Sono nato...
Sono discendente dei duchi Pozzo di Borgo e dei marchesi di Vogüé.
Durante il Terrore, Carlo Andrea Pozzo di Borgo prende le distanze dall’amico Napoleone. Giovanissimo, e protetto dagli inglesi, diventa primo ministro della Corsica indipendente, poi va in esilio in Russia dove, grazie alla sua conoscenza dell’«Orco», come Alexandre Dumas chiamava l’imperatore nel Conte di Montecristo, contribuirà alla vittoria finale delle monarchie. Mercanteggiando a caro prezzo la considerevole influenza di cui gode presso lo zar, accumula un’ingente fortuna; i duchi, i conti e gli altri aristocratici europei cacciati dalla Francia rivoluzionaria lo ringraziano profumatamente per ogni suo intervento volto a restituire loro beni e funzioni. Di lui Luigi XVIII arriverà a dire che è «quello che gli è costato più di tutti». Grazie a ben mirate alleanze, i Pozzo si tramandano questo gruzzolo di generazione in generazione, fino ai nostri giorni. Tra i monti della Corsica si dice ancora «ricco come un Pozzo».
Mio nonno, Joseph «Joe» duca Pozzo di Borgo, ha sposato un’americana piena di soldi. I nipoti la chiamano Granny. A nonno Joe piaceva raccontare come si erano conosciuti, nel 1923. Granny aveva vent’anni. In compagnia della madre aveva intrapreso un viaggio in Europa per conoscerne i migliori partiti. Le due donne arrivano da un nobile còrso che Granny sovrasta in altezza di un paio di spanne almeno. Nella sala da pranzo del castello di Dangu, in Normandia, dall’altro lato dell’immensa tavola, la madre si rivolge alla figlia in inglese (ovviamente tutti i presenti comprendono): «Cara, non trovi che il castello del duca che abbiamo conosciuto ieri fosse ben più grazioso?» Nonostante ciò, Granny gli preferirà il piccolo còrso.
Quando la Sinistra sale al potere nel 1936, Joe Pozzo di Borgo viene arrestato con l’accusa di «partecipazione all’associazione dei cagoulards», cospiratori di estrema destra pronti a tutto pur di rovesciare la Repubblica. Non era vero. Mentre è detenuto nel carcere della Santé riceve la visita della moglie e di qualche raro amico. La cosa sconveniente, si diverte a raccontare, è che quando ti cercano in prigione non puoi far dire che non sei in casa...
Il clan còrso dei Perfettini, che dall’epoca dell’esilio in Russia difende gli interessi dei Pozzo sull’isola, si mobilita in favore del nonno. Una delegazione, armata fino ai denti, sale a Parigi. Fa irruzione alla Santé. Il patriarca, Philippe, chiede al duca la lista delle persone da far fuori. Il nonno consiglia loro di lasciar perdere e tornarsene a casa. Uscendo, sorpreso e deluso, il vecchio Philippe si rivolge alla duchessa, preoccupato: «Sarà mica affaticato, il duca?»
E così il nonno abbandona ogni attività politica per ritirarsi nelle sue proprietà: la dimora parigina, il castello in Normandia, la montagna in Corsica e palazzo Dario a Venezia. Mantiene una brillante corte di oppositori di qualunque regime. Muore quando io ho quindici anni. Non credo di aver mai aderito a nessuno dei suoi brillantissimi slanci. Mi sembravano di un’altra epoca. In compenso, mi ricordo di una serata a Parigi, nella sala da ballo tutta scintillante di diamanti.
Sono un bambino. Con la testa arrivo all’altezza dei «posteriori» di questo bel mondo. Perplesso, sorprendo la mano del caro nonno su un sedere notevole, che non è quello della sua signora.
La storia della dinastia Vogüé risale alla notte dei tempi. Come dice nonno Pozzo a nonno Vogüé (i due patriarchi si detestano): «Almeno il mio, di titolo, è così recente che posso dimostrarne l’autenticità!» Robert-Jean de Vogüé non ribatte.
Nonno Vogüé, ufficiale di carriera, ha fatto entrambe le guerre mondiali: la prima a diciassette anni, la seconda come prigioniero politico a Ziegenhain, arrestato e condannato a morte in quanto membro della Resistenza. È un uomo coraggioso e dalle profonde convinzioni. Da buon discendente dei cavalieri medioevali, concepisce i privilegi ereditari come contropartita dei servizi resi alla società: nel Medioevo era la difesa; nel XX secolo è lo sviluppo economico. Sposa la ragazza più bella della sua generazione, un’erede degli champagne Möet et Chandon. Negli anni Venti abbandona la carriera militare per assumere la guida di quell’azienda, che dirige e sviluppa considerevolmente fino al 1973, anno in cui va in pensione dopo aver trasformato una piccola impresa famigliare in impero.
Deve questo straordinario risultato solo alla forza del suo carattere e delle sue idee. Alla fine della sua vita le raccoglie in un libricino intitolato Alerte aux patrons*, che ancora oggi è il mio «libro da comodino».
Naturalmente, Robert-Jean de Vogüé è molto criticato nel suo ambiente. Lo chiamano addirittura «il marchese rosso», e lui replica: «Non sono marchese, ma conte». Non rinnega il colore politico. I finanzieri che gli succedono ne distruggeranno l’operato. Lui resta il mio punto di riferimento. Mio figlio si chiama Robert-Jean.
Mio padre, Charles-André, è il primogenito di Joe Pozzo di Borgo e decide di cimentarsi con la vita operosa. Si può dire che sia il primo Pozzo a lavorare; era un modo per contrapporsi a suo padre. Inizia come operaio in un cantiere petrolifero in Nordafrica e a partire da lì si costruisce una carriera grazie alle capacità, all’efficienza e al dinamismo che lo contraddistinguono. Il lavoro porta in diversi Paesi lui e la sua famiglia, me compreso. Qualche anno dopo la morte di suo padre, abbandona la carriera alla guida di una compagnia petrolifera per mettere ordine tra gli affari di famiglia.
La mia cara mamma in un solo anno partorisce tre figli: Reyner e, undici mesi dopo, il mio gemello Alain e me. Trasloca quindici volte per seguire mio padre, ogni volta abbandonando i mobili ingombranti e le poche amicizie che si era costruita. Con papà sempre in viaggio, una nanny si prendeva cura di noi per proteggere mamma dalla nostra turbolenza. Dall’epoca del passeggino condiviso con Alain, prendo l’abitudine di sedermi su di lui. Aspetterà di avere parecchi anni e qualche centimetro di vantaggio su di me per assestarmi una bella scarica di cazzotti che allevierà solo in parte le sue frustrazioni.
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Oggi mi spinge, ingobbito nella mia sedia a rotelle.
Chiunque ha potere su di me. Mi rifiuto di sollevare la testa.
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A Trinidad trascorriamo le giornate giocando in spiaggia, vestiti come gli indigeni con cui nuotiamo tutto il tempo. Ancor prima di parlare francese impariamo a esprimerci nell’inglese locale. La sera ci azzuffiamo nella nostra stanza. Conservo il ricordo preciso di un gioco che consisteva nel saltare sul proprio letto e allo stesso tempo far pipì su quello del fratello.
Poi è la volta del Nordafrica: Algeria e Marocco. Scopriamo la scuola, studiamo francese con un’insegnante di età imprecisata, timida e zitella. Un giorno di vento fortissimo mi aggrappo a un pilone e vedo mio fratello, che era molto mingherlino, prendere il volo. La signorina lo afferra nel tentativo di trattenerlo, ma invano. Per fortuna una ringhiera li ferma. Per la prima volta provo una sorta di gelosia nei confronti di questo gemello che attira l’attenzione delle signore.
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Ora sono un metro e ottanta abbondanti, cinquanta chili di materia inerte, e il resto è piombo. Fuori servizio!
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Reynier prende le distanze da noi «piccoli», ed è subito «i gemelli contro il cattivo Big Fat». Consapevole delle sue responsabilità di primogenito, quando ritiene che sia in ballo la nostra educazione, il fratello maggiore non esita ad approfittare delle sue enormi dimensioni per picchiarci con quelle mani smisurate.
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Adesso grido di dolore, senza essere in grado di picchiare quelli che abusano della mia paralisi.
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Dopo il Marocco, Londra. La nanny si chiama Nancy. Noto le manovre di Reynier intorno a questa bella brunetta. S’infila nel suo letto all’insaputa dei miei genitori, e lo sento ridacchiare. Le provo tutte per riuscire a intrufolarmici anch’io, senza sapere bene il perché. Un giorno cerco addirittura di prendere una parvenza di febbre sedendomi su un termosifone bollente nella speranza di poter essere curato da Nancy e magari finire nel suo letto… Il mio tentativo non dura a lungo: il sedere mi tradisce e, chiappe e gote in fiamme, sono costretto a togliere l’assedio.
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Rimpiango le sensazioni che mi mostravano i miei limiti. Quel corpo dalle frontiere incerte non mi appartiene più.
La mano che mi accarezza, ormai, non mi tocca più. Ma queste immagini riescono ancora a darmi emozioni, mentre tutto è bruciore.