Kiss machine
È alta. Si nota per il portamento e l’andatura elegante. Il volto perfetto esprime gioia di vivere, intelligenza e irrefrenabile vitalità.
L’azzurro cielo degli occhi, sempre sorridenti, è reso più intenso dal contrasto con il nero delle ciglia e delle sopracciglia. La guardo in continuazione, emozionato da tanta grazia e dall’amore che nutro per lei. È sempre semplice e allo stesso tempo raffinata. Spesso sono io a scegliere l’abito che indosserà. Conosco ogni centimetro della sua morbida pelle, la peluria sopra il labbro superiore, la dolcezza di quello inferiore, il lobo perfetto delle orecchie, l’incavo del collo dove nasce la spalla, raramente nascosta, i piccoli seni sodi che s’induriscono per il piacere delle carezze, soprattutto il destro; il ventre morbido su cui spesso mi addormento, le anche generose che m’incoraggiano quando l’abbraccio. Risalgo fino al suo collo, dove mi assopisco dopo l’amore.
Per strada la tengo per il gomito. «Ehi! Guardate, è la mia compagna!» Ci abbracciamo senza pudore.
Le nostre famiglie ci hanno soprannominato «Kiss Machine».
A vent’anni ci preoccupiamo per i nostri abbracci futuri, di quando saremo quarantenni. A quarant’anni, anche se le sue gambe sono meno agili, l’amore resta dolce. Leggiamo insieme, suoniamo insieme. Siamo inseparabili. Dopo il mio incidente, indebolita dal tumore, continua nei nostri giochi amorosi. Ci amiamo attraverso le labbra.
Ho sempre avuto voglia di stare con lei; mi sentivo più bello, più grande.
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La nostra vita è una musica. Fin dai primi tempi, a Reims, noleggio un pianoforte nel deposito di un falegname, stracolmo di roba. Lei mi raggiunge lì. È il mio periodo Chopin-Schumann-Schubert. Si siede su una cassa e mi ascolta, leggendo. Ai concerti ci teniamo per mano. In una serata di lieder di Schubert mi tira una gomitata, trova indecente l’attenzione che sembro prestare all’avvenente cantante. Quando ci stabiliamo nella Champagne prende lezioni di canto. Non passa giorno senza che ci dilettiamo in uno dei nostri duetti, che sia Mozart o qualsiasi altra cosa. Il suo mistero è nel canto, nella parte più profonda di lei, come una vibrazione della natura. Avverto sintonia, quando ci unisce l’ammirazione per il bello? Più che un canto, scorgo in fondo a me un’armonia quasi sensuale. Non respiro, se non al ritmo del suo inspirare.
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Ovunque io mi trovi nel mondo, lei è l’unico universo che conti per me: la sera, l’uno accanto all’altra, nudi nel nostro letto, parlottando dei nostri figli, la certezza di essere amati, la tenerezza dei corpi. Su questa terra percorsa senza sosta, è quel letto la mia unica scoperta.
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Pozzo è rinato grazie alla sua meravigliosa compagna. Saldo i miei debiti di gioco vendendo il bel Maggiolino arancione, regalo dei miei diciotto anni. Compro una vecchia ID19 dal proprietario del bar, che l’ha conservata magnificamente. Porto Béatrice ovunque, su questa carrozza. Sono il re dei mascalzoni, e lei è la mia regina.
Una sera, tornando a Reims da Parigi, una nebbia fitta ci fa rallentare. Ma che importa: Béatrice è al mio fianco, il tempo non esiste più. Intravedo il cartello che segnala l’ingresso a Meaux. Non si vede nulla, eccetto il bagliore dei fari riflessi dalla nebbia. Intuisco la stazione dei treni di cui sono alla ricerca, ovunque c’è un Hotel della Stazione. Béatrice è un po’ confusa quando suono e busso alla porta dell’albergo addormentato. Dopo un lungo istante, una donna biliosa reclama il silenzio. Insisto. Finalmente la luce si accende. Uno scialle nero in pantofole ci precede sulle scale. Il parquet scricchiola. Neanche una parola fino a quando la porta si richiude alle nostre spalle. Béatrice è sempre accanto a me. Senza smettere di abbracciarci, raggiungiamo il letto rischiarato da una tremula abat-jour. Béatrice ride dell’incredibile baccano che le vecchie assi del letto fanno risuonare per tutto l’edificio. In quel frastuono sussurriamo per tutto il resto di questa deliziosa notte. Nella sala della colazione, lo scialle nero ci domanda se abbiamo trascorso una buona nottata; gli zigomi di Béatrice si imporporano. Addenta un croissant caldo. I nostri sguardi s’incrociano.
Alla fine del secondo anno, gli studenti di Scienze politiche devono fare uno stage. Siamo da poco ufficialmente fidanzati. Il mio futuro suocero ottiene dal comune di Montpellier un’opportunità di stage nella città gemellata di Louisville, in Kentucky. Siamo entrambi assegnati alla piccola banca locale, la Louisville Trust Co. Supponendo di fare un piacere al prefetto, l’università ci sistema presso un’anziana signora del posto in una lussuosa casa coloniale. Più volte sposata e vedova, la signora è eccitatissima dall’arrivo di questa giovane coppia. Ben informata, ci accoglie con una riverenza degna di count and countess. Ci coccola, ci accudisce: impossibile buttarla fuori dalla nostra stanza. La immagino trascorrere diverse notti con un orecchio incollato alla porta, alla ricerca dei sospiri che le mancavano.
In banca Béatrice è assegnata all’ufficio legale, io ficco il naso nella gestione dei patrimoni. Ogni due ore abbiamo diritto a una pausa-caffè di quindici minuti. Ci scaraventiamo di corsa nell’ascensore, dove ci incontriamo per baciarci tutto il tempo concesso. C’è di che scandalizzare l’America puritana e confortare l’immagine che gli indigeni hanno di noi francesi. Ormai ci chiamano semplicemente the French lovers. Per strada i nostri giochi proseguono, provocando stridori di freni, colpi ripetuti di clacson, ingorghi e scoppi di risa. Ho persino conservato il ricordo di una famiglia di poveri contadini, evidentemente tutti imparentati tra loro, rimasta pietrificata per cinque minuti, il tempo che scomparissimo dal loro campo visivo.
La nostra ospite organizza un barbecue attorno alla piscina, riunendo tutta Louisville per presentare i suoi aristocratici innamorati. Siamo due piccioncini senza gabbia e senza complessi. Tutto va bene, finché siamo insieme.
Di notte, c’è una posizione che abbiamo sempre amato molto. Ci sistemiamo l’uno dietro l’altra, raggomitolati. Con una mano le scopro la nuca e con l’altra le cingo l’anca. In perfetta sincronia, in un frammento di tempo inafferrabile, invertiamo le posizioni. Prolunghiamo gli abbracci, i giochi e le confidenze e, a un tratto, la notte ci riconduce a questo semplice balletto. Da dopo l’incidente, resto disteso sulla schiena, Béatrice poggia la testa nell’incavo della mia spalla e mi dice dove mette le gambe e le braccia; e io cerco di immaginare la posizione del suo corpo.
Ho sofferto così a lungo di non poterla accarezzare, di non poterla amare.
Avvicina la testa al mio collo, e la notte si riduce alla mia donna rannicchiata accanto a me. Non si è mai lamentata. Lei, martirizzata dal tumore che la indebolisce giorno dopo giorno, e io, paralizzato nel mio bruciore, abbiamo ridotto o, piuttosto, allargato il nostro amore a queste due teste che la sera si toccano teneramente. E così scappiamo via.