29 dicembre 2017
Bernard Roi è sempre stato un tipo ordinario. A scuola era abbonato alla sufficienza, sia alle elementari che alle medie. Non si faceva notare. Se si fosse sottoposto al test del quoziente d’intelligenza sarebbe risultato “da normale a medio”.
Era arrivato fino alla terza media, poi aveva cambiato strada e ottenuto in extremis un certificato di abilitazione professionale come meccanico.
A diciannove anni tuttavia il suo principale, che aveva un’officina a La Comelle, l’aveva licenziato perché arrivava sempre in ritardo. E in effetti Bernard si faceva troppe canne, aveva il risveglio difficile.
Alla fine del 1994 era stato assunto alla Magellan, la fabbrica di pezzi di ricambio per automobili, per lavorare alla fine della catena di montaggio, al controllo qualità, dapprima con un contratto a termine, poi con un contratto a tempo indeterminato. Ventitré anni senza un’increspatura. Era sopravvissuto alle riduzioni di personale e ai prepensionamenti. Aveva fatto economie e aperto un libretto di risparmio, si era comprato una casetta e una macchina a rate.
A scuola ascoltava i Clash e portava magliette dei Sex Pistols, ma non ricorda più esattamente perché. Quando i figli gli chiedono: «Papà, com’era la vita quand’eri piccolo?», Bernard risponde: «Pesante, tutti mi prendevano in giro per il cognome Roi, dicevano che mi sentivo un re».
Da adolescente una vecchia zingara incontrata alla fiera di La Comelle, alla quale Bernard non aveva saputo dire di no quando lei gli aveva afferrato la mano, gli aveva predetto un matrimonio abbastanza felice e due figli, ma anche un evento che a diciannove anni gli avrebbe sconvolto la vita. «È poco chiaro, ma è qualcosa di brutale» gli aveva detto sgranando gli occhi sulle linee della sua mano e chiedendogli dieci franchi.
Bernard non ci aveva più pensato fino a quando l’evento non era successo. Allora si era ricordato delle ultime parole della vecchia: «Di’ la verità, piccolo, sennò non camperai più».
La verità lui non l’ha mai detta.
Bravo padre e marito, Bernard Roi ha una vita che scorre tranquilla: la mattina beve il caffè inzuppando una madeleine confezionata nella tazza, inforca la bicicletta per andare in fabbrica, a un chilometro da casa sua, a mezzogiorno mangia il pranzo portato da casa sulla sua solita panchina e alle cinque e mezzo del pomeriggio torna per dare una mano alla moglie nelle faccende di tutti i giorni.
Quest’anno ha preso le ferie di Natale dal 22 dicembre, ma diversamente dagli altri anni ha guardato le trasmissioni televisive natalizie con i figli senza vederle, rispondendo a caso sì o no alle domande che gli facevano senza nemmeno ascoltarle.
La notte scorsa si è deciso a vuotare il sacco.
Quel 29 dicembre, alle nove del mattino, prende la bicicletta, ma anziché dirigersi alla fabbrica va alla gendarmeria.
Colpo di fortuna nella sfortuna, si imbatte in Sébastien Larand di passaggio, uno che non è proprio un suo amico ma che conosce dagli anni delle medie, e questo lo rassicura. Non gli sarebbe piaciuto avere a che fare con uno sconosciuto in divisa o, peggio, con una donna.
Il graduato gli sorride.
«Ciao, come mai in gendarmeria a quest’ora del mattino?».
«È per Clotilde Marais» risponde Bernard guardandosi le scarpe che la moglie Céline gli lucida ogni primo sabato del mese.
Il sorriso di Sébastien Larand si spegne all’istante. E lui che pensava di passare solo cinque minuti e andarsene... Da vari giorni gli abitanti di La Comelle non fanno altro che parlare delle ossa trovate in fondo al lago: sono quelle della ragazza scomparsa? I fatti di cronaca non sono certo frequenti da quelle parti.
Sébastien e Bernard si conoscono fin da piccoli, Bernard Roi deve avere un paio d’anni più di lui e non è un tipo fanfarone, quindi se quella mattina si è presentato lì dev’essere per qualcosa di serio, pensa il gendarme.
«Vieni, andiamo nel mio ufficio, staremo più tranquilli».
«Non mi arresti?» si stupisce Bernard.
«Non siamo mica in Law & Order, qui...».
Appena si siede, Bernard Roi rimpiange di essere lì. A che serve? Che cambia?
«Dimmi tutto» lo incoraggia Sébastien Larand dandogli un bicchiere d’acqua.
Bernard rimane un po’ in silenzio, poi attacca.
«Quel giorno, il giorno in cui Clotilde Marais è... scomparsa, non stavo tanto bene. Sei mesi prima mi avevano licenziato dall’officina in cui lavoravo, era un periodaccio, fumavo parecchia erba, anche hashish, ma non ho mai usato altro, te lo giuro sulla testa dei miei figli. Faceva caldo, era una giornata triste, la mattina c’era stato il funerale del postino, una brava persona. Stavo male, mi annoiavo, tutti erano andati in vacanza tranne me, come al solito, come tutti gli anni... A casa nostra il mare lo vedevamo solo in televisione, così facevo cazzate per ammazzare il tempo... Bada, non sto cercando scuse... Vedi come sono grosso adesso? All’epoca ero un mucchietto d’ossa, non avevo il coraggio di andare alle piscine perché mi sfottevano, «Ehi, re, sei gracilino, dev’essere un regno povero, il tuo», cose così. Rimaneva il lago, un posto tranquillo dove andare a fumare e bere. Ero scoglionato, non avevo la patente, mio fratello aveva preso la bicicletta... così ho deciso di fregare la Twingo del vicino, un certo Desnos che odiavo perché l’anno prima aveva avvelenato il nostro cane. Non c’erano prove, ma tutti sapevano che era stato lui. La lasciava sempre aperta, era una macchina facile da mettere in moto dopo aver scassato il bloccasterzo. Sono andato al lago stringendo il culo: senza patente, macchina rubata, erba e alcol nel cassettino... Sapevo che non l’avrei mai riportata a Desnos, l’avrei usata, me la sarei spassata un po’ e l’avrei abbandonata da qualche parte. Ho passato il pomeriggio a fare il bagno, fumare, ciondolare e dormire al riparo dagli sguardi. Quando ha cominciato a fare buio sono risalito sulla Twingo, alla radio mandavano Foule sentimentale, una canzone sdolcinata. Da allora non sono più stato capace di riascoltarla... Sulla via del ritorno ho visto una ragazza che camminava sul ciglio della strada. Si è voltata, l’ho riconosciuta, era una di La Comelle che avevo già visto a scuola, una che non andava in giro con gente come me. E così ho avuto paura, mi è presa la paranoia che ti dà il fumo, sono andato nel panico e ho accelerato perché non mi vedesse al volante di una macchina rubata, ho preso velocità pensando “Abbassa la testa e superala”. Non ho avuto il tempo di abbassarla, lei è scattata di lato, sembrava una tuffatrice o una ginnasta determinata a battere il record alle Olimpiadi, si è buttata sotto la macchina come se volasse, puntando dritta verso le ruote. Non ho avuto il tempo di frenare. Ho urlato. Terrore. L’impatto è stato talmente violento che i fari sono scoppiati. Sono rimasto vari minuti seduto in macchina senza il coraggio di scendere. Mi tremavano le mani. Con tutto quello che avevo fumato non sapevo più se fosse vero o stessi avendo un’allucinazione. La radio continuava a trasmettere i tormentoni di quell’estate. L’ho spenta. Il motore era ancora acceso. Ho pianto, poi ho fatto marcia indietro e l’ho vista illuminata dalle luci di posizione, stesa sulla strada. Un animale morto. Mi è tornato in mente il mio grosso cane che quello aveva avvelenato, il suo corpo freddo in giardino quand’ero tornato a casa. Alla fine sono sceso. Da principio non l’ho toccata, poi le ho sentito il polso, era morta... Perché io? Perché si era suicidata davanti a me? Perché una principessa come lei si ammazzava usando un poveraccio come me? Ero fattissimo, ho pensato che dovevo far sparire la macchina con la ragazza dentro e dimenticare tutto. Comunque nessuno mi avrebbe creduto. Con tutto l’alcol e la roba che avevo in corpo, la macchina rubata, senza patente, mio padre mi avrebbe ucciso prima che la polizia venisse ad arrestarmi. L’ho presa in braccio piangendo e chiedendole perché l’avesse fatto, continuavo a farle la stessa domanda: perché l’hai fatto? I morti pesano. Sembrava tanto leggera, invece ho fatto fatica a sollevarla. Era ancora calda, aveva le braccia sudate. L’ho messa sul sedile di dietro con attenzione, come se avessi paura di farle male. Sono tornato al lago pregando di non incontrare nessuno. Ho trovato un punto che dava direttamente sull’acqua, una piccola radura tra le felci, ho accelerato per circa cento metri, il motore è andato su di giri, ho preso velocità e ho fatto come James Dean in Gioventù bruciata, ho aperto la portiera e mi sono lanciato fuori. Mi sono rotto il polso. La macchina è volata come Clotilde quando si è buttata sotto le mie ruote, poi è andata a fondo... È rimasta lì ventitré anni. Credevo che non l’avrebbero mai trovata fino a che non ho letto l’articolo sul giornale. Non perdete tempo con le analisi del DNA o cose del genere. È Clotilde Marais. La cosa ironica è che, ammazzandosi, quella ragazza mi ha un po’ salvato la vita. Da allora sono diventato una persona seria, non ho più toccato alcol né droga, mi ha rimesso sulla retta via. Ho pensato spesso ai suoi genitori, ma preferivo che la credessero viva da qualche parte, come dicevano un po’ tutti. Qualcuno ha detto perfino di averla vista in Brasile. Non volevo essere quello che andava ad annunciare a un padre e una madre che la figlia si era suicidata. Sono stato tentato di parlare quando li ho visti in televisione nel programma di Jacques Pradel, ma all’epoca avevo un figlio di un anno e mia moglie era incinta del secondo. Parlano bene quelli di Parigi, ma non sanno quanto sia difficile mantenere e proteggere una famiglia. Certe volte è meglio non dire la verità. Fa troppo male».