rimanere nascosta? Aveva chiuso gli anelli in un cassetto.

Quando esce a sgranchirsi le gambe si mette i jeans e un giubbotto col cappuccio. Ha già perso dieci chili. Non ha più bisogno di bere per reggere la situazione né di prendere quegli ormoni che la stavano distruggendo, prende solo qualcosa per dormire, sennò ha gli incubi. Lili le ha comprato qualche vestito e il necessario per il bagno. Fa lei la spesa, da due mesi Nina non si è più allontanata dal rifugio.

«È come se tu stessi nascondendo una clandestina o una criminale di guerra».

«Al mondo sono due i posti giusti in cui nascondersi: i cimiteri e i rifugi per animali abbandonati. Nessuno viene da queste parti. La gente ha paura di prendersi malattie o di essere morsa».

Il rifugio sorge tra due edifici dismessi, lontano dal centro di La Comelle. Lili è l’unica che rimane tutto il giorno. La mattina, dalle nove all’una, ci lavora una decina di persone e rari sono i visitatori che si presentano senza aver telefonato prima. Quanto a quelli che vengono a mollare il cane o la nidiata di gattini, si muovono a testa bassa e filano via come ladri, quindi non c’è rischio che vadano a raccontare di aver visto una figura incappucciata aggirarsi tra i canili... Che ne sanno delle persone che si muovono in quel luogo?

Deve solo stare attenta a non farsi vedere mai dai due agenti della municipale che vengono a lasciare nella zona di transito gli animali raccolti per strada.

Dopo l’una, quando tutti se ne sono andati, quando sente l’ultima macchina uscire dal parcheggio, Nina esce, fa il giro dei box, accarezza gli animali, ci parla. Adesso che la conoscono, gli animali le fanno le feste, non hanno più paura, è una di loro, non fanno differenza fra lei e loro.

In quel dicembre 2000 ci sono trentadue cani e quarantanove gatti. Dopo averli salutati tutti va in ufficio a mangiare un panino con Lili. All’ora di pranzo i cancelli sono chiusi. Stanno in santa pace, parlano del più e del meno come due vecchie amiche, si scambiano notizie dei rispettivi mondi.

«Perché fai questo per me, Lili?».

«Perché no?».