27 dicembre 2017
Conosco interi brani di Bianco di Spagna a memoria» dice Nina.
Stesi tutti e tre sul letto grande, abbiamo appena guardato due episodi di Breaking Bad. A me è piaciuto un sacco, Nina è meno entusiasta.
Ora sono nel letto singolo. In fondo, fin dalla più tenera età avrei dovuto dormire in un letto a due piazze.
È il momento scelto da Nina per annunciare che conosce il mio romanzo a memoria. Comincia a recitarne un brano. Nella penombra la sua voce mi perfora.
Lei. Quando le chiedo: «Come ti piacerebbe chiamarti nel mio romanzo?» mi risponde: «Angélique». Lui scoppia a ridere: «Che banalità!». Quando chiedo a lui: «Come ti piacerebbe chiamarti?» risponde: «Kurt. Come Kurt Cobain». Lei non fa commenti, si accontenta di sorridere. Angélique vive così, accontentandosi. E io mi nutro del suo perenne essere soddisfatta.
Nina si ferma, come se avesse il libro sotto gli occhi, voltasse qualche pagina e ricominciasse a leggere.
Adoro guardarli ballare, camminare, muoversi. Ci sono persone che uno passerebbe la vita a osservare. Non è voluto, loro non fanno niente apposta, è per questo che sono diversi dagli altri. Ancora oggi non capisco perché si siano degnati di guardarmi. A scuola, quando c’è l’appello per formare le classi, ci accorgiamo che i nostri cognomi cominciano con la stessa lettera, sono accostati. Grazie a quel caso dell’alfabeto, o per colpa dello stesso, Angélique ci prende per mano, uno per lato, come tre pezzi di un puzzle che combacino, che rientrino nell’ordine naturale delle cose. Ci incolliamo a lei. Ha un buon odore, un odore che conosco a memoria, un misto di sapone alla mandorla e di detergente per lavare i neonati. Resta attaccato ai vestiti che le rubo e che le restituisco dopo un po’: «Tieni, te l’eri scordato a casa mia». A undici anni si cosparge di vaniglia, me la mangerei. Le sue forme cambiano, si fanno gradualmente più arrotondate. Vorrei essere lei. Ogni volta che mi fa un ritratto spero di scoprirci la ragazza che sono, spero che mi veda, che le matite le indichino la strada per arrivare a me. Quando gioco con Angélique sono la sorella, anche se lei non lo sa. Tuttavia non mi travesto mai, non sono un maschio effeminato, sono una femmina mancata, sbagliata, riuscita male.
Nina si ferma di nuovo. Non riesco a dire una parola. Ho scritto Bianco di Spagna tanto tempo fa e non l’ho mai riletto. Risentirlo dalle sue labbra mi sconvolge. Étienne non apre bocca. Lo sento respirare. Teme forse di sentire un brano che lo metterebbe a disagio o in una situazione difficile?
Kurt è magnifico. Ha una disinvoltura naturale e uno sguardo particolare, errante, che è il segno della sua libertà, l’etichetta. Non elemosina mai la vita, è a suo agio dappertutto...
«È rimasto un po’ di vino?» chiede Étienne.
Mi alzo, svuoto il fondo della bottiglia in un bicchiere e glielo do.
«Grazie».
Mentre passo Nina mi afferra la mano.
«Quando ho letto Bianco di Spagna mi sono sentita tristissima per non essere stata capace di vederti, poi ho capito che in fondo hai un’anima sola. Che sia quella di Adrien o di Virginie, sei la stessa persona, la tua anima non ha genere. Non ci si avvicina alle persone perché sono maschi o femmine, ma per quello che emanano».
Le do un bacio sulla mano e torno nel lettino senza dire una parola. Non ho niente da aggiungere.
*
Devono essere le tre e non riesco a dormire, mi proietto ricordi a ciclo continuo, è più forte di me. Ascolto gli altri due respirare. Non dormo con loro dall’addio al nubilato di Nina. Quella notte abbiamo detto addio anche alla nostra infanzia. Benché Nina non stia più recitando brani del mio romanzo ho la sensazione di sentirla ancora, come un eco immaginario.
Credevo che stessero dormendo, invece Étienne si alza e dice: «Mi manca già mio figlio». Non lo vedo in faccia, ne intuisco soltanto la gigantesca corporatura che attraversa la stanza.
«Vuoi tornare indietro?» sussurro per non svegliare Nina.
«Dove?».
«A Lione. Vuoi che facciamo dietrofront?».
«Non c’è ritorno possibile».
«Secondo Louise sì».
«Non ti ci mettere anche tu».
«...».
Lo sento aprire la finestra del bagno e accendersi una sigaretta.
«E poi, pensa se scoprono che le ossa trovate nel lago sono di Clotilde...» continua sottovoce. «T’immagini le rogne a cui andrei incontro? Non voglio più sentir parlare di quella storia... Non sai il sollievo quando ho saputo che avevano ripescato la macchina».
«Pensavo che la cosa ti avesse angosciato».
Ci mette un po’ a rispondermi.
«Al contrario. È la prova che non ho sognato, che non sono pazzo, che ho proprio visto quella cazzo di macchina colare a picco. Troppe volte mi sono chiesto se fosse successo davvero».
«Credi che Clotilde sia là dentro da tutti questi anni?».
«Era capace di tutto... Comunque non lo saprò mai».
«Perché no? L’analisi del DNA lo dirà».
«Sarò morto prima».
«...».
«Ti prenderai cura di Louise?».
«Sì».
«Me lo giuri?».
«Te lo giuro».
«Ce l’hai sempre con me?».
«A morte... Ti odio per esserti servito di me, per avermi ricattata...».
«Lo capisco. Sono stato uno stronzo».
«Anch’io... Con Nina».
«Perché hai mollato tutto? Parigi, il teatro, quella vita lì... Le cose ti stavano andando alla grande».
«Era un inferno. Tornare a La Comelle mi ha salvata».
Chiude la finestra e viene a sedersi sul mio letto.
«Perché non ti sei mai fatto tagliare l’uccello?».
«E la miseria, Étienne, che delicatezza! Autentica classe...».
«Shhh, parla piano, svegli Nina».
«...».
«Okay, scusa... Sai bene che queste cose mi mettono a disagio. Non sono bravo con le faccende di... di...».
«Di froci? È questa la parola che cerchi? Non sono omosessuale, Étienne, sono una donna».
«Sei una donna che ama mia sorella. Quindi sei omosessuale».
«Non mi va di parlare di quest’argomento con te».
«Perché? Sto morendo, tanto vale dirmi tutto... Hai paura, vero?».
«Esatto, ho paura».
«Di che hai paura?».
«Della felicità, della liberazione, di diventare quello che sono. Non so cosa sono».