27 dicembre 2017
Romain chiude il libro. Non riesce a concentrarsi. Pensa a lei.
Più esattamente pensa a loro.
Nella sua mente, bene e male si confondono.
Ieri sera, al telefono, Nina era stata quasi fredda. Perché certe persone appena conosciute ci fanno credere di averle immediatamente capite?
Gli aveva detto di essere in una pensione in Italia con i suoi due amici, tutti e tre nella stessa camera come quando erano piccoli, e che lei dormiva con Étienne.
La sua voce era coperta dal suono di un televisore. Aveva dovuto farle ripetere alcune frasi più volte, forse era stato quello a innervosirla, un po’ come i suoi alunni si infastidiscono se un vecchio professore è duro d’orecchio.
Egoisticamente Romain spera che Nina torni presto, che quel viaggio non si riveli eterno.
Poco prima di riattaccare gli aveva detto: «A proposito, non mi hai mai spiegato perché sei stato trasferito da Marnes-la-Coquette a La Comelle». Ancora una volta lui non aveva capito o non aveva voluto capire. L’aveva fatta ripetere. Nina aveva parlato più forte: «Perché sei stato trasferito a La Comelle? Perché sei andato via da Marnes?».
Stavolta aveva capito bene. Era una domanda o un’insinuazione? Quelle parole l’avevano talmente sorpreso che non aveva saputo cosa rispondere. C’era stata una lunga pausa, era stato tentato di riattaccarle il telefono in faccia. Si era sentito sporco. Non c’è niente di peggio di essere condannati prima di essere stati giudicati, di sentire che gli altri non ti guarderanno più come prima, una paranoia che Romain si porta dietro come un mostro e che gli si appiccica alla pelle.
Dopo un po’ aveva risposto: «Non ti ho detto niente perché non ho nessuna voglia di parlarne». Aveva ostentato anche lui distacco. Dopo qualche frase banale sul tempo che faceva in Italia e la macchina che consumava poco, Nina aveva riattaccato. Romain se n’era subito pentito. Avrebbe dovuto tranquillizzarla, non rispondere a una sciocchezza con un’altra sciocchezza. Era la prima volta che Nina si mostrava stupida. Possibile che fosse come tutti gli altri?
No, Nina non era come gli altri.
L’aveva richiamata subito.
Lei non si era mossa, era rimasta lì a fissarsi le scarpe da ginnastica slacciate sul brutto tappeto dai colori slavati chiedendosi come avesse potuto essere così cogliona. Quando il telefono aveva squillato aveva saputo che era lui. Saputo o sperato. In ogni caso aveva risposto subito.
Romain non dimenticherà mai la sua partenza da Marnes, ma ci pensa meno. Ieri la domanda di Nina l’ha rituffato in ciò che ha vissuto come una sciagura. Ancora oggi non capisce come abbia fatto a risollevarsi.
Si chiamava Rebecca, come il personaggio di Daphne du Maurier. Una premonizione?
Rebecca Lalo, soprannominata Becca dagli amici.
Romain la conosceva come conosceva tutti gli alunni della scuola di cui era preside. Ai consigli di classe trimestrali parlava con i professori del futuro dei ragazzi, dei loro risultati e delle scelte da fare. Quando un alunno entrava in prima media ci metteva un po’ a identificarlo. A fine anno li conosceva tutti e dalla seconda in poi li chiamava per nome. Romain non era severo, ma doveva farsi rispettare. Era giovane, e proprio per questo non doveva far pensare ai ragazzi che fosse un loro amico. Nel corso della sua vita professionale gli era capitato di prendersela con un alunno, di farsi travolgere dalla collera a causa di un comportamento che giudicava sbagliato. Tutti sapevano che poteva arrabbiarsi, alzare la voce e colpire il tavolo col pugno per farsi sentire.
Rebecca Lalo era in terza. Durante il terzo trimestre del 2014, per la precisione l’8 aprile, aveva fatto irruzione nel suo ufficio. Rari erano gli alunni che si recavano da lui spontaneamente, in genere ci andavano solo se venivano convocati, con i genitori o un professore. Per le questioni ordinarie si rivolgevano ai consulenti scolastici, mai al preside. Appena entrata Rebecca aveva detto:
«Il weekend scorso lei è stato a letto con mia madre, la bella bionda che ha rimorchiato al Dickens. Vi ho visto. Mamma ha passato la notte a casa sua».
Era la prima volta che Romain restava a bocca aperta di fronte a un’alunna, incapace di risponderle qualcosa.
«Se non mi dà mille euro lo dico a tutti».
L’ultima frase l’aveva lasciato ancora più sbigottito. Poi era scoppiato in una risata sarcastica.
«Ditemi che sto sognando!».
«Altro che sogno, è in pieno incubo. Mia madre è sposata. Oltre a perdere la reputazione, se lo dico a mio padre lei è un uomo morto».
Romain non si era mai lasciato incastrare o intimidire. Quelle parole gli avevano ridato energia.
«Se non le dispiace, signorina Lalo, nella mia vita privata faccio quello che voglio. Dimenticherò questa conversazione, dimenticherò che ha appena cercato di ricattarmi. Ora esca dal mio ufficio. Non ci siamo mai visti, non ci siamo parlati, non è successo niente, chiaro? Le conviene ubbidirmi».
«Sarebbe a dire?» aveva chiesto lei, sfrontata, senza neppure provare a dissimulare il sorriso provocatorio che aveva sulle labbra.
«Sarò più chiaro. Quel che è successo in questa stanza non è mai accaduto. Per il suo bene, altrimenti...».
«Altrimenti?».
«Farò i passi necessari affinché tenga la bocca chiusa una volta per tutte».
Rebecca si era messa a piagnucolare, lacrime di coccodrillo che avevano avuto il potere di esasperare Romain Grimaldi. In tutta la sua carriera era la prima volta che aveva voglia di prendere a schiaffi un’alunna.
«E se parlo?» aveva chiesto lei tirando su col naso. «Che succederà?».
«Sarà la sua parola contro la mia... La farò cacciare da quest’istituto per insubordinazione e ricatto».
Lei aveva pianto ancora di più.
«No, signor preside, la prego» aveva pigolato.
«Smetta di fare la commedia, signorina Lalo, o mi arrabbio sul serio... Ha superato il limite. La prego di andarsene immediatamente».
Lei l’aveva fissato con aria implorante.
«Se non dico niente mi lascerà in pace? Potrò finire l’anno?».
«Sì... certo».
«Me lo promette?».
«Ma sì. Ora sparisca».
«Non dirà mai quello che è successo?».
«Fuori di qui!».
Allora lei si era lanciata su di lui e l’aveva baciato sulla bocca. Romain l’aveva afferrata per le spalle e respinta, Rebecca si era lasciata cadere e aveva sbattuto la testa sulla scrivania. Si era rialzata subito con moccio e sangue mischiati che le uscivano dal naso.
«Oddio...» aveva mormorato lui.
«Arrivederci, signor preside. Non dirò niente».
Romain aveva fatto per seguirla e portarla in infermeria, poi ci aveva ripensato e si era rimesso seduto, frastornato.
Il vicepreside, nel panico, era entrato e gli aveva chiesto cosa fosse successo: aveva appena visto un’alunna uscire dal suo ufficio piangendo e perdendo sangue. «Preferisco non parlarne» aveva risposto seccamente Romain. L’altro non aveva insistito, ma gli aveva rivolto uno sguardo insospettito. Il primo di una lunga serie.
La madre di Rebecca Lalo... Romain si ricordava perfettamente di lei. Si chiamava Sylvie. «Ma tutti mi chiamano Syl». Ricordava l’incontro al Dickens e la notte che c’era stata dopo la serata in cui avevano bevuto molto. Come poteva sapere che fosse la madre di un’alunna? Aveva ritrovato il suo numero sul cellulare. Nome: Syl. Cognome: birra.
L’aveva chiamata e le aveva raccontato tutto. Terrorizzata, Sylvie Lalo gli aveva fatto promettere di non dire mai che avevano passato la notte insieme. Romain aveva promesso.
Il giorno dopo era stato convocato dalla polizia. La discesa all’inferno era cominciata.
REGISTRAZIONE FORNITA ALLE AUTORITÀ
VOCE REBECCA LALO: Oltre a perdere la reputazione, se lo dico a mio padre lei è un uomo morto.
VOCE ROMAIN GRIMALDI: Se non le dispiace, signorina Lalo, nella mia vita privata faccio quello che voglio. Dimenticherò questa conversazione, dimenticherò che ha appena cercato di ricattarmi. Ora esca dal mio ufficio. Non ci siamo mai visti, non ci siamo parlati, non è successo niente, chiaro? Le conviene ubbidirmi.
VOCE REBECCA LALO: Sarebbe a dire?
VOCE ROMAIN GRIMALDI: Sarò più chiaro. Quel che è successo in questa stanza non è mai accaduto. Per il suo bene, altrimenti...
VOCE REBECCA LALO: Altrimenti?
VOCE ROMAIN GRIMALDI: Farò i passi necessari affinché tenga la bocca chiusa una volta per tutte.
Pianto di Rebecca Lalo.
VOCE REBECCA LALO: E se parlo? Che succederà?
VOCE ROMAIN GRIMALDI: Sarà la sua parola contro la mia... La farò cacciare da quest’istituto per insubordinazione e ricatto.
Pianto di Rebecca Lalo.
VOCE REBECCA LALO: No, signor preside, la prego.
VOCE ROMAIN GRIMALDI: Smetta di fare la commedia, signorina Lalo, o mi arrabbio sul serio... Ha superato il limite. La prego di andarsene immediatamente.
VOCE REBECCA LALO: Se non dico niente mi lascerà in pace? Potrò finire l’anno?
VOCE ROMAIN GRIMALDI: Sì... certo.
VOCE REBECCA LALO: Me lo promette?
VOCE ROMAIN GRIMALDI: Ma sì. Ora sparisca.
VOCE REBECCA LALO: Non dirà mai quello che è successo?
VOCE ROMAIN GRIMALDI: Fuori di qui!
Rumori di colluttazione.
VOCE ROMAIN GRIMALDI: Oddio...
VOCE REBECCA LALO: Arrivederci, signor preside. Non dirò niente.
L’adolescente aveva registrato tutta la conversazione con lo smartphone tranne l’inizio. Si era presentata alla polizia con un trauma cranico dicendo che il preside le aveva fatto delle avances e aveva allungato le mani, che quando lei l’aveva minacciato di raccontare tutto si era arrabbiato e l’aveva picchiata e che, avendo paura di lui, aveva registrato tutto nel caso il colloquio fosse degenerato.
Romain aveva lasciato che lo accusassero senza dire niente.
Era colpa sua. Avrebbe dovuto mantenere la calma, avrebbe dovuto portarla in infermeria, avrebbe dovuto tenere a mente che era una ragazzina di quattordici anni, che era fragile, avrebbe dovuto...
Non aveva aspettato di essere licenziato, si era dimesso. Per settimane era rimasto in casa con le finestre chiuse facendosi portare i pasti a domicilio e non rispondendo al telefono.
Finché, ai primi di giugno, erano arrivati i suoi genitori e per prima cosa avevano aperto le finestre. «Non dovevate farvi venti ore d’aereo solo per dare un po’ d’aria a casa mia» aveva detto loro piangendo.
Poi aveva saputo che Rebecca Lalo aveva ritrattato e che quindi non era più accusato di niente, ma ormai era troppo tardi, la sua reputazione a Marnes-la-Coquette era compromessa, non avrebbe mai potuto rimettere piede a scuola. Tanto più che non riusciva neanche a comprare il pane senza diventare rosso e tremare.
Gli sembrava che tutti lo guardassero con diffidenza.
Malgrado il non luogo a procedere che lo riabilitava si sentiva devastato dalla vergogna, una tortura che gli faceva venire voglia di spegnersi e sparire.
Anziché dargli sollievo, il fatto che la ragazza avesse fatto marcia indietro lo opprimeva ancora di più. Quell’adolescente era decisamente più forte di lui e gli dava una bella lezione. Era ulteriormente crollato, era scivolato in un torpore allarmante, si alzava dal letto solo per andare in bagno. Sollecitato da ex colleghi, alla fine aveva accettato di farsi ricoverare e sottoporsi a flebo di antidepressivi. A salvarlo era stata una psichiatra che l’aveva fatto parlare. Perché si colpevolizzava al punto di voler morire?
Ancora oggi Romain è convinto che sia stata tutta colpa sua, che non avrebbe mai dovuto reagire in quel modo con una ragazzina di quattordici anni.
Nonostante tutto aveva ricominciato a vivere, aveva reimparato a nutrirsi, camminare, apprezzare il profumo del tè e del caffè, mangiare un dolcetto, andare in bicicletta, fare la spesa, ascoltare musica, sgranocchiare popcorn al cinema e attardarsi in una libreria. Aveva esitato a lungo prima di riprendere la carriera scolastica, prima di affrontare di nuovo una quotidianità da dirigente, guardare i ragazzi negli occhi senza pensare a quelli di Rebecca quando si era rialzata col viso insanguinato.
Era stato un cattivo preside, un giovane sfrontato, uno che aveva pensato di guidare e aiutare i ragazzi basandosi su illuminate teorie umaniste, e quando si era ritrovato in una posizione delicata non aveva saputo essere all’altezza.
In Borgogna era stata aperta una nuova scuola media, stavano formando la squadra. Un amico e collega l’aveva spinto a fare domanda: «Sei fatto per questo mestiere, Romain, vai, accetta il posto, smetti di avere paura».
Aveva raccontato tutto a Nina per telefono. Prima di riattaccare lei gli aveva detto: «Grazie della tua fiducia, grazie di avermi detto la verità, grazie di essere venuto a prendere Bob».