29 dicembre 2017
Siamo tutti e tre seduti al sole col mento appoggiato alle ginocchia sul ponte di un traghetto che ci sta portando a Palermo, Étienne a sinistra, Nina al centro, io a destra. Appoggiati al parapetto, ci lasciamo cullare dal tepore dell’aria. Sembra che il mare ci osservi.
«Cent’anni fa c’era la Prima guerra mondiale».
«E questa come ti è uscita? Non cambi mai, Nina, sei uno sballo, come direbbe mio figlio. Perché ti viene in mente la Prima guerra mondiale?».
Nina sorride.
«Non lo so, le trincee, il tempo che passa... Io l’ho trovato lungo, il tempo, quando abbiamo smesso di farci gli auguri di buon compleanno. La prima volta ho avuto una sensazione di grande silenzio nella testa. Certi eventi segnano gli anni, poi più niente, mentre prima commentavamo tutto».
«Io non sono mai stato capace di ricordare le date» ci fa notare Étienne.
Si accende una sigaretta. Vedo che Nina muore dalla voglia di fermargli il braccio, di soffiare sulla fiamma dell’accendino, ma non osa.
Io non dico niente, come al solito. Il silenzio mi fa bene. So che né Nina né Étienne mi chiederanno perché sto zitta. Conoscersi da sempre è anche questo.
«Perché fate questo per me? Perché mi accompagnate?» domanda Étienne. «In fondo sono sempre stato sleale con voi».
«Sleale?» esclama Nina. «E il 2 gennaio 2003, quando sei venuto a trovarmi al rifugio? Non so cosa tu abbia fatto né cosa sia successo, ma è successo».
«Di che parlate?» chiedo.
«Del giorno in cui ti ho telefonato» risponde Étienne. «Tu eri a Cagliari con mia sorella, anche tu in Italia, buffo. Ti ricordi?».
«Certo che me lo ricordo. È l’ultima volta che ci siamo parlati, fino a quattro giorni fa».
«Quel giorno vi siete parlati?» fa Nina portandosi entrambe le mani alla bocca come una bambina colta in flagrante.
Invece di risponderle le sorrido e torno al mio silenzio.
Étienne chiude gli occhi e allunga le gambe.
Ripensa allo sguardo di Éliane Folon detta Lili nell’ufficio del rifugio, due biglie verdi che lo scrutavano facendogli capire che era arrivato il momento di “occuparsi” di Emmanuel Damamme affinché Nina ritrovasse una parvenza di vita.
Uscito dal rifugio aveva chiamato Adrien con poche speranze. Lui aveva risposto subito.
«Pensavo che avessi cambiato numero di telefono» erano state le prime parole che gli aveva detto.
Non si erano più visti dopo il violento incontro alla brasserie La Lorraine.
«Perché mai? Non mi cerca più nessuno, a parte Louise e il mio ex editore».
«Più che altro pensavo che non mi avresti risposto».
«Se mi chiami significa che vuoi dirmi qualcosa di Nina, sennò non mi telefoneresti, giusto?».
«Giusto. L’ho vista. In carne e ossa».
«Dov’è?».
«Non ci crederai...».
L’ultima volta che Étienne aveva messo piede nella proprietà Damamme era stata la sera del 1998 in cui avevano visto la finale dei Mondiali di calcio. Perché quel giorno non aveva strappato Nina alla sua triste esistenza? Cosa gliel’aveva impedito? Eppure già si vedeva che era infelice.
Il 2 gennaio 2003, alle dieci del mattino, Étienne aveva trovato Emmanuel nella sua ricca dimora trasandato, smagrito e solo, con una barba di parecchi giorni, in boxer e maglietta. Faceva pietà.
«Sei venuto a farmi gli auguri di buon anno?» aveva ironizzato Emmanuel vedendolo.
«Perché sei ridotto così?».
«È l’amore» aveva ridacchiato lui. «Sai dov’è Nina?».
«Dimenticala».
«Mai».
«Perché? Se ti ha lasciato evidentemente vuole che la dimentichi».
«Forse, ma io voglio vederla».
«Faresti bene a lasciarla perdere una volta per tutte».
«Sei venuto per dirmi questa stronzata?».
«Potresti avere delle noie. Noie grosse».
«Che genere di noie?».
«Di genere definitivo».
Emmanuel si era messo a gesticolare in maniera grottesca cantilenando a voce sempre più alta:
«Étienne Beaulieu mi minaccia! Étienne Beaulieu mi minaccia!...».
«Ora capisco perché ha tagliato la corda, sei completamente fuori di testa».
L’altro aveva smesso di fare il suo show. Era sceso un lungo silenzio. Poi aveva detto:
«Allora, sai dov’è Nina? Dài, dimmelo... Dimmelo! Dimmelo! Dimmelo!» aveva cominciato a gridare saltellando come un bambino isterico.
Étienne si era seduto sul divano. Tutto stava andando come previsto.
«Perché ti fai rivedere oggi? L’hai incontrata? Sai dov’è? Ma certo, è così, cazzo! Ammetti che lo sai!» aveva strillato Emmanuel colpendo il muro con un pugno.
«Sei matto...» aveva sibilato Étienne fra i denti.
Emmanuel era tornato di colpo serio.
«Vaffanculo, Beaulieu, tu e la tua morale... Comunque vendo la ditta e me ne vado».
«Dove?».
«Non l’ho ancora deciso. Lontano. Lontanissimo. Hai ragione, è bene che dimentichi quella troia».
Sentendolo insultare Nina, Étienne era stato tentato di spaccargli la faccia.
«Sai che sono stato io ad accompagnare Clotilde Marais al lago la sera in cui è scomparsa? Hai raccontato a tutti che non era venuta, ma io so che hai mentito, perché l’ho lasciata proprio accanto alla tua moto...».
Étienne aveva fatto finta di non crederci, ma Emmanuel aveva colpito nel segno. Probabilmente il pazzo diceva il falso per sapere il vero, non era possibile che avesse incontrato Clotilde la sera del 17 agosto. Emmanuel aveva notato il turbamento di Étienne, che tutto si aspettava meno quell’annuncio.
«Che hai fatto a quella povera ragazza?» l’aveva provocato.
«Sono venuto a parlare di Nina, non di Clotilde».
«Non mi credi, eh? Posso descriverti il vestito che aveva quella sera, se vuoi, nero a pois bianchi, con i bottoni davanti a forma di coccinella. E aveva ai piedi scarpe da ginnastica bianche, me lo ricordo perché ho pensato che il bianco fosse un colore poco adatto a quel posto fangoso».
«Sei un mitomane» aveva replicato Étienne. «Lo sanno tutti com’era vestita, era sugli avvisi di ricerca... E poi tu che ci facevi lì? Hai una piscina olimpionica a casa tua, non sei mai venuto al lago...».
Emmanuel Damamme aveva fatto un sorriso cattivo e allo stesso tempo triste. Étienne era combattuto tra pietà e avversione. Il dandy che non aveva più niente di elegante soffriva palesemente le pene dell’inferno e aveva perso il controllo della sua vita. Guardava Étienne senza vederlo, perso nei suoi pensieri.
«Mi accorgo per la prima volta che nel tuo cognome c’è la parola beau, “bello”».
«...».
«Il giorno del funerale del postino vi ho visto arrivare a casa di Nina, tu e il frocetto. Ho aspettato, poi tu te ne sei andato da solo. Non so perché, ma ti ho seguito, ti ho visto entrare e uscire da casa tua, salire sulla moto. Avevo una gran voglia di farti volare nel fosso. Ti stavo dietro, ma non con l’Alpine, con una macchina della società. Sono stato sul punto di venirti addosso varie volte... ciao ciao, Beaulieu! Non l’ho fatto solo perché era appena morto il nonno di Nina e sarebbero stati troppi morti insieme, ho avuto paura che Nina non l’avrebbe sopportato. Ti ho visto stenderti sull’erba in riva al lago... cioè, in riva alla discarica... e ingozzarti di whisky come una spugna. Poi ho avuto un momento di lucidità e mi sono chiesto che ci facevo lì. Tornando a La Comelle ho incontrato Clotilde Marais che camminava sul ciglio della strada. Ho fatto dietrofront e le ho dato un passaggio. Mi ha detto che aveva appuntamento con te. Si vedeva chiaramente che era innamorata pazza».
«Sei stato tu a farle del male?».
«Il solo male che le ho fatto è stato lasciarla accanto alla tua moto. Non sei per niente limpido, Étienne, quindi non venire a farmi la morale, per piacere!».
«Sei rimasto lì? Ci hai spiato?».
«No, sono tornato qui».
«Bugiardo».
«Me ne fregavo di voi due, l’unica cosa che mi interessava in quel momento era Nina, volevo tornare a casa nel caso avesse bisogno di me. All’epoca quasi nessuno aveva il cellulare, come ricorderai, si aspettava per ore accanto al telefono fisso. Ed è successo il miracolo. Quando pensavo che non l’avrei più rivista mi ha telefonato e chiesto di andare a prenderla. Era da sola col frocetto...».
«Smettila di chiamare Adrien così».
«Perché, hai un debole per lui? Nina non ti basta?».
Emmanuel era scoppiato a ridere, una risata dolorosa che gli aveva alterato i lineamenti.
«Tornando a Clotilde Marais, se lo vuoi sapere sono io che telefono regolarmente in gendarmeria per dire che quella sera era con te».
Étienne aveva fatto forza su se stesso per non saltargli addosso. Quell’uomo non era soltanto pazzo, era anche perverso e manipolatore. Tuttavia la sua confessione gli dava un certo sollievo, aveva spesso pensato che il delatore sconosciuto fosse suo padre, che gli volesse così poco bene da arrivare ad accusarlo.
«E sono stato io a chiamare la televisione quando hanno parlato del caso» aveva continuato Damamme. «Ho sempre sognato di vederti finire in prigione. Se penso che sei diventato poliziotto... Sei un impostore, Beaulieu. Confessa che sei stato tu a uccidere Clotilde Marais».
Étienne aveva dimenticato ogni strategia.
«Non sono pazzo, non terrorizzo le ragazze, io» gli aveva gridato. «Del resto nessuna mi ha mai lasciato, al contrario di te».
Emmanuel aveva afferrato una padella e l’aveva colpito con una tale violenza da farlo svenire. Étienne non se n’era neanche accorto...
Quando aveva ripreso i sensi in un lago di sangue aveva un taglio di un paio di centimetri sull’arcata sopraccigliare. Emmanuel non c’era più. Étienne si era tamponato l’emorragia arrabbiatissimo con se stesso. Perché diavolo aveva provocato quel pazzo? L’aveva cercato in tutte le stanze, aveva perfino aperto gli armadi della camera da letto e constatato che ogni traccia di Nina era stata cancellata.
Tanto meglio se era scappato, in fondo quell’aggressione era un colpo di fortuna: violenza a pubblico ufficiale, Étienne poteva farlo sbattere dentro. A condizione di prenderlo, però.
Emmanuel era in cucina, in piedi accanto alla credenza, pallidissimo, assente, con un bicchiere d’acqua in mano.
Era il momento giusto di dirgli tutto.
«So dov’è Nina».
Emmanuel l’aveva guardato come se fosse il diavolo in persona. Sembrava quasi non voler più sapere la notizia che da oltre due anni aspettava e cercava come un assatanato, come se raggiungere l’obiettivo lo privasse della sua ricerca.
Sempre col bicchiere d’acqua in mano, si era seduto come un condannato in attesa del verdetto. Étienne aveva parlato con calma e condiscendenza, scegliendo le parole.
«Ho ritrovato le sue tracce grazie a un informatore. Abita a trecento chilometri da qui e... credo che sia felice. Vive con un uomo di dieci anni più grande di lei... Hanno un figlio, un bel bambino di nove mesi che si chiama Lino. Ne avranno un altro a primavera... Nina ha conosciuto il suo attuale compagno al lavoro».
Emmanuel era stato sul punto di urlare “Ma il marito sono io!” prima di realizzare che no, non era più niente.
Étienne aveva continuato con la sensazione di affondare sempre di più la lama.
«Lavora in un laboratorio di restauro di quadri. Era il suo sogno. Sai, le è sempre piaciuto dipingere... Mi dispiace... Non mi sei mai stato simpatico, Damamme, ma è giusto che tu sappia la verità, vedo che stai troppo male a causa di una persona che non esiste più. Nina ci ha messo una pietra sopra. Su di te, su di noi, su Adrien, sui miei genitori, su La Comelle. Non la rivedremo più».
«Dove vive?» aveva trovato la forza di domandare Emmanuel.
«Ad Annecy, in una graziosa casetta in riva al lago... Sono andato a controllare. Mi è venuto un colpo quando l’ho vista da lontano, bella e incinta. Spingeva il passeggino col figlio e aveva un cane al guinzaglio... Ha voltato pagina. Fai come lei. È finita».
Emmanuel si era raggomitolato in posizione fetale, con le ginocchia contro il petto, e aveva cominciato a piangere. Si era figurato la moglie persa, sola, pentita, tremante di paura, non aveva mai concepito un copione diverso, un altro uomo, due figli, un cane... Si era blindata in un’altra vita. Di colpo, ucciderla e suicidarsi gli era sembrata una cosa assurda. Nina, la sua Nina sottomessa e terrorizzata, sterile e alcolizzata, era morta e sepolta. La ragazza di Annecy con due bambini non era più lei.
Tornato in macchina, Étienne aveva chiamato Adrien per annunciargli il successo del piano, ma Adrien non aveva risposto.
Quand’era uscito dal rifugio, e prima di andare da Emmanuel Damamme, lui e Adrien avevano riflettuto insieme al telefono sul modo di liberare Nina dal marito.
Ucciderlo o farlo uccidere era fuori questione. Spingerlo al suicidio facendogli credere che Nina fosse morta non avrebbe funzionato. Dargli un falso indirizzo in Polinesia sperando che non ne sarebbe tornato era troppo fantasioso...
Adrien aveva trovato la soluzione: fargli credere che Nina si fosse rifatta una vita felice, protetta dietro lo scudo di marito e figli. Gli aveva dettato le parole: il lago di Annecy, l’uomo innamorato, i bambini, il cane, il passeggino, la primavera, il restauro di quadri, tutte cose che Damamme era stato incapace di darle. Emmanuel non avrebbe avuto il coraggio di confrontarsi con quella realtà e forse avrebbe abbandonato l’insano proposito di ritrovarla.
«Si vede che scrivi libri, tu» aveva esultato Étienne. «È un’idea geniale».
Dopo quella telefonata Adrien ed Étienne non si erano più visti né sentiti.