30 dicembre 2017
Marie-Castille riattacca.
Digerisce l’informazione.
Marie-Laure le ha appena letto l’articolo. Clotilde Marais si sarebbe buttata sotto una macchina. Il tipo che guidava è incensurato, un bravo padre di famiglia che è stato zitto perché all’epoca non era pulito. Tutto da dimostrare. È anche possibile che l’abbia investita perché aveva bevuto e si sia sbarazzato del cadavere.
Una storia riesumata, un vecchio caso risolto, e tutto grazie a un insignificante comune della Saône-et-Loire che ha deciso di ripulire una parte del lago.
Marie-Castille era accanto a Étienne tre settimane fa, quando aveva saputo della macchina ripescata dalle acque. Era diventato bianco come un lenzuolo, aveva detto più volte:
«Allora l’avevo vista, non sono pazzo».
«Che cosa, amore? Che avevi visto?».
«La macchina».
Quante volte Étienne si svegliava chiamando Clotilde? si chiede. È stato quello a ucciderlo. A devastarlo. Clotilde Marais è l’animale che ha corroso Étienne dall’interno. Morendo l’ha portato con sé, gli ha messo un piede nella fossa.
Bisogna assolutamente che Étienne lo sappia, Marie-Castille sente che è di vitale importanza. Forse sapendo che non c’entra niente con la scomparsa di Clotilde le cose cambieranno. Si può cambiare il corso dei fiumi? Certe volte sì, sicuramente. Esistono le correnti contrarie.
Deve tornare a casa. L’unico che possa riferire l’informazione è Valentin. Marie-Castille è sicura che il padre lo chiami. Valentin è l’unico che colleghi Étienne al loro mondo, il mondo dei vivi. Il marito è partito con Nina e quell’altro perché i due amici rappresentano il passato, e non il presente. Sono fantasmi.
Sale in macchina e ripete a voce alta quello che dirà al figlio: «Tesoro, quando papà ti telefona, perché so che ti telefona, digli esattamente queste parole: un uomo si è costituito per il caso della macchina ripescata dal lago. Digli solo questo, un uomo si è costituito per il caso della macchina ripescata dal lago, papà capirà».
“Valentin mi farà domande” pensa poi. “Mi chiederà particolari sul caso. Che gli rispondo? Cazzo! Cazzo! Cazzo!”.
Frena bruscamente e accosta di lato. Scoppia a piangere, crolla sul volante scossa da violenti singhiozzi. Non può certo dire al figlio che quando il padre era giovane ha messo incinta una ragazza scomparsa la sera in cui aveva appuntamento con lui, che quella storia l’ha ossessionato per tutta la vita e che è andato a morire lontano da loro...
Le vibra il telefonino, guarda lo schermo, numero sconosciuto. Si soffia il naso e risponde. Sente: «Sono Nina».
*
Palermo. Al riparo dal vento ci sono diciotto gradi. Io ed Étienne siamo stesi sulla spiaggia dell’Arenella, a due passi dalla nostra pensione. Io disegno sulla sabbia buffe case dai muri inclinati, Étienne guarda il mare. Più lontano vedo Nina che cammina sul bagnasciuga. È bello l’inverno in Italia.
«Volevi questo?» gli domando.
«Sì» risponde lui fissando l’orizzonte.
«Hai fame?».
«No».
«Hai dolore?».
«No».
«Vuoi che telefoni a qualcuno, che dia notizie ai tuoi genitori?».
«No. Mio padre non mi vuole bene».
«Perché lo dici?».
«Perché lo so. Devo avere una faccia che non gli piace. Forse se avessi avuto più figli ce ne sarebbe stato uno a cui avrei voluto meno bene degli altri. L’amore non si discute».
«Io mio padre non l’ho più visto da quando ho scritto Figli in comune. Un sacco di tempo».
«Non ti manca?».
«Non si può sentire la mancanza degli sconosciuti».
«Lui sa che in fondo sei una donna?».
Sono talmente venuto a patti con le mie due esistenze che la sua domanda mi coglie alla sprovvista. Appena ci ritroviamo soli non fa altro che parlarmi di me.
«Neanche mia madre l’ha mai saputo. Lasciare che se ne andasse senza dirglielo è il mio maggior rimpianto».
«Louise sa che siamo a Palermo?».
«Louise sa tutto. Vuoi che le dica di venire qui?».
«No, per carità. Dopo che sarò morto... vorrei che ti operassi. So che non l’hai mai fatto a causa mia, perché avevi paura di come ti avrei guardato. Sono stato io a impedirtelo».
«Tu non c’entri niente, Étienne. È una faccenda molto più complicata».
«Promettimi che lo farai».
«Non posso promettere».
«Louise verrà con te? Voglio dire, se un giorno deciderai di farlo ti accompagnerà?».
«Sì. Non aspetta altro che me, aspetta Virginie da trent’anni».
«Allora fallo. Giuramelo».
«Te lo giuro».
«Sulla mia testa?».
«Non serve a niente giurare sulla tua testa, visto che stai per morire. Si giura sulla testa di quelli che stanno bene».
Ci mettiamo a ridere insieme.
Nina torna verso di noi correndo come se avesse visto il diavolo. Arriva talmente senza fiato che dalla bocca non le esce alcun suono, solo il respiro rauco che conosciamo bene.
Étienne la rimprovera.
«Sei matta a correre così?».
«È che... è che... Étienne... è che... Clotilde... è finita...».
*
La madre di Clotilde Marais è seduta sul divano. Le viene in mente che da quando la figlia se n’è andata non l’ha mai cambiato.
Ventitré anni.
Ha ritinteggiato le pareti un paio di volte, ritappezzato il salotto, sostituito la moquette in camera da letto, ma si è tenuta il vecchio divano.
Sente il marito camminare avanti e indietro al piano di sopra. Probabilmente sta pensando al processo, agli avvocati. È il suo modo di resistere, di cercare all’interno di se stesso quel che resta di vivo. Vorrà dimostrare che Clotilde non si è suicidata, ma è stata investita da un uomo in preda all’alcol e forse qualcosa di peggio.
Ma lei sa bene che la figlia stava male e lo dirà, dirà che quel Bernard Roi è una vittima collaterale.
Come lei e tutti gli altri.
Tutti vittime della “scomparsa”.
Da ventitré anni, per gli altri lei è la madre di Clotilde Marais, la madre della ragazza che si è volatilizzata il 17 agosto 1994, la madre della figlia che ha rinnegato la propria famiglia, la madre con le occhiaie che è andata in televisione a spiattellare la sua vita.
Nessuno sa come si chiama, come succede per tutti i genitori di figli scomparsi. Diventano nient’altro che i “genitori di...”, vengono destituiti perché i figli sono spariti, partiti senza lasciare un recapito. Da ventitré anni ha perso il suo nome, e ormai è vecchia, pensionata.
“Ecco, è finita”. C’è una canzone che dice così. Non le è mai piaciuta, è troppo triste.
Per gli altri la cosa migliore era l’idea che Clotilde vivesse a Salvador de Bahia, che bevesse latte di cocco a colazione con i bei capelli biondi raccolti in uno chignon, che crescesse altrove.
Nel 2001 sono andati in Brasile, a mostrare in giro un suo ritratto fotografico invecchiato un po’ con un software. Sapeva perfettamente che nessuno l’aveva vista, fingeva di cercarla per far piacere al marito.
Ha sempre pensato che si fosse nascosta per morire, non per vivere.
Nell’ultimo periodo Clotilde non raccontava più niente, era diventata un mistero, si portava dietro nuvole di tristezza e fingeva su tutto. La madre aveva la sensazione di vivere sotto lo stesso tetto di un’attrice scadente, un’estranea che avesse soffocato la figlia.
Lasciava credere agli altri che Clotilde avesse quarantun anni, ma in cuor suo ha sempre saputo che ne aveva diciotto.
Sono cose che una madre sente.
Il 17 agosto 1994 è una data che non corrisponde né a una nascita né a una morte né a un anniversario, è la data di una scomparsa.
Quando la tizia di Châlons ha sostenuto con insistenza di aver incontrato Clotilde a Salvador de Bahia ha fatto finta di crederci, così come ha fatto finta di credere alla vecchia che diceva di averla vista alla stazione quella fatidica sera.
Fingere di crederci le ha permesso di continuare a vivere senza di lei.
Alla fine ha addirittura profanato camera sua, ha messo i suoi vestiti in un sacco di plastica e li ha depositati in un contenitore della Caritas, ha tolto il letto e al suo posto ha messo una scrivania con un computer sopra e una serie di raccoglitori che non servono a niente. Il marito si è arrabbiato.
Si chiede perché non abbiano cambiato casa. Pensavano che tornasse? Avevano paura che non ritrovasse la strada?
Anche i vicini se ne sono andati. I vecchi sono stati sostituiti da giovani, nuove famiglie, bimbi.
Solo loro sono rimasti. La figlia li ha condannati a restare, ad aspettarla. Ed ecco che ora è tutto finito.
Non la aspetteranno più.
Il telefono non fa che squillare. Condoglianze, amici, curiosi, giornalisti. All’altro capo del filo c’è Étienne Beaulieu. Quante volte Clotilde ha sperato di sentire la sua voce rispondendo? Quante volte è tornata a casa domandando: «Ha chiamato qualcuno?».
La telefonata è arrivata con ventitré anni di ritardo.
«Mi dispiace, Annie» dice.
«Sono commossa che ti ricordi il mio nome».
«...».
«È venuta a trovarmi tua madre stamattina. Mi ha detto che hai il cancro, e anche che non vuoi curarti».
«Sono al terzo stadio... non c’è niente da fare».
«C’è sempre qualcosa da fare, Étienne. Tranne quando i gendarmi vengono a casa tua per annunciarti che tua figlia è morta... Sapevi che Clo era incinta?».
Étienne ci mette un po’ prima di rispondere.
«Sì».
«Sapevi anche che aveva perso il bambino?».
«...».
«Non l’ho mai detto a nessuno... Quattro giorni prima che sparisse ho trovato le sue lenzuola nella lavatrice, piene di sangue. Non ha mai saputo farla funzionare. Aveva svuotato una bottiglia di varechina nella vaschetta, poi ha premuto il bottone sbagliato. Ho capito subito. Più tardi ho trovato un libro sulla gravidanza nel cassetto del suo comodino... Quella mattina sono andata in camera sua a dirle che era morto il postino. Sapevo che era il nonno della tua miglior amica. Era una scusa, volevo vedere Clo... Non dimenticherò mai la sua faccia, era pallidissima, cerea. Stava uscendo dalla doccia, quindi ho visto la sua figura, le sue forme. Non ho detto niente. Avrei dovuto parlarci. Ho rispettato il suo silenzio per vigliaccheria... Ho buttato via le lenzuola e fatto finta di non vedere gli assorbenti in bagno».
Lungo silenzio. Étienne pensa che sia caduta la linea.
«È ancora lì?» chiede.
«Sì» risponde lei.
«Devo dirle una cosa, Annie».
Lei lo interrompe come se non volesse sentire più niente.
«Verrai al suo funerale?» gli domanda.
«Sto morendo».
«Ma che dici? Respiri ancora, se non sbaglio».
«Non per molto».
«Che ne sai?».
«Lo sento».
«Dio buono, combatti!».
E riattacca.