Arriva Abdel
Dopo un anno di riabilitazione in Bretagna, abbandoniamo la Pitance.
Béatrice trova un bel pianterreno con giardino nel cuore di Parigi. Fa i lavori, arreda tutto. Mio suocero s’è rivolto ai servizi dell’Esercito perché Jean-François, giovane legionario ferito nella guerra del Golfo, m’assista in tutti i miei movimenti. È taciturno. Vive con un cane lupo. Per tre mesi va tutto bene, fino a quando Béatrice non viene di nuovo ricoverata. Chiedo a Jean-François di passarmi a prendere in ospedale alle otto della sera. Alle undici ancora non s’è visto. Alla fine si presenta, senza dire una parola, e mi sistema alla bell’e meglio nel furgoncino attrezzato. Il viaggio viene fatto in stile «Pozzo dei tempi andati». Non si ferma ai semafori. La mia sedia scivola da un lato all’altro del furgoncino. Di colpo, a un semaforo verde, tira il freno a mano, si mette di traverso sulla carreggiata, scende di gran corsa, sempre senza dire una parola. S’azzuffa coi due occupanti dell’auto che ha cercato di superarlo durante i suoi zigzag. Risale, definitivamente muto, per «riportarmi» a casa. Io, inchiodato al suolo, m’infurio, impotente; aspetto che mi abbia rimesso a letto per annunciargli che i suoi servizi terminano qua.
Lui mi spiega con dignità che ha ripreso a bere. Ci lasciamo in amicizia.
Abdel è il primo che si presenta in risposta a un annuncio fatto circolare dall’ufficio di collocamento. Sono ottanta, uno solo dei quali è francese; procedo per eliminazione e non restano che Abdel e il francese, entrambi in prova per una settimana. Avverto in Abdel personalità, intelligenza nel gestire le situazioni e qualcosa di quasi materno. In più, sa cucinare bene, anche se lascia tutto in disordine.
Il francese ha la malaugurata idea di dirmi che far entrare un musulmano in casa è come far entrare il demonio. Non avrebbe dovuto: il giorno stesso assumo Abdel. Gli arrediamo un appartamento di venti metri quadri all’ultimo piano. È ben pagato, vitto, alloggio e bucato inclusi. Un giorno mi confessa che è la prima volta che viene trattato con rispetto. Ha fatto solo lavoretti occasionali.
Dal momento che è molto orgoglioso – cosa che scoprirò in seguito – gli capita di andarsene dall’ufficio dei suoi datori di lavoro il primo giorno di impiego, sbattendo la porta, e se serve malmenandoli per insegnare loro le buone maniere.
Solo una volta m’ha raccontato il trauma che ha avuto da bambino. Quella volta gli ho visto sul viso lacrime di frustrazione. I suoi genitori avevano più di dieci figli. A tre anni l’hanno «regalato» a uno zio paterno che non ne aveva. In Algeria era, a quanto pare, una tradizione. Lui non l’ha mai accettato. Scontroso e solitario, dentro la nostra famiglia si sente accolto.
Ce l’ha col mondo intero. È alto un metro e settanta e, per compensare, ha sviluppato una forza straordinaria. Colpisce tutti quelli che gli «mancano di rispetto», uomini o donne: «Le donne non si picchiano» dice. «Ma quella lì non doveva darmi dello sporco arabo».
Certo, omette il fatto che ha accelerato mentre la donna di cui parla attraversava sulle strisce pedonali, che poi ha inchiodato, né che la donna non ha risposto alle sue avances.
Alcune donne lo rifiutano, ma sono stupito dalla quantità di donne facili. Ne ho viste anche che gli scrivevano il numero di telefono sulla mano in presenza dei mariti, cosa che sembra non turbarlo affatto. Una ha accettato le sue avances mentre era in compagnia di madre e figlia. Va detto che Abdel è uno spasso e possiede un’innocente sfrontatezza che probabilmente fa scattare in loro l’istinto materno, anche se ha l’aria di un diavoletto.
Un pomeriggio, al telefono, una donna urla e singhiozza. La calmo e le chiedo di dirmi qual è il suo problema. Non credo alle mie orecchie. Ha conosciuto Abdel quel pomeriggio. Gli ha chiesto di invitarla al ristorante. «Non c’è problema» ha risposto lui. Sorprendente, dal momento che Abdel si rifiuta di intrattenere le sue conquiste.
S’è fermato «per caso» accanto al cimitero Père-Lachaise e le ha chiesto un «aperitivo». La ragazza, che non doveva essere alla prima esperienza, mi descrive accuratamente l’esercizio a cui s’è dovuta prestare per soddisfare il bisogno impellente del nostro demonietto. Una volta accontentato, lui le ha chiesto di prendere qualcosa dal portabagagli… e quando lei è scesa è ripartito a razzo, piantandola per strada. Le prometto che gli farò un discorsetto.
Abdel rincasa. Gli racconto con tono di biasimo ciò che ho appena sentito. Gli ci vogliono dieci minuti per riaversi dalle risate e chiude il discorso dicendo che ha risparmiato un pranzo e un aperitivo. Mi racconta altre storie come questa, fin quando, scoraggiato, non lo interrompo.
Solo una lo terrorizza, ed è la mia cara Laetitia. Quando è in camera sua devo chiamarla per telefono, per non costringere Abdel a bussarle alla porta. Mai, mi dice, una ragazza l’ha trattato come ha fatto lei una volta; e questo non può che fargli bene.
Quanto ai suoi rapporti con gli uomini, li riduce alla legge del più forte. È convinto che in questo mondo marcio, bisogna essere più marci degli altri.
Un pomeriggio mi carica sull’auto, fa sedere Laetitia al posto del passeggero, la parcheggia provvisoriamente davanti al posto auto di un vicino, e scende per tornare a casa e chiudere la porta a chiave. Arriva un’auto con targa del corpo diplomatico: il vicino, che attacca a suonare il clacson con veemenza. La cosa ad Abdel non mette certo fretta, anzi: viene anche a controllare che io sia ben legato al sedile. L’altro, diventato color porpora, s’incolla al clacson. Abdel si avvia lentamente verso la portiera del veicolo. Esasperato, il vicino si fionda fuori dalla sua bella Volvo e lo insulta. È un americano che supera il nostro bandito di una testa buona e di una trentina di chili. Abdel lo prende per il collo e lo apostrofa: «Che vuoi?» L’altro, in un francese approssimativo, se la prende con la sua maleducazione. Prima testata. L’americano sanguina dalle gengive. È furioso. Esige di vedere il padrone dell’aggressore. Abdel, un po’ più bianco del solito, indica che sono nel retro della macchina e rilancia con due grossi schiaffoni. Mi raggomitolo sul mio sedile. Laetitia si sdraia sul suo per la vergogna. L’americano, confuso, arretra fino alla sua auto e si scusa; si fa da parte per lasciarci passare. Abdel ride per cinque minuti; l’alterco gli ha fatto bene. Probabilmente si sente sollevato solo dopo aver dispensato la sua dose quotidiana di botte. La mia ramanzina lo spiazza. Ogni volta che tengo le mie conferenze nelle scuole professionali, si addormenta nel giro di cinque minuti; ogni volta che parlo di speranza nei licei o nelle chiese, russa in piedi.
Ha frequentato le scuole lo stretto indispensabile, giusto il tempo di malmenare una discreta quantità di professori e di assistere allo stupro collettivo di uno di loro, stupro a cui, dice lui, non ha partecipato.
Ha trascorso tutta la giovinezza in una città della regione di Parigi dove si cresce imparando a rubare e a spacciare. Ride ricordando le prigioni francesi, veri e propri alberghi. Stando a quello che dice, sono moltissimi gli abitanti di quei quartieri che passano l’inverno in galera per starsene al calduccio e in estate escono per svaligiare case.
Credo mi stimi perché lo considero intelligente e penso che meriti un avvenire che non sia di miseria. Vede il nostro ambiente privilegiato come un mondo extraterrestre, l’unica realtà che conosce è la violenza della strada. E tuttavia cresce mio figlio con grande gentilezza, e Robert-Jean lo tratta come un fratello maggiore.
Abdel non dorme mai se non per pochi minuti, in qualunque posizione. Il modo in cui guida è stravagante come la sua vita. S’addormenta al volante. La cosa m’angoscia; sono costretto a tenerlo sveglio. Malgrado i miei sforzi, fa un sacco di incidenti, come un giorno in cui sono sdraiato sul materasso antidecubito sul retro del furgone. Viaggiamo in autostrada da più di tre ore, quando si sente un gran fracasso. Vengo catapultato tra la portiera anteriore e il sedile del passeggero. Ho il viso coperto di sangue, non riesco a parlare. Arrivano i pompieri, vanno a soccorrere i passeggeri dell’altra auto. Un pompiere apre lo sportello posteriore, lo richiude e dice: «C’è un morto!» Abdel mi sposta, raddrizza il parafango anteriore aiutandosi con una sbarra di metallo e riparte come se niente fosse, imprecando contro la donna che gli avrebbe inchiodato davanti. Di fatto, s’era addormentato.
È talmente orgoglioso che non lo ammetterebbe mai. «Sono il migliore» ripete sempre, ridendo. Ne è convinto, non ascolta alcun rimprovero.
È insopportabile, vanitoso, orgoglioso, brutale, superficiale, umano. Senza di lui sarei morto di decomposizione. Abdel m’ha curato senza sosta come se fossi un neonato. Attento al minimo segnale, presente durante tutte le mie assenze, m’ha liberato quando ero prigioniero, protetto quando ero debole. M’ha fatto ridere quando ero a pezzi. È il mio diavolo custode.